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  1. #121
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  2. #122
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    Oneto: Bianchi, Rossi e Verdi, i condomini di bandiera

    21 Mar 2016 · 0 Commenti




    di GILBERTO ONETO – I Verdi vivevano nelle loro case, lavoravano sodo, stavano bene ma avrebbero potuto stare meglio se non avessero dovuto pagare i dazi e le gabelle che imponevano loro i vicini Bruni, che si erano organizzati in strutture più efficienti. I Verdi non vedevano l’ora di liberarsi da queste tutele per godersi in libertà il frutto del loro lavoro. I Bianchi stavano poco più in là nei loro villaggi, erano rilassati, si godevano la vita con calma e facevano il minimo indispensabile per vivere bene. Si davano meno da fare dei Verdi ma si contentavano di poco e mettevano da parte tutti i loro guadagni: nel tempo sotto le mattonelle dei pavimenti avevano accumulato dei discreti gruzzoli.

    I Rossi erano dei furbacchioni che non avevano voglia di lavorare, però avevano girato il mondo e imparato tutte le più abili tecniche per fregare il prossimo. Inoltre erano abilissimi nel raccontare balle e nel convincere la gente che il bianco è nero e viceversa. Arrivati in zona, si erano subito accorti che i Verdi sgomitavano per diventare più ricchi e liberi dei loro vicini Bruni, e che i Bianchi avevano dei bei mucchietti di monete nascosti da qualche parte. Hanno subito capito che avrebbero potuto trarre grassi vantaggi dalla situazione e si
    sono inventati una bella storiella secondo la quale tutti e tre i gruppi familiari, i Bianchi, i Rossi e i Verdi, discendevano da antenati comuni, che costituivano una grande famiglia che – unita – sarebbe stata più grande, forte e ricca non solo dei Bruni, ma anche di tutti i Grigi, Viola, Celeste, eccetera della terra.

    I Verdi, che sono più ingordi ma anche molto più ingenui (nel loro slang famigliare, si definiscono dei pirla) ci hanno creduto e, accecati dalla voglia di rivalsa sui Bruni, hanno subito bevuto la panzana e si sono messi al servizio dei Rossi per costruire una nuova casa comune per la ritrovata famiglia. I Bianchi però se ne stavano benone come erano e non ne volevano sapere e così i Rossi hanno convinto gli energetici e creduloni Verdi ad andare a casa dei Bianchi e convincerli – con le buone o con le cattive – a traslocare nella nuova dimora. Per tenere tutti assieme si è infatti dovuto costruire un palazzone, orribile, squadrato e scomodo: i Verdi ci hanno messo la manodopera, i Bianchi i quattrini che avevano accantonato e che i Rossi hanno sequestrato per la causa comune. Tutti hanno dovuto lasciare le loro casette per trasferirsi in appartamenti: nessuno è stato contento di farlo ma tutti si sono convinti (o sono stati costretti a credere) che da allora sarebbero vissuti meglio e che il futuro avrebbe riservato loro chissà quali meraviglie. Ad amministrare il condominio ci hanno ovviamente pensato i Rossi, che sapevano leggere e scrivere, che avevano redatto il progetto del falansterio, che ne hanno scritto (a loro vantaggio) il regolamento e che conoscevano tutti i trucchi per tenere buoni i condomini e – all’occorrenza – farli litigare fra di loro per poi presentarsi come i solutori di tutti i problemi. I Rossi si erano accomodati in alcuni superattici ai piani alti, con piscina e vista.
    Per i primi tempi tutti hanno vissuto dissipando i risparmi dei Bianchi e investendone una piccola parte per comperare macchinari e utensili per i Verdi, che si sono messi a lavorare a testa bassa per far vedere ai Bruni (che li prendevano in giro per la loro nuova collocazione) che sarebbero riusciti a diventare più ricchi di loro.


    Finiti i risparmi, anche i Bianchi avrebbero dovuto mettersi a lavorare: molti di loro – non sopportando la sgradita coabitazione – erano però scappati e si erano trasferiti in villaggi lontani, mentre alcuni si sono adattati alle tristi condizioni di lavoro dei Verdi e li hanno seguiti nelle loro fatiche. Ma tutti gli altri – giustamente risentiti per essere stati costretti a rinunciare al loro modo di vita tranquillo e
    per essere stati rapinati – hanno deciso di farsi mantenere dai Verdi (e dai loro famigliari che si sono adattati alla vita dei Verdi) e hanno stipulato con i Rossi un patto di alleanza: li avrebbero sostenuti e appoggiati nell’opera di sfruttamento dei Verdi in cambio del ritorno alla vita tranquilla di prima, a spese dei Verdi, considerati (a torto e per convenienza) causa del loro trasferimento nel condominio.

    Per un po’ la cosa è andata avanti: i Verdi lavoravano sodo per far vedere ai Bruni e a tutti gli altri di essere più bravi di loro e perché qualcosa restava comunque nelle loro tasche. Col tempo però i Bianchi sono diventati sempre più numerosi ed esigenti, i Rossi sempre più costosi e prepotenti e le condizioni generali di mercato hanno cominciato a immiserire i Verdi, che hanno preso a rimpiangere sia i tempi dei Bruni che la mancata occasione di restarsene liberi nel loro villaggio. Per un po’ si sono limitati a mugugnare, poi hanno
    pestato i piedi e hanno cominciato a spintonare. All’inizio sono bastati i Bianchi a trattenerli ma quando qualcuno di loro è arrivato fino al superattico a lanciare liquame, i Rossi hanno dovuto prendere provvedimenti più radicali per difendere le proprie posizioni di privilegio.

