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  1. #11
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    Predefinito Riferimento: Atei ed Agnostici famosi.

    La Montalcini...
    Montanelli...

    Per il buddismo zen, quando ci si trova davanti ad un’alternativa binaria, a possibilità di risposte solo dualistiche, bisogna passare oltre...

  2. #12
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    Predefinito Riferimento: Atei ed Agnostici famosi.

    Aristippo
    (Cirene, 435 a.C. – Cirene, 366 a.C.) è stato un filosofo greco antico.


    Biografia

    Si trasferì ad Atene dove entrò nel circolo degli amici di Socrate. In viaggi successivi, conobbe anche Platone. Fu alla corte di Dioniso il vecchio a Siracusa. A proposito della sua vita, Diogene Laerzio narra aneddoti interessanti (II, 66):
    « […] Si adattava con disinvoltura a luogo, a tempo, a persona e recitava il suo ruolo convenientemente in ogni circostanza. Perciò più degli altri godeva del favor di Dioniso, poiché riusciva sempre a rendere accettabile ogni situazione. Godeva il piacere dei beni presenti, ma rinunziava ad affaticarsi per il godimento di beni non presenti. Fu per questo che Dioniso lo chiamava cane (o cinico) regale. »


    Dottrine filosofiche

    La scuola filosofica dei Cirenaici ha in Aristippo di Cirene (435 circa–366 a.C.) il suo fondatore, colui che ha posto il piacere come fine primario dall’esistenza. Scuola non omogenea, quella cirenaica si articolerà al suo interno in varie sfumature etiche e si ritroverà solo successivamente e in parte nell’epicureismo. Epicuro, infatti, doterà la sua dottrina edonistica di un fondamento ontologico e gnoseologico che nei Cirenaici è assente, sviluppandosi il loro pensiero esclusivamente sul terreno di un’etica del vivere la quotidianità, pragmatica e lontana da principi teorici. Aristippo ha caratterizzato quest’indirizzo filosofico su queste basi: 1) antropocentrismo, 2) sensismo assoluto, 3) ricerca del piacere corporeo, 4) autosufficienza individualistica.

    Quest'ultimo punto caratterizzante l’edonismo di Aristippo si esprime con l’enunciazione di un individualismo estremo e di un'autosufficienza non lontana da quella cinica, con un certo disprezzo per le convenzioni sociali e ogni tradizione. Il piacere immediato e dinamico si accompagna all'individualismo che cerca il piacere, abbracciando ogni momento dell’esistenza che lo possa offrire e in qualsisasi forma. Soltanto i fatti umani sono degni di interesse e i fenomeni naturali lo sono, solo se producono piacere. Ma l’autosufficienza, quest’importante principio aristippeo, riguarda anche il piacere, che va perseguito senza diventarne dipendenti, poiché se esso è sempre bene, quindi da perseguire in ogni situazione e circostanza, se da posseduto diventa possessore, va abbandonato poiché l’autosufficienza e l’autonomia individuale è sopra ogni altra cosa.

    Il piacere vero è sempre e comunque dinamico (non l’aponìa epicurea = “assenza di dolore”) ed è il vero motore positivo dell’esistenza di una persona, che é successione discontinua di istanti e va vissuta solo nel presente, ignorando il passato e il futuro: è questa una formulazione ante litteram del cosiddetto carpe diem, messaggio che troverà seguaci e interpreti soprattutto tra numerosi intellettuali del mondo latino. Infine, il fenomenismo aristippeo è assoluto, in quanto egli sostiene che soltanto ciò che viene percepito è reale: tale riduzionismo sensistico e individualistico rivela in Aristippo indubbi riferimenti anche alla filosofia sofistica.

