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    Predefinito La ragione politica della centralità laica



    Oggi sembrano più chiare le ragioni dei successi, limitati nel numero ma importanti e in qualche caso decisivi, che il mondo laico conseguì: da una parte […] la vivezza culturale delle sue iniziative; dall’altra la rilevanza politica dei suoi orientamenti.
    È vero, naturalmente, che l’unica battaglia di valore strategico seguita alla Resistenza era terminata nel 1948 con la schiacciante vittoria della Dc sulla sinistra comunista e socialista. Ed è vero che un sistema fondato sui partiti di massa, capaci di rappresentare parti massicce del tessuto sociale, parve a molti intonato alle difficoltà del tempo. Nello stesso tempo, tuttavia, il “caso Italia”, dopo l’espansione nell’Est europeo dei regimi staliniani, costituì uno dei momenti salienti dei processi di assestamento dell’ordine internazionale. Si trattava di confermare stabilmente la collocazione della penisole nel quadro generale dell’Occidente. Ma delle sue concezioni risultavano ben poco impregnate le forze maggioritarie: sia quelle del variegato mondo cattolico sia quelle marxiste alternative. Ne conseguì – in certo senso per sottrazione da una parte, per addizione dall’altra – un’imprescindibile funzione delle forze che quella civiltà politica rappresentavano culturalmente e rivendicavano politicamente. E che erano tanto più importanti in quanto i loro programmi di modernizzazione si ispiravano alle esperienze economiche e sociali sviluppatesi in Europa e in America, e neglette quando non spregiate dalle ideologie vincenti.
    C’era dunque qualcosa di più e più profondo del fatto che in Senato i partiti laici fossero numericamente essenziali per arrivare alla maggioranza. E c’era anche la circostanza che le forze laiche, pur in posizioni differenti, avevano potentemente contribuito a fondare i titoli morali del nuovo Stato repubblicano: l’antifascismo, la Resistenza, la Costituzione. Farne a meno era dunque doppiamente impossibile, e De Gasperi, da grande statista qual era, lo vide con chiarezza per primo: era l’avvenire democratico del paese, non meno che la sua storia, a imporre la collaborazione.
    La strategia degasperiana è passata tuttavia sotto una definizione impropria, o parziale: come “intesa fra laici e cattolici” mentre era in realtà qualcosa di più ampio. Aveva a che fare non soltanto con la vicenda italiana del rapporto tra Stato e Chiesa ma con l’intera storia europea e il destino politico del continente. La base vera dell’intesa tra forze cattoliche e laiche era infatti la consapevolezza che l’Italia poteva progredire nella democrazia solo mantenendosi fermamente entro il quadro occidentale. E proprio su questo punto, di storica importanza, laici e cattolici si scontravano duramente con i fascinosi miti dell’Urss, del grande Stalin, della conquista del socialismo. In pratica, con i grandi consensi intellettuali e sociali accordati al mondo comunista e sorretti, allora, dalle prospettive mondiali che sembravano a esso dischiudersi.
    In quel decisivo frangente, l’accordo dei tre partiti laici con la Democrazia cristiana di De Gasperi, risultò decisivo. Ma la loro rottura con la sinistra d’origine marxista poteva essere operata soltanto da leader che avessero visione chiara e fermezza etico-politica. Non erano in effetti personaggi di second’ordine: Croce ed Einaudi, Salvemini e Sforza, Parri e La Malfa, Saragat e Silone, Pacciardi e Reale, Carandini e Pannunzio, Rossi e Spinelli. Ebbero tutti la chiarezza e la fermezza necessarie. L’importante ruolo che finirono col detenere non derivava soltanto, dunque, dalle loro forti personalità. Dipendeva essenzialmente da quella posizione a guardia del valico di frontiera tra Occidente e mondo comunista, che essi presidiavano non solo con autorità morale ma anche con autenticità culturale. Si trattava di un valico che non era storicamente superabile se non a prezzo dello sfascio generale del paese e che infatti è sempre rimasto tale a tutela della sua unità. Nel difenderlo, i laici ebbero un ruolo non confondibile con quello delle forze cattoliche, perché differenti erano le rispettive ragioni e culture. Ed è stato questo ruolo sottile ma fondamentale, assieme all’idea di modernizzazione “occidentale” che vi era connessa, ad assegnare loro una funzione storico-politica non comprimibile e non correlata al dato dei consensi elettorali.
    Quelle forze ebbero d’altra parte una funzione non meno importante nell’arginare la deriva di destra che percorreva il paese in una fase assai delicata del dopoguerra. La politica degasperiana aveva mille pregi ma richiamava sulla Dc forze e interessi aventi poco a che fare con il regime democratico. A controbilanciare questa deriva non potevano essere le forze socialiste e comuniste, chiuse all’opposizione in chiave prosovietica; e si rivelarono essenziali invece le forze laiche. L’ “operazione Sturzo” proposta nel 1952 dallo stesso papa Pacelli implicava l’alleanza con i neofascisti e lo spostamento a destra di tutta la situazione italiana. I tre partiti laici fecero con risolutezza la loro parte e rappresentarono un solido punto di forza per la resistenza al papa della Democrazia cristiana. Non fu uno dei loro contributi minori al radicamento della democrazia. C’era in essi una capacità di interpretazione degli eventi politici, del loro significato a lungo termine, che derivava dalla comune formazione culturale storicistica; ed era assai diversa da quella delle forze di massa, affascinate piuttosto dall’importanza dei fenomeni sociali.