    Si sono rivolti ai Neri, una famiglia poverissima e senza casa, che è stata invitata a condividere gli appartamenti dei Verdi, nella speranza che la preoccupazione per questa nuova presenza avrebbe indotto i Verdi (e anche taluni dei Bianchi) a più miti consigli e a convincersi dell’impraticabilità di ogni alternativa alla vita di condominio e alla tutela dei Rossi. La cosa però non ha funzionato: i Neri hanno esagerato in prepotenze, rumore e maleducazione, hanno rotto gli infissi, imbrattato i muri, urinato sulle scale, rubato la
    biancheria e a un certo punto si sono messi a taglieggiare e malmenare i coinquilini. I Verdi hanno reagito male: invece di “stringersi a coorte” attorno a Bianchi e Rossi, hanno smesso di lavorare e di fare figli, alcuni di loro sono emigrati, altri se ne sono tornati al loro villaggio e rifiutano ogni contatto con l’esterno. L’intero condominio è precipitato nel caos e nella più profonda miseria. Vista la mala parata, i Rossi si sono trasferiti alle Bahamas a godersi le ricchezze che hanno accumulato.

    Tutti gli altri sono alla fame e sopravvivono discretamente solo i Neri che ci erano abituati da sempre.
    Aveva scritto Carlo Cattaneo, uno dei uno dei Verdi che fin da subito si era rifiutato di rasferirsi nel condominio, che «quando
    ogni fratello ha casa sua, le cognate non fanno liti».
    Ma i Verdi leggono poco.


    (da “Il Federalismo”, direttore responsabile Stefania Piazzo)



    - See more at: Oneto: Bianchi, Rossi e Verdi, i condomini di bandiera | L'Indipendenza Nuova

    http://www.lindipendenzanuova.com/bianchi-rossi-e-verdi-i-condomini-di-bandiera/
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  3. #123
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    Ultima modifica di Eridano; 22-03-16 alle 20:36
    Se il popolo permetterà alle banche private di controllare l’emissione della valuta, con l’inflazione, la deflazione e le corporazioni che cresceranno intorno, lo priveranno di ogni proprietà, finché i figli si sveglieranno senza casa.

  4. #124
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    Bruxelles 3/ Oneto: dove arriva l’islam, distrugge

    23 Mar 2016 · 0 Commenti




    di GILBERTO ONETO* – La vitalità della morte. Il Sycios angulatus è una pianta infestante che striscia, radica e si arrampica con devastante vitalità: dove si insedia uccide ogni altra presenza vegetale e ricopre tutto con un triste manto verdastro nei mesi caldi e con un groviglio di seccume nei periodi freddi. Non c’è verso di fermarla se non tagliandola o estirpandola sistematicamente, stagione dopo stagione. Dove questo non viene fatto, la mala pianta occupa e distrugge tutto: ci sono colline, edifici e paesaggi interi che ne vengono ricoperti e desertificati. Sparisce ogni differenza, ogni colore, ogni segno di vita e di vitalità.

    Dove arriva l’Islam fa lo stesso: distrugge ogni altra religione, cultura e identità, e ricopre tutto con il manto grigio e uniforme della mortifera osservanza coranica. In 14 secoli ha annientato civiltà antiche, ricche che erano stati straordinari capitoli della storia del mondo. Il paradigma del suo atteggiamento nei confronti della cultura e della libertà intellettuale (e della libertà tout court) si trova nella vicenda delle biblioteca di Alessandria, la più vasta raccolta di opere dell’antichità, completamente distrutta nel 646 dal califfo ’Amr ibn al-’Âs, sostenendo che dovessero essere eliminati tutti i libri, sia che dicessero cose diverse dal Corano (e perciò dannosi) o che contenessero cose coerenti col Corano (e perciò superflue). Se ne sono andati in fumo migliaia di volumi provocando il più grande danno mai fatto alla cultura universale.

    Non ci sembra che quel contegno sia mai cambiato. Per fortuna esso ha anche avuto un importante risvolto positivo: il rigetto di ogni volontà di progresso anche scientifico ha in passato condannato l’Islam a soccombere militarmente di fronte a società che non hanno mai smesso di cercare di progredire sul piano scientifico e culturale. Il confrontarsi dell’Islam col mondo si riflette anche nel suo atteggiamento verso l’aspetto fisico del mondo, che deve forzatamente essere triste, grigio e dimesso. Questo si vede nelle palandrane con cui avviluppano i loro corpi, nella sciatteria delle loro città e delle loro case (fa naturalmente eccezione lo sfarzo dei ricchi e dei potenti), nella pochezza della loro cucina che si è privata di tutti gli ingredienti che rendono piacevole la vita senza trasformarla in licenziosità. Il Pakistan e l’India sono – ad esempio – abitati da genti dalla stessa origine etnica ma passare dall’uno all’altra è come passare dal buio alla luce, dalla tristezza bisunta e piena di livore all’allegra confusione di colori, di figure, di aromi, di un’esplosione
    artistica figurativa.


    Oggi Bali è – per fare un altro esempio – una delle mete turistiche più ambite soprattutto per la bellezza delle sue architetture, per lo splendore dell’arte e del suo artigianato, per la sfolgorante gioiosità del suo folclore e dei suoi riti religiosi. Tutte le altre isole attorno hanno lo stesso clima e lo stesso mare ma sono state intristite dalla patina islamica che le ha ricoperte come uno spurgo petrolifero uccidendo ogni forma di vitalità. La tristezza del chador contro l’allegria del sari.
    L’Islam – si sa – condanna la riproduzione non solo di Dio ma delle figure umane, e spesso anche di quelle animali costringendo i pochi artisti sopravvissuti (e ortodossi) ai complessi virtuosismi di motivi geometrici e vegetali. Tutto il resto va distrutto sistematicamente. Questo vale per le cose più piccole come la santella della Madonna che un deficiente macedone ha di recente eliminato da una casa di Dosolo in provincia di Mantova, ai Buddha di Banyam, presi a cannonate dai guerrieri di Allah, dai monasteri ortodossi di Kossovo e Metochia, diroccati da prodi albanesi, alle migliaia di chiese,
    pagode, templi di qualsiasi religione che questi iconoclasti (che mostrano vitalità solo nel distruggere) hanno raso al suolo nel corso dei secoli. Costantinopoli era una delle città più belle, più ricche di opere d’arte e di architetture, era una sorta di straordinario museo del mondo:
    Istambul oggi è un luogo grigio e Santa Sofia – uno dei più radiosi edifici dell’umanità – è rimasta un involucro spelacchiato.