    Diversi studiosi tendono a spostare la teorizzazione dell’edonismo cirenaico da Aristippo (il Vecchio) a suo nipote Aristippo Metrodidatta (detto anche Aristippo il Giovane) attraverso la figlia Aréte, che fu una donna colta e sensibile alla filosofia del padre. In altre parole, Aristippo il Vecchio si sarebbe limitato a dirigere i propri comportamenti in senso edonistico (ma ancora con qualche misura) e verso un certo aristocratico distacco ironico che privilegiava piuttosto gli elementi dell’autonomia esistenziale e dell’autosufficienza. Secondo questa interpretazione, egli si sarebbe tenuto abbastanza lontano dall’edonismo rozzo del quale in seguito venne spesso accusata la scuola cirenaica. Egli sarebbe rimasto fondamentalmente un socratico, che avrebbe mantenuto nei confronti del piacere un certo distacco non privo di riserve, espresse nel ben noto aforisma: “possedere il piacere, ma non esserne posseduti”.

    La scuola cirenaica dopo Aristippo

    I seguaci di Aristippo come è già stato detto non costituiranno mai una vera e propria scuola omogenea, ma svilupperanno il suo edonismo in direzioni differenti. Ciò può essere preso a conferma della mancanza di teorizzazione della sua filosofia, essendosi egli limitato ad indicare una direzione etica, a sua volta variamente interpretabile. A parte Aristippo Metrodidatta, di cui si è detto e al quale alcuni attribuiscono un intento radicalizzante all'interno della stessa cornica edonistica, emergono come successori più tardi tre personaggi di notevole spessore, anche se non molto ben documentati, tutti e tre vissuti tra la seconda metà del IV e la prima metà del III sec. a.C. (quindi contemporanei o appena più giovani di Epicuro): Egesia, Annicéri (o Anniceride) e Teodoro l’ateo.
    Concedi alla ragione il privilegio di essere l'ultima pietra di paragone della verità. (Immanuel Kant)

  3. #13
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    Predefinito Riferimento: Atei ed Agnostici famosi.

    Citazione Originariamente Scritto da O-RATIO Visualizza Messaggio
    Vorrei iniziare questa discussione con lo scopo di elencare alcuni atei ed agnstici famosi, per dimostrare che anche chi non è credente può dare un contributo alla società.
    Dimenticate sempre il piu' famoso di tutti: il Dio monoteista cristiano-giudaico-musulmano, YHWH.

    Per ovvia costruzione logica, Dio non puo' essere credente.

    Se fosse credente allora sarebbe in contraddizione con se stesso, perche' ne deriverebbe un altro Dio.

    Se fosse credente, MA di se stesso, allora si porrebbe il problema della natura ed essenza di Dio, poiche' per sensibilita' dovrebbe avere coscienza e conoscenza di qualcosa di imponderabile che pure esiste, perche' e' egli stesso. Il quale pensa DI se stesso e CON se stesso, PER se stesso. L'atto di pensare gia' lo rende essere, appunto, sensibile. Ma DIO non e' sensibile, per costruzione, altrimenti sarebbe soggetto ai sensi e quindi non causa prima, come sosteneva un tale sconosciuto appartenente alla scolastica.

    Cerea.

  4. #14
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    Predefinito Riferimento: Atei ed Agnostici famosi.

    Citazione Originariamente Scritto da Cabala Candelaia Circea Visualizza Messaggio
    Dimenticate sempre il piu' famoso di tutti: il Dio monoteista cristiano-giudaico-musulmano, YHWH.

    Per ovvia costruzione logica, Dio non puo' essere credente.

    Se fosse credente allora sarebbe in contraddizione con se stesso, perche' ne deriverebbe un altro Dio.

    Se fosse credente, MA di se stesso, allora si porrebbe il problema della natura ed essenza di Dio, poiche' per sensibilita' dovrebbe avere coscienza e conoscenza di qualcosa di imponderabile che pure esiste, perche' e' egli stesso. Il quale pensa DI se stesso e CON se stesso, PER se stesso. L'atto di pensare gia' lo rende essere, appunto, sensibile. Ma DIO non e' sensibile, per costruzione, altrimenti sarebbe soggetto ai sensi e quindi non causa prima, come sosteneva un tale sconosciuto appartenente alla scolastica.