    (…)

    Adolfo Battaglia, Né un soldo, né un voto. Memoria e riflessioni dell’Italia laica, il Mulino, Bologna 2015
    Ultima modifica di Frescobaldi; 10-12-15 alle 21:09
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Adolfo Battaglia - La ragione politica della centralità laica

    È una vera favola politica quella che presenta la Costituzione come il frutto dell’incontro fra la cultura cattolica e il pensiero socialista. O che l’attribuisce […] “al ruolo dei tre grandi partiti popolari e dei rispettivi patrimoni ideali”. Sarebbe difficile portare fatti a sostegno di tali asserzioni. Nel lavoro costituente la figura sicuramente più importante fu quella del presidente della commissione […] che elaborò il testo di Costituzione, Meuccio Ruini: che era un laico inveterato, deputato radicale già nel 1914, ministro del governo Nitti, punta di lancia dell’Unione nazionale di Giovanni Amendola. Accanto a lui, i Padri costituenti non furono pochi e non furono certo di un solo partito. Fra i laici, oltre Ruini, Tomaso Perassi, Piero Calamandrei, Giovanni Conti, Aldo Bozzi, Giuseppe Grassi, Giovanni Persico. E insieme a loro i grandi costituzionalisti democratico-cristiani, Costantino Mortati ed Egidio Tosato; e Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giovanni Leone. Nel gruppo comunista ebbe rilievo soltanto Renzo Laconi, reale braccio destro di Togliatti. A loro volta, i socialisti con Ferdinando Targetti, Tito Oro Nobili e Lelio Basso furono solo relativamente presenti. Le maggioranze alla Costituente furono mobili, ora di un colore ora di un altro. Gli articoli 1, 2 e 3, come pure l’art. 7, sono il frutto dell’accordo strettosi esclusivamente fra la Dc e il Pci. Per converso, una coalizione abbastanza stabile fissò la seconda parte della Costituzione. Sull’ordinamento della Repubblica, democristiani, repubblicani, azionisti, liberali, socialdemocratici, con qualche socialista e alcuni indipendenti, prevalsero sempre. Mentre i comunisti furono contrari a quasi tutto: il bicameralismo, l’indipendenza della magistratura, l’istituzione delle regioni, la creazione della Corte Costituzionale, l’istituto del referendum. Non a caso, parecchi anni dopo, Norberto Bobbio disse chiaramente che la sinistra marxista non possedeva alcuna cultura istituzionale. In effetti la Costituzione non solo non è il frutto di un compromesso fra due culture difformi, ma è essenzialmente la cifra della necessità storica di intesa che nel post-fascismo stringeva tutte le forze politiche. Lo disse bene Ruini concludendo la discussione parlamentare. Macaulay aveva scritto che tutta la storia è in certo modo un compromesso. Ma qui, osservava Ruini, si trattava di qualcosa di più: un accordo, una convergenza di forze che coglieva la grande trasformazione costituzionale ed economico-sociale apertasi dopo la fine della tragedia europea, qualcosa che era nella visione e nella memoria di tutti.