    La stessa sorte sarebbe toccata a Venezia, a Vienna e al resto d’Europa senza Marco d’Aviano, senza Lepanto, senza milioni di europei cristiani che proprio anche alla forza delle immagini hanno fatto simbolico ricorso.
    In realtà l’iconoclastia non è una malattia solo islamica: per un certo periodo ha guastato anche il Cristianesimo.
    Quello orientale se ne è liberato con sanguinose fatiche; quello occidentale ha dovuto subire le scelleratezze di puritani, anabattisti e altri trucidi personaggi prima di ritrovare serenità e ragionevolezza.
    Gente che aveva per antenati Celti e Germani (e il loro gusto per arte e colore) non poteva che soccombere alla forza delle origini: oggi molti dei più bei musei d’arte figurativa sono in Paesi protestanti. Si obietterà che anche taluni maomettani abbiano prodotto grandi esempi di arte figurativa: si ricordano i persiani e i moghul. I primi erano sciiti (che sono sempre stati un po’ più civili), e gli altri erano indiani fino al midollo e non potevano fare a meno di figure e colori. Sia persiani che indiani sono poi indoeuropei e ritorna il ragionamento delle origini. Si dice sempre che anche gli almoravidi di Spagna fossero colti e avessero sviluppato una raffinata arte figurativa: si trattava però solo di un sottile (e, fortunatamente, precario) strato islamico sopra celti, visigoti ed ebrei.


    Quasi tutti ebrei o armeni erano anche i grandi dotti del passato di cui ogni tanto l’Islam si fa vanto. L’Islam è una sorta di malattia, è una invasione di fameliche cavallette che divorano tutto, è il buio di Mordor che annienta, è il Syicios angulatus della cultura e della libertà. Se prevale, non perdiamo solo la grappa, il salame o i fumetti, non verranno solo distrutte chiese e musei, non vedremo solo la tavolozza del nostro mondo ridotta a un unico urfido colore. Se prevale, perdiamo la ricchezza della nostra civiltà, perdiamo la libertà. Perdiamo tutto.

    (da Il Federalismo, direttore responsabile Stefania Piazzo)

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  5. #125
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    Vietato diventare come Zapata. Prima rivoluzionari, poi cadregari

    28 Mar 2016 · 0 Commenti



    di GILBERTO ONETO – I banditi di strada “normali” puntano la pistola o un coltello e intimano: «O la borsa, o la vita!». Se la prendono e se ne vanno. Quelli più educati (sui rotocalchi li chiamano “gentiluomini”) dopo ringraziano e se ne vanno. Ci sono però anche banditi sadici, che costringono le vittime a elaborate acrobazie per consegnare loro i soldi, si inventano micraniose forme di pagamento, e non ringraziano. La Repubblica italiana appartiene a quest’ultima genia ma riesce anche a fare di peggio. Punisce chi ha commesso qualche errore nel consegnare la borsa, incrudelisce se la forma di pagamento non è stata rispettata alla lettera, e ritorna anche dieci anni dopo a infierire se, rovistando fra le carte, sospetta che il malcapitato non si sia fatto rapinare con le modalità prescritte.


    In questi giorni alcune amministrazioni provinciali stanno graziosamente comunicando per lettera a tutti i cittadini che dal nuovo anno dovranno non solo fare revisionare la propria caldaia da una ditta specializzata e, soprattutto, autorizzata (non è una novità) ma anche pagare un “bollino verde” che attesti l’avvenuta ispezione. Chi non lo fa, rischia una “Sanzione per mancata manutenzione” che va da 516,46 Euro a 2.528,28 euro. Serve fare alcune considerazioni. La prima riguarda il motivo per cui la Repubblica debba mettere il naso nelle condizioni di pulizia delle nostre caldaie. Lo fa – sono certo che ci verrebbe risposto – per il nostro bene e la nostra sicurezza: prima
    o poi verrà anche a controllare le condizioni dei forni e delle lavatrici, se pentole e posate siano state ripulite bene e se ci laviamo dietro le orecchie tutte le mattine. La seconda considerazione riguarda i numeri: sono anni che l’euro è entrato in vigore e la Repubblica continua a ragionare in lire e a tradurre gli importi.

    L’ultima cosa riguarda il macchinoso ambaradan che viene messo in piedi: lavora l’installatore, lavora chi effettua la verifica tecnica, e lavorano (si fa per dire) anche gli ispettori provinciali e il personale che in un ufficio arioso registrerà bollini e sanzioni. E poi si dice che la Repubblica non si dia da fare per creare posti di lavoro!
    Quella del “Bollino verde” non è la sola trovata degli ultimi anni. Il genio dell’italica burocrazia si è infatti di recente inventato anche il “Bollino blu”, quello che si deve fare tutti gli anni per evitare di morire avvelenati dall’ossido di carbonio sotto la galleria del Monte Bianco; ha creato un elegante giubbetto arancione che – purché regolarmente omologato – ci trasforma tutti in agenti della polizia stradale austriaca (anche senza Rex) ogni volta che scendiamo dalla macchina e ci evita i colpi di freddo; ancora per gli automobilisti, ha deciso che si debba viaggiare con i fari sempre accesi per aumentare il numero di insetti spiattellati sui fanali e con ciò diminuire la necessità di impiego di pesticidi nei campi; ha rivisto gli estimi catastali costringendo milioni di poveretti a estenuanti maratone aritmetiche che anche i più complicati test per il Q.I. evitano per l’eccessiva complicatezza. Queste e molte altre novità si aggiungono a prodezze più consolidate, come il bollo per l’auto, il canone televisivo, il casco sui motorini, le patenti obbligatorie forse anche per i monopattini, i condoni di ogni genere, le cartelle esattoriali pazze (del tipo “Mettiamo importi bassi, così – pur di levarsi dai piedi la scocciatura – tanti pagano senza protestare»), i bolli sul passaporto (una originalità
    unica al mondo), gli autovelox dietro l’angolo per acchiappare i pirati dei 56 chilometri all’ora, i ticket, le scadenze che vanno e vengono, ma non ce ne sono mai due che coincidono, la fantasia nell’inventare modalità di estorsione (i conti correnti postali, le cifre da arrotondare al centesimo superiore, il modello F24, le ottocentesche marche da bollo con importi che non esistono, il Red, il Mav), le tasse, le sovrattasse, le addizionali, e tutti gli altri patriottici marchingegni.