    Cerea.
    Mi hai aperto un mondo. Adesso mi interrogo sul contributo filosofico della Sfinge, del Brucaliffo, di Babbo Natale e di tutti quegli altri personaggi di fantasia di cui son pieni i pantheon delle civiltà passate. Chissà come la pensava Ereskigal, divinità permalosetta del pantheon assiro...

  5. #15
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    Predefinito Riferimento: Atei ed Agnostici famosi.

    Citazione Originariamente Scritto da Azel Visualizza Messaggio
    Mi hai aperto un mondo. Adesso mi interrogo sul contributo filosofico della Sfinge, del Brucaliffo, di Babbo Natale e di tutti quegli altri personaggi di fantasia di cui son pieni i pantheon delle civiltà passate. Chissà come la pensava Ereskigal, divinità permalosetta del pantheon assiro...
    Caro il mio Azel (seppur leggendoti mi venga in mente Azazel. Spero non ti offenderai),

    perchè conosci tu qualche divinità che non sia permalosa? Va bene che assiri, nonni e fratelli, diedero gran lustro alla demonologia per porre un freno alla protervia del "bene" e farlo collimare più verso un dualismo panteista, ma non pensiate che il monoteista per eccellenza sia avulso da almeno (in realtà li commette tutti) uno dei vizi capitali. 7, proprio come i giorni che ci mise il buon Dio a creare un microscopico pianeta in un'immensa galassia, inclusa in un ammasso di galassie, in una parte insignificante dell'universo. Ed infatti la domenica (o il sabato, a seconda di che monoteismo facciate parte) è dedicata all'ozio, o accidia se vogliamo essere più sofisticati. Lascio a voi trovare le altre connessioni.

    Ed avendo creato noi, bipedi pelosi, a sua immagine e somiglianza, siamo per forza di cose tanto permalosi quanto lo fu lui.

  6. #16
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    Predefinito Riferimento: Atei ed Agnostici famosi.

    Citazione Originariamente Scritto da Cabala Candelaia Circea Visualizza Messaggio
    Caro il mio Azel (seppur leggendoti mi venga in mente Azazel. Spero non ti offenderai),
    Figurati, mi piacciono entrambi

    Citazione Originariamente Scritto da Cabala Candelaia Circea Visualizza Messaggio
    perchè conosci tu qualche divinità che non sia permalosa? Va bene che assiri, nonni e fratelli, diedero gran lustro alla demonologia per porre un freno alla protervia del "bene" e farlo collimare più verso un dualismo panteista, ma non pensiate che il monoteista per eccellenza sia avulso da almeno (in realtà li commette tutti) uno dei vizi capitali. 7, proprio come i giorni che ci mise il buon Dio a creare un microscopico pianeta in un'immensa galassia, inclusa in un ammasso di galassie, in una parte insignificante dell'universo. Ed infatti la domenica (o il sabato, a seconda di che monoteismo facciate parte) è dedicata all'ozio, o accidia se vogliamo essere più sofisticati. Lascio a voi trovare le altre connessioni.

    Ed avendo creato noi, bipedi pelosi, a sua immagine e somiglianza, siamo per forza di cose tanto permalosi quanto lo fu lui.
    E' assai più plausibile pensare che siano tutti assai permalosi in quanto creazioni di esseri assai permalosi (noi). hefico:

  7. #17
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    Predefinito Riferimento: Atei ed Agnostici famosi.

    EPICURO
    (341-270 a.C.)

    Epicuro (letteralmente "salvatore") nacque sull'isola di Samo, suo padre era un maestro e sua madre una maga. Appassionato di filosofia sin da giovane, a quattordici anni lasciò l'isola per studiare con il platonico Panfilo e l'atomista Nausifane, che gli fece conoscere il pensiero di Democrito.

    Soggiornò poi ad Atene, a Colofone, a Mitilene e a Lampsaco, quindi nel 306 a.C., insoddisfatto dell'insegnamento altrui, aprì ad Atene la sua scuola filosofica in una casa con un ampio terreno adibito a giardino, dove i seguaci vivevano in comunità (per questo vennero chiamati "filosofi del Giardino").