    (...)

    Adolfo Battaglia, Né un soldo, né un voto. Memoria e riflessioni dell’Italia laica, il Mulino, Bologna 2015
    Ultima modifica di Frescobaldi; 04-12-15 alle 16:04
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    Predefinito Re: Adolfo Battaglia - La ragione politica della centralità laica

    La nomina di Luigi Einaudi a presidente della Repubblica nel 1948 rappresentò in questa luce il simbolo e l’espressione dell’importanza del mondo laico. Einaudi era l’economista di fama europea che aveva condotto la lotta all’inflazione post-bellica e uno dei grandi nomi del Partito liberale, l’altro era quello del maestro della vita intellettuale di un’intera generazione, Benedetto Croce. La sua nomina prevalse su quella di un esponente repubblicano anch’egli internazionalmente ben conosciuto, Carlo Sforza, che continuò invece a guidare, come ministro degli Esteri di De Gasperi, la nuova politica europeista e atlantica dell’Italia. E non a caso i leader dei tre partiti laici, Giuseppe Saragat, Randolfo Pacciardi e Luigi Einaudi, furono vicepresidenti del Consiglio del primo Gabinetto formato dal leader della Dc, nel quadro politico “centrista” che sarà decisivo per la rinascita del paese. A quel quadro il mondo laico diede il contributo di una classe dirigente di qualità tecnica e politica che può ben dirsi superiore a quella espressa dal mondo cattolico.
    Ci si domanda spesso perché, allora, non si riuscì mai a stringere insieme i laici su un comune progetto politico. E una prima risposta non può non investire gli orientamenti di fondo della borghesia italiana, grande, media e piccola, il ceto più composito e nello stesso tempo più ampio della nostra struttura sociale. Negli anni Venti e Trenta aveva investito sul fascismo, traendone concreti vantaggi sia pure differenti tra loro. E furono minoranze eroiche quelle che nella Resistenza l’avevano poi riscattata. Ma il suo orientamento politico non poteva non risentire della sua storia. Tra l’altro, in molti settori di essa la coscienza nel nesso tra economia di mercato e libertà politica, fermamente stabilitosi nei paese anglosassoni, non era affatto un dato acquisito. In particolare, la formazione culturale della borghesia industriale, con poche eccezioni, era più che manchevole (in varie occasioni potei sperimentarlo di persona, negli anni Ottanta, come ministro dell’Industria). La consapevolezza dei problemi e delle esigenze di una società industriale moderna era in quelle forze limitata. Forse dipese anche dal troppo breve cammino compiuto come classe dirigente, quando pesanti erano i vincoli sociali e ideologici che ostacolavano una assunzione di responsabilità.
    Sulla divisione dei laici influì anche, probabilmente, un secondo elemento: l’imperfetto pluralismo della società nazionale. Nel primo dopoguerra furono travolti uomini come Francesco S. Nitti o Giovanni Amendola proprio quando tentarono di consolidare politicamente la struttura plurale in via di formazione. Nel secondo dopoguerra, il pluralismo laico diventò frammentazione, peraltro avvertita come una garanzia di valore in certo senso istituzionale: qualcosa cioè da non comprimere ma da tutelare, sebbene si trattasse di una modalità di presenza vecchia rispetto ai nuovi partiti di massa. Il fatto è che entro i partiti laici coabitavano tradizioni politiche vecchie e nuove: quelle dell’epoca prefascista e quelle su cui si era invece costruita la società moderna dell’Occidente democratico. Ed era questa una contraddizione che influì non poco sulle loro tormentate vicende interne: ci fu per la difficoltà di comporre in assetto unitario impostazioni e tradizioni differenti e insieme radicate.
    Stupisce, in particolare, l’acrimonia che traspare da scritti e discorsi di molti intellettuali liberali in polemica con molti intellettuali liberal-democratici. Alle sue radici è probabilmente il giudizio negativo dato da Benedetto Croce sul Partito d’azione: ai cui fondatori, peraltro, il filosofo fu molto vicino. In effetti, don Benedetto ebbe con essi non pochi contatti politici. Tra l’altro, Tino e La Malfa gli illustrarono apertamente nel settembre 1942 il loro progetto di costruire la Repubblica sul pilastro di una forza liberale moderna, che avrebbe con naturalezza portato Croce alla presidenza del nuovo Stato. Fu l’idea esposta in una passeggiata nei boschi intorno a Pollone, dove Croce villeggiava, alla quale il filosofo non consentì esplicitamente dando tuttavia una riposta che rese felici i due azionisti: “non vi dico di sì, ma ho fiducia in voi”.
    L’episodio, ricordato da Ugo La Malfa a Milano in una colazione al Savini nel 1962 e annotato poi nel mio diario, è confermato da un’intervista di Adolfo Tino data il 2 gennaio 1967 a Luisa La Malfa Calogero:

    Il colloquio a Pollone […] era stato preceduto dai colloqui a Milano, in particolare con me, nei quali lui [Croce] aveva sempre posto questo problema della democrazia come quantità e del liberalismo come qualità […]. Avevamo avuto con lui lunghe conversazioni a Milano, per strada, su questi problemi. Andammo a Pollone quando la questione della monarchia era divenuta ormai viva nell’ambiente dell’antifascismo […]. Andammo e gli prospettammo il problema così come lo vedevamo. Ricordo che uscimmo da casa sua e andammo nel bosco, per una lunga passeggiata, mentre gli esponevamo il nostro punto di vista: […]. Don Benedetto resistette, naturalmente, svolse i suoi argomenti noti: la monarchia è continuità; dove ci cacciamo; ricordatevi che qui ci sta anche il Papa, ecc. ecc. tutte queste cose. Noi, con tutto il riguardo che si doveva a tanto uomo, mantenemmo la nostra posizione. Fatto è che quando arrivammo in vista della casa, per andare poi a colazione, don Benedetto si fermò: mi ricordo che aveva un bastone con una lista in pelle e ci si appoggiava; si fermò, ci fermammo anche noi e poi ci disse: “sentite, io ho grande fiducia in voi; fate quello che vi pare ché io sarò con voi”. Non era ancora avvenuta la faccenda del liberalsocialismo […].

    (...)

    Adolfo Battaglia, Né un soldo, né un voto. Memoria e riflessioni dell’Italia laica, il Mulino, Bologna 2015
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    Predefinito Re: Adolfo Battaglia - La ragione politica della centralità laica