    Quando, tanti anni fa, la Lega ha cominciato la sua battaglia, alcune di queste diavolerie e sopraffazioni c’erano già ed era proprio sulla dichiarata avversione a tutto questo che ha costruito il suo consenso iniziale. Oggi tutti questi accidenti si sono moltiplicati e sono cresciuti. Allora c’erano solo gli italiani a sparare addosso, a scippare e a portar via le case popolari e i posti alla nostra gente: oggi si
    sono aggiunte anche legioni di extracomunitari. Allora c’era una legge elettorale che garantiva rappresentatività anche alle minoranze: oggi collegi uninominali, secondi turni e sbarramenti impediscono l’organizzazione del dissenso popolare. Allora c’era – sia pur oppressa – ancora vitalità economica e produttiva: oggi l’euro, le norme comunitarie e la concorrenza straniera stanno uccidendo la nostra economia.

    Allora la nostra gente aveva la voglia di ribellarsi: oggi sembra rassegnata. In un vecchio film il ventenne Marlon Brando faceva la parte di un Emiliano Zapata dall’aria poco credibilmente orientale. La storia iniziava con Zapata che veniva individuato dal dittatore di turno
    per l’irruenza con cui sosteneva le proprie ragioni. Anni dopo Zapata si ritrova nella stessa situazione a parti invertite: lui è il capo che si sta comportando allo stesso modo con un giovane contestatore. Ha come un flash e ne resta sconvolto. La lezione è però tonificante e nel film, Zapata-Brando, che si era fatto irretire dalle blandizie e dai vantaggi del potere, pianta il palazzo e torna fuori a fare il capo dei
    ribelli che combattono le ingiustizie e chiedono la libertà del popolo. La Lega è Zapata e il nostro popolo è
    sempre più oppresso.


    (da “Il Federalismo”, anno 2005, direttore responsabile Stefania Piazzo)

    Vietato diventare come Zapata. Prima rivoluzionari, poi cadregari | L'Indipendenza Nuova



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  6. #126
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    La Repubblica del Codice Rocco ha perso la puntualità del fascismo

    29 Mar 2016 · 0 Commenti



    di GILBERTO ONETO – Quando si sente parlare di “grandi opere” ci si deve preoccupare. Nulla c’entra la melomania e anche il riferimento massonico non è sempre pertinente. Il problema sono le grandi opere stradali, ferroviarie o ingegneristiche che con inquietante frequenza riempiono le cronache politiche. Di solito sono collegate – con un’associazione la cui coerenza è molto italiana – con olimpiadi, campionati di calcio, giubilei o altre occasioni di uguale pregnanza storica. Altre volte sono la micidiale coda di catastrofi naturali: le “ricostruzioni” del Belice e dell’Irpinia sono costipate di “grandi opere”. Ma ci sono anche quelle “normali”, “normalmente”
    legate a scadenze elettorali, a esigenze di regime o a più “normali” intraprese che prevedono l’utilizzo (e la fraterna distribuzione) di grandi risorse finanziarie.

    Di questi tempi le “grandi opere” sono all’ordine del giorno. Di alcune in realtà si parla da decenni: il ponte sullo stretto di Messina è – ad esempio – una sorta di incombenza mitologica su cui si sono esercitati gli spiriti più fantasiosi e per la quale si sono già spesi pacchi di miliardi (in progetti, preprogetti, studi di fattibilità, commissioni e sottocommissioni, valutazioni di impatto, eccetera) senza che (per
    fortuna) sia mai stato spostato un mattone. Per altre si fa galoppare la più baldanzosa immaginazione: qualcuno ipotizza un tunnel
    subacqueo fra la Sicilia e la Tunisia, che sembra più la nostalgia di un antico legame che un esercizio di realismo. Altre sono attese da anni e anni: la Pedemontana, il nodo autostradale di Mestre, le tangenziali esterne di Milano e Genova, la direttissima Milano-Brescia, il canale navigabile Milano-Adriatico, la variante di valico appennina.

    Ma sembrano essere solo sogni, anzi incubi per i milioni di automobilisti che ogni giorno devono soffrire in code snervanti e rischiare la pelle su strade antiquate, pericolose e intasate. Alcune “grandi opere” trovano invece miracolosa e fulminea attuazione: siamo tutti rimasti folgorati dalla rapidità con cui si è costruita la grande Malpensa (non altrettanto dalla qualità dell’aggeggio, del suo inserimento ambientale e dei suoi collegamenti) e oggi rimaniamo a bocca aperta di fronte alle meraviglie dei cantieri della cosiddetta Alta Velocità (Tav, nel linguaggio burocratico, “Alta Voracità” in quello popolare). Ci saremmo tutti illusi che si
    sarebbero affrontati i problemi più urgenti ma evidentemente la gerarchia delle priorità della gente comune non coincide con quella dei detentori del potere.

    Sarebbe parso più opportuno trovare una rapida soluzione ai problemi degli spostamenti stradali e ferroviari sulle tratte a maggiore
    percorrenza (quelle solitamente intasate da merci e pendolari), sarebbe sembrato più saggio occuparsi dei milioni di persone che passano molte ore chiuse nelle proprie automobili o schiacciate in vagoni affollati e malandati, sarebbe sembrato più utile potenziare le linee metropolitane, i collegamenti con i grandi centri, gli snodi più intasati. E invece si è data la priorità ai collegamenti ferroviari veloci, quelli che permettono a merci e persone di spostarsi fra le maggiori città con una velocità superiore a quella da funerale dei treni attuali.