    *

    Sommario

    1. L'adesione all'atomismo

    2. Tutto è caos, niente è necessità
    (l'uomo liberato dal destino e dagli dei)

    3. Le affezioni: il piacere e il dolore

    4. La vera felicità (e il vero piacere)

    5. L'ignoranza genera dolore

    6. Il tetrafarmakon e la scala dei piaceri

    7. Tre ingredienti per la felicità

    *


    1. L'adesione all'atomismo

    La filosofia di Epicuro fu principalmente filosofia etica, ma questo suo carattere pratico non escluse comunque un approccio di fondo più propriamente "metafisico", Epicuro fu infatti un convinto sostenitore dell'atomismo democriteo. Sua ferma convinzione era che "nulla nasca dal nulla" e che "nessuna cosa si dissolva nel nulla" (e in questo assunto era fedele ai primi filosofi della physis). Se l'evidenza del divenire come nascere e dissolversi delle cose è comunque certa perché dato immediato dell'esperienza, la spiegazione della realtà non può comunque privarsi di un fondo razionalista. Tutte le cose, infatti, pur mutando, devono preesistere in una forma immutabile. Gli enti nascono dall'aggregazione di particelle semplici e indivisibili (gli atomi) che si dividono e ritornano al loro stato elementare quando gli stessi enti si disgregano. Non esiste quindi una distruzione assoluta degli enti: gli atomi rimangono eterni e incorrotti, mentre sono le forme che mutano e si dissolvono.


    2. Tutto è caos, niente è necessità

    Ma se per Democrito il movimento che generava il vortice atomico era determinato da una precisa legge di necessità (gli atomi più leggeri salivano verso l'alto e quelli più pesanti cadevano verso il basso), per Epicuro il movimento degli atomi è totalmente casuale: "nell'universo non esiste alcun ordinamento prestabilito e immutabile, e tutto ciò che esiste è casuale e fortuito, quindi assolutamente sprovvisto di scopo e di senso." (E. Severino, La filosofia antica). Da questo consegue che l'uomo non è vincolato ad alcun destino predefinito, come invece affermavano gli stoici, e che nemmeno gli dei si interessano delle questioni umane, per dirla come Epicuro "gli dei non si occupano del destino degli uomini poiché si godono indifferenti la loro beatitudine".

    Epicuro afferma che all'idea del Fato che ci vincola nella sua necessità sarebbero preferibili anche gli antichi miti sugli dei, ritenendo che la felicità dell'uomo debba passare per la coscienza che non esiste alcuno scopo e alcuna logica che sottende gli eventi. Dunque, mentre per Kierkegaard e Sartre questa assenza di scopi dell'esistenza conduce all'angoscia e alla nausea, in Epicuro la totale gratuità della condizione umana è prerogativa di felicità, poiché libera l'uomo dal turbamento che lo coglie quando si sente oppresso dalla logica delle punizioni e delle ricompense divine. E' dunque la liberazione dall'inganno e dall'errore della superstizione che produce nell'uomo la tranquillità dell'animo.


    3. Le affezioni: il piacere e il dolore

    Scrupolo di Epicuro è attenersi il più possibile all'evidenza originaria delle cose, poiché è nell'evidenza che si mostra la verità. Epicuro ritiene quindi di individuare negli uomini due stati d'animo innegabili e originariamente irriducibili: il piacere e il dolore. Questi stati d'animo, che vengono chiamati da Epicuro "affezioni", sono i due sentimenti che muovono tutte le azioni degli uomini. Il piacere è quindi principio di bene, il dolore è invece sintomo di errore e quindi di male, queste sono verità originarie e di per sé evidenti che non hanno bisogno di essere provate.

    Oltre alle affezioni, da ricordare che per Epicuro sono evidenze innegabili anche gli stati sensibili (il caldo, il freddo, la luce, il buio, il dolce, il salato, ecc.), e anche le cosiddette "prolessi", ovvero quelle rappresentazioni generali della mente che ci danno il senso degli eventi presenti sulla base dell'esperienza di quelli passati).