    In effetti la rottura di Croce col Partito d’azione avvenne dopo che l’ “Italia Libera” clandestina sembrò rifiutare un articolo del filosofo napoletano che entrava con forza nel dibattito interno del partito. Era l’articolo che Croce aveva accettato di scrivere sul giornale azionista clandestino per annientare le spurie tesi liberalsocialiste di Guido Calogero, comparse nel numero precedente de “L’Italia Libera”. L’articolo però non venne pubblicato. Il filosofo capì dunque con sorpresa che a lui, nientemeno, si era preferito Calogero e non esitò a rompere i rapporti con i leader azionisti. Era avvenuto invece che l’unica copia dell’articolo fosse stata portata da Bruno Visentini, il quale a Roma curava la pubblicazione clandestina del giornale, alla tipografia utilizzata per “L’Italia Libera” e qui composto per essere stampato. Ma quando Visentini andò a ritirare la bozze si accorse di essere pedinato. In tipografia dunque fece subito distruggere la composizione e ritirò il testo dell’articolo. Si accorse di continuare a essere seguito anche nell’autobus che aveva preso per tornare a casa. Temette di essere arrestato, si preoccupò di non compromettere il filosofo. “Bruciò” così il poliziotto scendendo all’improvviso dall’autobus e buttando l’articolo nel primo tombino incontrato sulla strada. Purtroppo, per ovvie ragioni, quella era l’unica copia esistente dell’articolo e non poté più essere recuperata. Sopraggiunse la caduta del fascismo e quando a Croce fu spiegata la ragione della non pubblicazione egli non vi credette: ritenne anzi che lo si voleva ingannare. Da qui, a quanto sembra, l’origine del suo malanimo. Forse, dunque, l’iniziale fiducia di Croce, tanto caldamente espressa quanto poi sostituita da espressioni altrettanto calde ma negative, avrebbe dovuto essere ricordata dalle persone d’alto ingegno che polemizzarono con gli azionisti con un’animosità di spirito, potrebbe dirsi, quasi classista.
    In questo quadro risulta chiaro che i leader di prim’ordine del mondo laico non fossero facilmente compatibili tra loro. Oltretutto i leader della sinistra liberale non riuscirono mai a prevalere nel Pli, alterato dall’ingresso dei qualunquisti e monarchici e scosso da tre scissioni in otto anni. La leadership di Saragat nel Partito socialdemocratico fu continuamente contestata da urti, divisioni e riunificazioni. Nel Partito repubblicano La Malfa impiegò molti anni per prevalere su Pacciardi. Il Partito radicale di Pannunzio, Carandini, Valiani, Rossi e Piccardi si frantumò appena sei anni dopo la sua costituzione.
    Alla base di queste vicende era certo lo spiccato individualismo che è l’anima stessa del mondo laico. Ma era anche un senso dell’autonomia tanto radicato quanto malinteso, che portava anche interessi minori, pur sempre presenti in ogni circostanza, a separare forze affini. Un’unica leadership in un’unica organizzazione, o federazione, si rivelò impossibile. E così anche gli indirizzi politici finirono con l’oscillare tra la posizione liberal-conservatrice e quella liberal-progressista; e tra la posizione di sinistra democratica e quella socialista riformatrice. C’erano valori comuni e ci furono battaglie politiche comuni. Ma le forze laiche furono sempre colpite, paradossalmente, non solo da esigenze politiche ma anche da questioni personali tanto sottili quanto amare. L’incomprensione delle questioni chiave degli anni Cinquanta, o il dissenso su esse, allontanarono poi molti, a cominciare da una personalità come Ferruccio Parri. Una parte dell’azionismo senza casa si congiunse con lui. Un esponente del liberalismo conservatore, già ministro del Tesoro, Epicarmo Corbino, si unì con un liberale progressista, Franco Antonicelli, e raccolse un certo successo. I socialdemocratici si unificarono e si scissero con rumore. Silenziosamente si allontanarono molte energie. Dopo la scomparsa di grandi intellettuali come Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero e Guido Dorso, si spensero i due opposti maestri del mondo laico, Benedetto Croce e Gaetano Salvemini. Morì nel 1960 Adriano Olivetti, che nella sua azienda di Ivrea, divenuta internazionalmente famosa, aveva raccolto persone d’alta qualità alla ricerca di esperienze comunitarie e di un tipo peculiare di fabbrica. Ci si stava avviando verso una fase nuova, la cui caratteristica fu costituita da alte oscillazioni della politica, che videro prima il successo della svolta di centrosinistra e infine il suo fallimento.

    Adolfo Battaglia, Né un soldo, né un voto. Memoria e riflessioni dell’Italia laica, il Mulino, Bologna 2015
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