    Non si può obiettare sull’essenzialità di potere andare a Roma (e soprattutto, di tornarci) in poche ore, ma qualche dubbio ci viene circa l’identica pulsione a viaggiare – ad esempio – da Torino a Lione in un batter d’ali. Lione è una città simpatica, ha un nome celtico e una sicura radice arpitana, ha un centro straordinario ed è abitata da gente simpatica che è gentile con gli ospiti e non li borseggia, ma insistiamo nell’essere perplessi sull’esigenza di una ferrovia superveloce che permetta di arrivarci in una manciata di ore in meno di quanto avvenga oggi.
    Soprattutto ci sembra per lo meno azzardato: 1) dare priorità a questo collegamento rispetto ad altri ben più urgenti e importanti per la nostra economia e per il nostro benessere sociale; 2) spendere una spropositata quantità di soldi prelevati ai contribuenti per un’opera del genere; 3) creare un’enormità di guasti ambientali del tutto sproporzionati ai vantaggi dell’opera. Simile è il caso della Milano-Torino o della Milano-Venezia, linee nelle quali in ogni caso prevale l’interesse dei collegamenti locali, che sono i più importanti. Oggi per andare da Milano a Torino ci vogliono due ore e la cosa fa ridere. In auto ci vuole quasi lo stesso tempo e si rischia la pelle a ogni chilometro. Ma bisogna scindere il problema in due: 1) lo spostamento delle merci e dei pendolari che ha bisogno di duplicazioni o quadruplicazioni di linee, di stazioni più efficienti e di materiale più civile e pulito; 2) e il collegamento rapido fra grandi centri per un numero congruo di utenti.
    Ma perché per questi ultimi non si è pensato a qualcosa di più leggero e meno impattante,come treni navetta veloci e piccoli che viaggino – ad esempio – al centro delle corsie autostradali. Questo avrebbe evitato di dover fare costruzioni mastodontiche, le “grandi opere” appunto. Chi percorre l’autostrada Milano-Torino in questi mesi viaggia in mezzo a un pericoloso cantiere che non è finalizzato a un
    sostanziale miglioramento della strada (ricordiamo che è a tre corsie strette, senza corsia di emergenza: è scandaloso che si debba pagare un pedaggio) ma alla costruzione della Tav: ponti altissimi, svincoli grandiosi, piloni, muri, massicciate, tutto un costosissimo ambaradan che permetterà a un treno di percorrere ad alta velocità la distanza Milano-Torino, la più parte della quale sarà però impegnata in accelerazione e decelerazione (non farà in tempo a raggiungere la velocità massima che dovrà cominciare a decelerare), e che – se farà soste intermedie- viaggerà a una velocità simile a quella del 1939. Giova infatti ricordare che la velocità media delle grandi percorrenze ferroviarie di allora era di 120 chilometri e oggi di 90.

    Il Fascismo metteva in galera la gente ma faceva arrivare i treni in orario, la prima e la seconda Repubblica hanno mantenuto il Codice Rocco ma hanno perso la puntualità. Tutto questo costa in termini di soldi, che sono sottratti a cose più urgenti e utili, ma che allietano molti beneficiati. Ma costa anche in termini ambientali, sia estetici che funzionali. In altre parole rovina il paesaggio percettivo e crea
    un sacco di inconvenienti fisici: rumore, spostamento di reti di irrigazione, eccetera.

    Ci si dice che il tutto sia stato sottoposto a scrupolose valutazioni di impatto. Ma è un trucco. Le procedure sulla valutazione di impatto sono voluminose, micraniose, complicate, richiedono un sacco di adempimenti e timbri, e sono fatte per spendere altri soldi, fare esercitare piccoli poteri e grandi ricatti, gettano fumo negli occhi ma hanno scarsissimo valore pratico. Le valutazioni serie servono a migliorare la qualità dei progetti e non a ottenere le autorizzazioni o – peggio – a mascherare le nefandezze ambientali. Le schifezze restano schifezze anche se hanno una costosa e complicata certificazione, spesso così complicata che nessuno riesce a leggerla ed è in genere quello che si vuole. La pianura novarese e vercellese è devastata ma la tratta in Val di Susa lo è ancora di più. Più il paesaggio è prezioso e delicato più la ferita è sanguinosa. Più la “grande opera” costa, più si fanno felici i “grandi operatori”.

    (da “Il Federalismo”, direttore responsabile Stefania Piazzo)

    La Repubblica del Codice Rocco ha perso la puntualità del fascismo | L'Indipendenza Nuova



    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
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  7. #127
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    Oneto, o la secessione o la secessione…

    31 Mar 2016 · 2 Commenti



    di GILBERTO ONETO –
    L’attacco alle libertà da parte dello Stato-Mafia avviene su tre fronti: contro le ricchezze dei cittadini, contro le autonomie e contro la rappresentatività democratica.

    1 – Gli espropri fiscali sono evidenti e quotidiani.



    2 – Renzi vuole abolire la modifica del Titolo V fatta dai suoi compagni tredici anni fa. Berlusconi si rimangia tutte le finte concessioni della devolution e del federalismo fiscale. Le Province sono smantellate. È pesantemente cominciato anche l’attacco alle Regioni, considerate causa di ogni spreco e nequizia e ci si mettono tutti assieme: destra, sinistra, giornali e televisioni, aggrappandosi a scandali e piccole e grandi schifezze. Ma è piuttosto evidente che l’obiettivo è l’indebolimento delle istituzioni e delle autonomie locali. Sotto attacco sono anche le Regioni a statuto speciale ma neppure i Comuni possono stare tranquilli: si è cominciato nel delegittimare quelli più piccoli ma piano piano si erode l’idea stessa delle libertà municipali.