    Dunque è evidente la radice "materialista" dell'epicureismo: sono gli stati sensibili gli unici fatti che godono il privilegio di un'evidenza innegabile e quindi possono dirsi verità.


    4. La vera felicità (e il vero piacere)

    Ma, contrariamente a quello che si può pensare, per Epicuro la vera felicità non consiste nel piacere dei dissoluti. Come già per Socrate, Epicuro afferma che un piacere che conduce a successivi affanni non può dirsi vero piacere. Il vero piacere è un piacere che è già compiuto in sé, che non si incrementa e non decresce, resta stabile, perché rappresenta la perfezione. A questo tipo di piacere si arriva per sottrazione del dolore: il vero piacere è quindi assenza di dolore fisico (aponia, "privo di pena") che spirituale (atarassia, "privo di turbamento").

    Sul dolore fisico Epicuro sostiene che se è lieve non può offuscare il piacere di vivere, se è acuto, dura poco e se acutissimo conduce presto alla morte. In quanto alla morte, Epicuro ripropone la natura materialista della sua dottrina: il corpo è un'aggregazione di atomi, tutti gli stati dolorosi e sensibili provengono dal corpo in quanto aggregazione, la morte è disgregazione degli atomi, quindi la morte è assenza di dolore perché è assenza di percezioni. Con le parole di Epicuro: "Nulla c'è di temibile nel vivere per chi sia veramente convinto che nulla di temibile c'è nel non vivere più".

    Una volta però accettata la morte come annullamento del corpo e assenza del dolore, resta il fatto che la morte può impedire di fatto che si viva la felicità, e per questo può essere un male. Epicuro ribatte allora che se la vera felicità, il vero piacere, è l'assenza del dolore, allora il massimo piacere che un uomo può provare in vita non è superabile una volta raggiunto, poiché non si può, una volta tolto il dolore, pretendere di togliere altro. La vera felicità è già compiuta in sé, e non basterebbe quindi l'eternità per raggiungere una felicità più grande. L'uomo che non conosce la felicità come assenza del dolore è destinato a soffrire invece per tutta la vita, alla ricerca continua di nuovi piaceri che mai soddisferanno la sua sete di felicità.


    5. L'ignoranza genera dolore

    L'uomo è destinato a provare dolore se non conosce la verità, e la verità si rispecchia nel saper distinguere il vero piacere dal piacere dei dissoluti. La saggezza e la sapienza conducono quindi all'autentica felicità, in quanto è grazie al loro apporto che l'uomo si mette in quella disposizione d'animo che lo conduce a fare chiarezza sulle cose. Il vero piacere è l'assenza del dolore, ma ignorandone il significato l'uomo non può che cadere nell'errore, è dall'ignoranza che scaturiscono tutti i mali, le pene e le cure. Partendo da questa verità, presente alla coscienza del saggio e del sapiente, l'uomo può finalmente derivare tutto quell'insieme di regole di vita che permettono all'uomo di curare il male dell'anima (e sopportare dunque con maggiore coraggio il male del corpo). Se l'ignoranza del vero senso del piacere conduce al dolore, la verità conduce allora al piacere.

    Compito della filosofia epicurea è quindi dare all'uomo un metodo valido per superare la percezione del dolore e dell'infelicità, veri mali del mondo. E' dunque funzione della filosofia, che consiste infatti "nell'aver cura della sapienza", fornire l'uomo dei mezzi più validi per chiarire il vero significato del piacere e quindi della felicità, perché non conoscendone il vero significato, gli uomini sarebbero in balia di quell'ignoranza che li farebbe brancolare nel buio, impedendo loro di approdare alla serenità dell'animo.