    3 – Renzi e Berlusconi (finta sinistra e finta destra, italianità vera) hanno “messo mano” alla legge elettorale inventandosi sbarramenti a scala nazionale che nessun movimento autonomista o localista può sperare di superare se non accettando avvilenti compromessi e – di fatto – rinunciando ai propri progetti di cambiamento.
    Insomma si sta profilando una pesante stagione centralista e statalista, un ritorno alla grande dei prefetti e del prefettismo, che, in verità, non è mai stato davvero scalfito. Mentre il resto del mondo sembra avviarsi verso la rinascita di autonomie schiacciate per secoli, qui si fa l’esatto contrario. Al nefasto accordo reazionario partecipano tutti: patrioti di destra, e nazionalisti di sinistra (finalmente ricongiunti sotto i comuni colori giacobini), finti liberali, malavitosi e faccendieri, e ci si mette anche il mondo cattolico che in un lontano passato aveva cercato di resistere all’alluvione della brodaglia massonica, mafiosa e patriottica. Sono tornati tutti gli incubi democristiani, socialisti e comunisti.



    La sciagurata comitiva è ringalluzzita dalla debolezza del mondo autonomista e indipendentista
    , “sputtanato” dall’insipienza e dal cadreghismo della Lega e sminuzzato in cento rivoli litigiosi, micronazionalisti e microcefali.

    Come dare torto alla tracotanza degli italianissimi? Come cercare di trattenere i loro appetiti e la loro voglia di rivalsa quando sono i nostri che hanno dato loro ogni possibilità di farlo? Se l’autonomismo padano si è inzuppato di Calderoli, Cota, Tosi, Belsiti, mardani e meridionali vari, perché gli italianissimi non devono infierire sulle nostre comunità indifese? Se i cespugli isterici passano il loro tempo a litigare, a dividersi e a scindere il nulla, perché gli italianissimi non devono diventare più arroganti e prepotenti? Aumenteranno tasse e miseria, cresceranno i foresti e diminuiranno i nostri già smilzi spazi di libertà. La Padania diventerà una pozzanghera mediterranea perché troppi padani si credono italiani, perché troppi padanisti sono stupidi, e perché troppi indipendentisti credono di non essere padani e si inventano un delirante campionario di appartenenze e di distinguo.
    C’è però tanta gente che ha voglia di sentirsi di nuovo dire parole di libertà e di indipendenza. C’è una prateria infinita che non può essere percorsa da comunisti travestiti, vecchi democristiani col lifting, finti liberali, leghisti tricoloruti e indipendentisti da pollaio. La Lega si ripulisca e la smetta di cercare l’indipendenza in giro per la Calabria o l’autonomia fra gli appalti truccati dell’Expò. Gli altri partitini la smettano di litigare e di sezionare capelli. Gli indipendentisti diventino seri e tralascino romantiche velleità e onirismi rivoluzionari da tastiera. I padani si convincano finalmente che non ci sono alternative all’indipendenza dall’Italia. Gridiamo “Arimortis!” e cerchiamo di riprendere a marciare dove in troppi si sono messi a ballare. La strada è quella della secessione e la sola arma che abbiamo è il consenso della gente. C’è tanto da fare.

    Oneto, o la secessione o la secessione? | L'Indipendenza Nuova



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  8. #128
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    Non basta essere italiani: per contare serve anche essere un po’ comunisti

    1 Apr 2016 · 3 Commenti



    di GILBERTO ONETO

    Si fa un gran discutere attorno al cattivo funzionamento e alla politicizzazione della magistratura. Gran parte della polemica ruota attorno alle vicende di Berlusconi e soci: un argomento piuttosto ambiguo che non aiuta a fare chiarezza. Alla gente comune poco interessa delle questioni di Ruby e delle tasse della Fininvest. La gente comune un suo giudizio sulla maggistratura se l’è fatto indipendentemente da queste porcherie, se l’è fatto leggendo le cronache giudiziarie e – soprattutto – sulla propria pelle. A chi – anche la persona più tranquilla e onesta – non è capitato almeno una volta nella vita di avere a che fare con un tribbunale italiano, come imputato, testimone o parte lesa? L’esperienza è tale da formare una solida e devastante opinione anche senza le cronache delle grandi vicende politiche. Varcare una soglia di Palazzo di giustizia è come scendere di un paio di paralleli, è come entrare in un film di Totò, è traversare un portale spazio-temporale e vivere una esperienza extracorporea, surreale e da incubo. Lo scandire del tempo si misura su parametri diversi che rasentano la ricerca dell’eternità, vigono regole e rituali che ai comuni mortali sfuggono, per i padani è un viaggio esotico in cui si spera di fare un salvifico incontro con Lawrence d’Arabia.
    La prima impressione è proprio di un appiccicoso crogiolo di profonda italianità in cui gli indigeni vivono un imbarazzante senso di estraneità che nessuno degli altri cerca ovviamente di mitigare. Anzi. Nei tribunali si respira l’aria di Little Italy o di Broccolino. Quasi tutti parlano, si muovono e vestono allo stesso modo: toghe appoggiate sulle spalle con nochalance come scialli di Salomè, capelli arricciati sul collo, alitate di caffè e tutto il resto dell’ambaradan antropologico e patriottico che accompagna la più profonda identità italiana. I padani sono una minoranza emarginata fra avvocati e maggistrati, dove sono circa un quarto del totale ma con magre prospettive di carriera: sono praticamente assenti ai piani alti, al Csm, nella Corte costituzionale. I nati sopra la Linea Gotica sono davvero rari fra poliziotti e colpevoli: meritano l’assistenza del WWF. Per mitigare la statistica si ricorre all’imbroglio: sui giornali i rei sono classificati spesso per residenza e non per origine. Gli autoctoni veri li si trova praticamente solo – tanti – fra le vittime. Sono degli estranei che non meritano alcuna considerazione, dei pirla che si fanno fregare e poi pagano il conto. Chi non è del giro viene stritolato: una ragazzotta americana (non si saprà mai se colpevole o innocente) viene trattata come fosse la reincarnazione del male, Rosa e Olindo sono rinchiusi a vita senza uno straccio di prova. Non si chiamano Ligresti e sicuramente la Cancellieri non perderà tempo a far loro una telefonatina. Ci sarebbe anche un problema di comunicazione linguistica.
    Poi c’è la storia della politica. Non basta essere italiani: per contare serve anche essere un po’ comunisti.La “compagneria” è il solo modo sicuro che i nordisti hanno di fare un po’ di carriera: se uno è padano e poco sinistro probabilmente si occuperà di multe per tutta la vita in un sottoscala di cancelleria. Così risulta che se un imputato appartiene a qualche tribù rossa se la cava sempre, trova comprensione, vagonate di garantismo, codicilli ed eccezioni: è pur sempre “un compagno che sbaglia” che diamine! Gli altri no: gli altri portano il marchio lombrosiano della reità nel sangue. Se poi sono leghisti o indipendentisti non hanno vie d’uscita. Sindaci, cittadini che si difendono dai malfattori, gente che esprime opinioni poco ortodosse su strolighi, stranieri o italianissimi incorre nei rapidissimi rigori dello Stato: Dura lex, sed lex. Tradotto: l’è düra per num, per i àlter l’è lèss.