    6. Il tetrafarmakon e la scala dei piaceri

    E' in ragione di quanto si è detto che la filosofia epicurea si costituisce come vero "farmaco" per l'anima (pharmakon significa "medicina"). Epicuro stila dunque una lista di quattro regole auree per la serenità dell'animo, il tetrafarmakon (altrimenti detto "quadrifarmaco"):

    1. Se anche gli dei esistono, non si interessano comunque delle vicende umane;
    2. Essendo disgregazione degli atomi del corpo, e quindi assenza di percezione, la morte, in sé, non costituisce dolore;
    3. Il piacere è accessibile a tutti;
    4. Se un dolore è acuto, allora conduce presto alla morte (che è assenza di percezione e quindi di dolore), se è breve, è sopportabile.

    Ecco dunque il "breviario" della pratica epicurea: la prima regola permette di liberare l'uomo dal timore del castigo divino, la seconda lo libera dal timore della morte, la terza indica ad ogni uomo che può raggiungere la felicità, la quarta permette di affrontare con la giusta serenità il dolore fisico.

    Esiste poi una scala dei piaceri che permette di discernere il piacere più autentico da quelli accessori, alla base vi sono i piaceri indispensabili ad una vita felice, oltre si pongono i piaceri che possono anche essere trascurati e non sono necessari per il conseguimento della felicità.

    I piaceri fondamentali e necessari, senza i quali l'uomo non può essere felice, sono quelli naturali: l'amicizia, la libertà, la consolazione e il conforto del pensiero e della parola, ma anche un riparo per il corpo, del cibo, dei vestiti.

    Giungono poi i piaceri naturali ma non del tutto necessari, quali, ad esempio, una grande dimora, uno stuolo di servitori, i banchetti, le terme, l'abbondanza delle portate, il lusso e la ricercatezza. Tali piaceri possono sia alla felicità che all'infelicità, in quanto si possono provare anche ignorando la verità circa la vera natura della vita felice.

    Infine vi sono i piaceri del tutto accessori (i piaceri dei dissoluti), come, ad esempio, la fama, il potere e la gloria (i quali sono anche dannosi).

    Un motto degli epicurei era "vivi nascosto": contrariamente agli stoici, che predicavano la partecipazione attiva alla vita pubblica, gli epicurei prediligevano la cura della propria anima. Epicuro non predicava quindi l'eccesso e l'abbondanza (come talora si può essere portati a credere secondo l'uso moderno del termine "epicureo"), ma la ricerca e il conforto del necessario.


    7. Tre ingredienti per la felicità

    L'amicizia. "Di tutti i beni che la saggezza procura per la completa felicità della vita il più grande di tutti è l'acquisto dell'amicizia."

    Epicuro teneva in gran conto la vera amicizia. Il vero amico è colui che ama e rispetta l'altro per ciò che è e non per ciò che possiede. Tra veri amici si crea intimità, si condividono malinconie, ci si conforta. L'amicizia è in grado dare sicurezza nella misura in cui ci sentiamo compresi e accettati.

    Sfidando i costumi, Epicuro e i suoi seguaci vissero in una grande casa priva di lusso e di decori, tuttavia coltivavano ciò di cui avevano bisogno per mangiare, e, cosa più importante, mangiavano assieme. "...dilaniare carni senza la compagnia di un amico è vita da leone e da lupo".

    La libertà. L'uomo libero è già a un passo dalla vera felicità, l'uomo che si libera dalle opinioni altrui lo è ancora di più. Si è già visto come per Epicuro la libertà dal volere degli dei sia già di conforto, a maggior ragione la libertà dell'uomo di fronte al proprio destino o a qualsiasi destino imposto da altri uomini è motivo di felicità e di piacere.

    Il pensiero, la parola e la scrittura consolatoria. La comunità epicurea era votata alla discussione dei problemi e alla riflessione. Molti degli amici di Epicuro erano scrittori e poeti. Epicuro amava discutere ed esaminare le proprie ansie legate al possesso del denaro, alle preoccupazioni legate alla salute, alla morte e all'aldilà. Discutere razionalmente della morte avrebbe aiutato, secondo il filosofo, ad alleviarne la paura. L'analisi lucida delle ansie e delle paure, sia per mezzo della discussione che della scrittura, se non è un rimedio assoluto, è tuttavia una consolazione, cosa che, a fini pratici, è tutt'altro che da sottovalutare.

    "Ciò che al presente non ci turba, stoltamente ci addolora quanto è atteso". Questa frase riassume bene l'atteggiamento filosofico di Epicuro: la vita è pratica di felicità, non conviene pensare a ciò che potrà accadere in futuro se questo implica la rovina della propria serenità presente.

    Epicuro
    Concedi alla ragione il privilegio di essere l'ultima pietra di paragone della verità. (Immanuel Kant)

  8. #18
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    Predefinito Riferimento: Atei ed Agnostici famosi.

    Lucrezio
    (in latino Titus Lucretius Carus; Campania, 98 a.C. o secondo altri 96 a.C. – Roma, 55 a.C. o secondo altri 53 a.C.) è stato un poeta e filosofo latino.

    Della vita di Lucrezio ci è ignoto quasi tutto: egli non compare mai sulla scena politica romana né sembra esistere negli scritti dei contemporanei in cui non viene mai citato, eccezion fatta per una lettera di Cicerone (Ad familiares), dove il celebre oratore accenna all'edizione postuma del poema di Lucrezio, che egli starebbe curando. Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel suo Chronicon, in cui ci dice che circa nel 94 a.C. Titus Lucretius Carus nascitur, qui postea a poculo amatorio in furorem versus et per intervalla insaniae cum aliquot libros conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, sua manu se interfecit anno 44 ("nasce il poeta T. Lucrezio, che dopo essere impazzito per un filtro d'amore e aver scritto alcuni libri [del poema?] negli intervalli della follia, che Cicerone pubblicò postumi, si suicidò a quarantadue anni"); tale dato non concorda tuttavia con quanto affermato da Elio Donato (IV d.C.), maestro di San Gerolamo, secondo il quale Lucrezio sarebbe morto quando Virgilio (nato nel 70 a.C.) indossò a 15 anni la toga virile, nell'anno in cui erano consoli per la seconda volta Crasso e Pompeo. Questo dato ha fatto propendere a credere che Lucrezio nacque nel 98 a.C. per poi morire nel 55 a.C., all'età di quarantaquattro anni. Queste vengono comunemente considerate le uniche notizie biografiche tramandate direttamente dall'antichità. Ignoto risulta anche il luogo di nascita, che tuttavia taluni hanno creduto essere la Campania e più precisamente Pompei od Ercolano per la presenza di un Giardino Epicureo in quest'ultima città, e la condizione sociale, sebbene i tria nomina e il suo anelito pacifista facciano credere che potesse essere di nascita aristocratica. Neppure la sua militanza politica sembra essere ricostruibile: il desiderio di pace accennato prima non sembra affatto ricordare il drammatico rancore dell'aristocratico (per altro stoico) che vede sgretolarsi la Repubblica e la Libertà ma il desiderio dell'amico epicureo, che vede nella pace e il benessere di tutti la possibilità di poter fare accoliti e viver serenamente.

    Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da auspicare alla fine del proemio della sua opera un "placida pace" per i Romani. Questo anelito così forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo in Lucrezio, ma anche in Catullo, Sallustio, Cicerone, Catone l'Uticense e perfino in Cesare: esso rappresenta il desiderio di un'intera società dilaniata da un secolo di guerre civili e lotte intestine.

    La scomodità di Lucrezio

    Lucrezio, per il periodo in cui è vissuto, è stato un personaggio scomodo: gli ideali epicurei di cui era profondamente intriso corrodevano le basi del potere di una Roma alla vigilia della congiura di Catilina. Per questo motivo su di lui si abbatté inevitabilmente una "damnatio memoriae",[senza fonte] una vera e propria congiura del silenzio, che mise in atto una consapevole distorsione della realtà. In un'epoca di tensioni repubblicane, infatti, isolarsi dalla realtà politica nell'hortus (greco "κῆπος") epicureo significava estraniarsi dal mondo della polis e uscire di conseguenza anche dalla sfera d'influenza del potere.