    http://www.lindipendenzanuova.com/non-basta-essere-italiani-per-contare-serve-anche-essere-un-po-comunisti/
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    Tacito, Agricola, 30/32.

  9. #129
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    Quando Marino diceva: Roma è la vostra guida morale

    2 Apr 2016 · 0 Commenti



    di GILBERTO ONETO

    Lo vedi, ecco Marino/la sagra c’è dell’uva/fontane che danno vino/quant’abbondanza c’è.
    Appresso vi è Genzano/cor pittoresco Albano/su viett’a divertì/ Nannì Nannì
    ”.

    È il refrain della canzonetta “’Na gita a li Castelli” che è stata resa famosa da Ettore Petrolini e Claudio Villa, e che fa parte del patrimonio culturale di Roma, assieme ad altri capolavori come “La società de’ li magnaccioni”, quella del: “Ma che ce frega, ma che ce ‘mporta”. Il piccolo capolavoro di letteratura pelasgica non si riferisce al nuovo sindaco dell’Urbe, anche se l’elegante testo è stato in qualche modo profetico.
    Ignazio Marino, non è un “romano de Roma” come Caio Gregorio, il guardiano del Pretorio, e neppure come il suo predecessore che – a onta di un cognome inutilmente germanico – era proprio romano di faccia e di cuore.
    Marino è globalizzato: di madre svizzera e padre siciliano, è nato a Genova, si è laureato a Roma ed ha lavorato all’Università di Pittsburgh da cui se ne è venuto via dopo una vicenda di rimborsi spese su cui sono rimaste parecchie ombre. Ieri Il Foglio ha ritirato fuori le relative carte, cui si rimandano i lettori per opportuna presa visione: leggete qua.
    L’altro giorno è stato eletto sindaco di Roma con una schiacciante maggioranza percentuale di voti espressi: 64% contro il 36%, in realtà – vista l’astensione del 60% – con l’assenso del 25,6% dei suoi concittadini maggiorenni. Tre romani su quattro non l’hanno votato. Poco importa. Ora il primo inquilino del Campidoglio (quello delle oche) è lui e, appena insediato, si è affrettato a fare dichiarazioni storiche; roba forte, come: «Questa è la Capitale ed è da qui che dobbiamo riacquisire un ruolo di guida morale per il nostro Paese». Tutto scrupolosamente maiuscolato.
    Sì avete capito bene: Roma deve essere la guida morale del (loro) Paese. Viene in mente il “Capitale corrotta nazione infetta” di un famoso servizio de L’Espresso a metà degli anni ’50. Non è cambiato granché da allora, come poco è cambiato dalla “Grande Babilonia” di Lutero, e da tutte le descrizioni più o meno colorite che nei secoli sono state fatte di quelle che è stata quasi unanimamente descritta come una sorta di maleodorante sentina di ogni nequizia. Il “quasi” si riferisce all’eccezione dei patrioti della romanità imperiale, di quella italo-fascista e alla robusta concezione che della propria “eterna” città hanno molti dei suoi abitanti, Marino compreso.
    Forse tutte le malevole descrizioni che si sono viste e sentite erano il frutto di insani pregiudizi, resta però il fatto che chi ci è andato – non da visitatore né da turista – ne ritorna visibilmente cambiato in peggio. Ci è bastato vedere i leghisti: quando sono partiti erano quasi tutti gente per bene, magari non sempre delle aquile di testa ma senza apparenti pulsioni di rapacità negli artigli. Molti di loro sono tornati cambiati, altezzosi, incravattati, “leinonsachisonoio”, saccenti e schizzinosi. Non serve fare nomi: tutti ne conosciamo qualche esemplare. Basterebbe ricordare la disgustosa sceneggiata dei capataz leghisti che si facevano imboccare di amatriciana in piazza.
    Oggi Marino dice che tutto cambierà: nessuno mette in dubbio la sua sincerità – forse chissà neppure a Pittsburgh – ma per certo la statistica non lo supporta. Il solo che l’aveva davvero scampata è stato San Carlo Borromeo, che è scappato disgustato da Roma e che anche per questo è diventato santo. Certo non possiamo più permetterci altri esperimenti e la cosa più saggia da fare è starsene lontani e cercare di mettere un bel confine fra noi e l’Urbe. Non importa se il sindaco è di destra o di sinistra: a un certo punto c’era stato anche un candidato della Lega. Figuriamoci! Importa starsene alla larga. Via da Roma!

    Quando Marino diceva: Roma è la vostra guida morale | L'Indipendenza Nuova



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  10. #130
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    Predefinito Re: Ci lascia Gilberto Oneto.

    George Klotz, perfetto modello di autodeterminazione

    4 Apr 2016 · 1 Commento

    di GILBERTO ONETO



    Del libro di Eva Klotz
    , Georg Klotz: una vita per l’unità del Tirolo, il nostro giornale ha già dato indicazione; è stato anche presentato dall’autrice in un convegno organizzato da Terra Insubre.

    Serve però molto più di una recensione perché non è un semplice libro, neppure la biografia di un mito dell’indipendentismo moderno scritto da sua figlia, che è essa stessa l’incarnazione della parte più vitale della voglia di libertà di un popolo e di tutti i popoli.
    La vicenda umana di Georg Klotz è molto più che una dolorosa e gloriosa avventura e una saga epica della libertà: è la più perfetta metafora della lotta per l’autodeterminazione declinata ai suoi più alti livelli di amore, fede, coraggio e spirito di sacrificio. In meno di sessant’anni Georg Klotz è stato un valoroso soldato decorato con due Croci di ferro, un abile artigiano, un marito e un padre affettuoso, un intelligente apostolo di identità e la vivente testimonianza della passione del suo popolo. La sua vita è stata segnata da lunghi anni di esilio, persecuzione, incarcerazione: una Via Crucis sopportata con forza e determinazione. Georg Klotz è davvero il Christus Patiens della fede nell’autonomismo e nel diritto all’autodeterminazione di tutte le comunità umane.
    Il libro va letto, assaporato e meditato con attenzione: è una inesauribile fonte di riflessioni.
    Vediamone alcune.
    Klotz aveva ben chiara la funzione fondamentale dei simboli e delle tradizioni nella difesa e nell’affermazione dell’identità: si è dedicato con passione alla ricostruzione del corpo degli Schützen e nella riscoperta delle forme dell’abbigliamento affidando al loro utilizzo un fondamentale ruolo di affermazione e riconoscimento identitario. Dopo la guerra è stato uno di quelli che hanno recuperato antiche immagini e rivitalizzato forme e materiali che due decenni di oppressione fascista avevano cercato di cancellare.
    Klotz aveva idee chiarissime sull’impiego “giusto” della violenza come strumento di “accompagnamento” e di supporto dell’azione politica. La sua è sempre stata testimonianza di “violenza non violenta”, esercitata solo contro le cose, contro le proprietà pubbliche e i simboli più evidenti e fastidiosi dell’oppressione. Pur essendo un eccellente tiratore, Klotz non ha mai sparato addosso a nessuno ma ha sempre impiegato le armi per spaventare e per disorientare, teorizzando il loro uso cruento solo per legittima difesa. Il suo corpo era coperto di vecchie ferite di guerra e di recenti ferite inflittegli nel tentativo di assassinarlo ma nessuno ha mai portato addosso suoi segni di violenza. Le bombe servivano contro i tralicci e i monumenti, contro le costruzioni militari: servivano a rincuorare gli amici e a spaventare gli avversari costringendoli – come effettivamente è avvenuto – a scendere a patti. Gli italiani erano così terrorizzati da averne fatto una sorta di “pericolo pubblico numero uno”, di imprendibile “Primula Rossa”, capace di materializzarsi e svanire, dotato di un alone di invincibilità: se ne stavano rintanati nelle caserme e uscivano solo di giorno e in gruppi numerosi, pronti a scompigliarsi al solo sospetto che il più famoso dei “terroristi” fosse nei paraggi.
    Klotz non era solo. Una delle constatazioni più entusiasmanti e commoventi che si traggono dal libro che – pur con l’inevitabile presenza di spie, traditori, delatori e opportunisti – i patrioti tirolesi si muovevano in mezzo alla loro gente circondati da affetto e concreta solidarietà. Le pagine appassionate e drammatiche con cui Eva descrive la fuga di suo padre, ferito, scalzo, parzialmente paralizzato e febbricitante dal luogo in cui si è cercato di assassinarlo fino al confine austriaco, raccontano la grande forza d’animo e fisica di un uomo straordinario ma anche il commovente, affettuoso e coraggioso aiuto di tanta gente umile che non ha esitato a sfidare punizioni e rappresaglie per sostenere il “suo eroe” nei momenti più difficili.
    Una ultima considerazione va fatta sulle inevitabili differenze di atteggiamento dei patrioti sudtirolesi, dalla bella inflessibilità indipendentista di Klotz e dei suoi fino al tatticismo un po’ democristiano della SVP di Sylvius Magnago. Questi ultimi non si sono sempre comportati con linearità e con correttezza nei confronti dei loro compatrioti più “duri” ma – nel loro opportunismo – sono riusciti in ogni caso a raggiungere parecchi risultati concreti che hanno sicuramente annacquato la lotta del Sud Tirolo ma che non impediscono che altri possano partire dalle autonomie raggiunte per puntare a obiettivi più ambiziosi e radiosi. Una prospettiva che oggi proprio Eva Klotz incarna nel migliore dei modi.
    Questo dovrebbe fare riflettere tutti gli indipendentisti: occorre senso della comunità e chiarezza – pur diversificata – di obiettivi. Suona doloroso questo ragionamento in una situazione – come quella padanista – dove i “duri e puri” stanno dolorosamente cercando una loro strada ma dove la SVP locale, i dorotei leghisti, vagolano nella più nebbiosa confusione, sballottati fra cadreghe e fragili slogan.
    Ma si può imparare. Certo avremmo bisogno di gente tosta come Georg Klotz e come quella straordinaria combattente – palluta e dolce – di sua figlia Eva. Con esempi come questi non possiamo non essere oggi tutti un po’ tirolesi. E domani, chissà, padani.



    va Klotz

    Georg Klotz: una vita per l’unità del Tirolo
    Edizioni EFFEKTBUCH – Egna-Neumarkt (Tel. 0471 813482 – 0471 981064,elmar@effekt.it).
    pag. 360, prezzo 19 Euro.


    http://www.lindipendenzanuova.com/george-klotz-perfetto-modello-di-autodeterminazione/

    Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove fanno il deserto dicono che è la pace.
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