    La presunta pazzia

    La natura poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo pessimismo esistenziale avanzi profezie apocalittiche, visioni quasi allucinate, critiche e ambigue espressioni, che accompagnano il poema. È chiara però la strumentalizzazione fatta da teologi cristiani come San Girolamo ed altri, specialmente teologi cattolici contemporanei, per farne un ateo psicotico in preda alle forze del male. Appoggiandosi impropriamente alla psicoanalisi qualcuno ha sostenuto che in certi bruschi cambiamenti di immagine e di pensiero ci fossero i sintomi di una pazzia delirante o di problemi di ordine psichico.

    La pazzia di Lucrezio è con tutta evidenza una mistificazione di teologi cristiani in cattiva fede per evitare che il più pericoloso dei poeti atei potesse far proseliti, così come la presunta morte per suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che travia chi lo segue. L'epilessia poi, viene avanzata sulla base dell'arcaica credenza che il poeta fosse sempre un invasato; elemento quest'ultimo da collegare alla credenza che gli epilettici fossero sacri ad Apollo e da lui ispirati nelle loro creazioni.

    Comunque gli scrittori cristiani Arnobio e Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e che non si fosse ucciso. L'ipotesi della follia e del suicidio attestata dal Chronicon di San Gerolamo si fondava su infondate illazioni di Svetonio. Potrebbe anche esserci stata una confusione dovuta all'abbreviazione Luc., impiegata indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi di Lucillius, Lucullus e Lucretius. Plutarco scrisse infatti di un certo Licinio Lucullo, politico, generale e cultore dei piaceri, che morì dopo essere impazzito a causa di un filtro d'amore. L'errore di interpretazione dell'abbreviazione Luc. potrebbe così aver permesso lo scambio dei due personaggi.

    Il progetto letterario

    A causa dell'impossibilità di ricostruire i momenti salienti della sua vita, dunque, il progetto letterario che egli volle esprimere è ricostruibile interamente solo dalla sua opera poetica, considerata tra le più vigorose d'ogni età. In una Roma sull'orlo del collasso delle guerre civili e schiacciata dal suo stesso peso politico, impregnata di stoicismo e di religione, Lucrezio scopre il nemico della pace tanto desiderata: quello stesso stoicismo e quella religione che reggono Roma. È l'epicureismo a convincere Lucrezio del traviamento romano: la cagione delle sofferenze patite in quei tristi tempi, è nel non aver accettato la filosofia epicurea, che, secondo Lucrezio, è il farmaco che salverà Roma dalla catastrofe.

    La rivoluzione lucreziana

    Egli dunque si prospettava di rivoluzionare il cammino di Roma, riportandolo all'epicureismo che aveva declinato in favore dello stoicismo. La prima cosa da distruggere era la convinzione provvidenzialistica stoica e più propriamente romana[senza fonte]: non c'era un dovere romano di civilizzare "l'orbe terrifero e de le acque", come dirà Virgilio ad un Enea che parla alla Sibilla Cumana; non c'è un intelletto seminale in ognuno di noi che è parte integrante del Divino e che farà ritornare tutto attraverso i tempi; ma un mondo che non è unico nell'universo, che peraltro è infinito, anzi esso stesso è uno dei possibili mondi tutti esistenti o che esisteranno. Non c'è quindi nessun fine provvidenziale di Roma, essa è una Grande fra le Grandi, ed un giorno perirà nel suo tempo. La religione, considerata come Instrumentum regni, deve non essere distrutta, ma integrata: non c'è preghiera che schiuda le fauci di una tempesta, giacché essa è regolata da leggi fisiche e gli dei, seppur esistenti e anche loro composti da atomi così sottili che ne assicurano l'immortalità, non si curano del mondo né lo reggono; ma la religione deve essere inglobata nella scoperta e nello studio della natura, che rasserena l'animo e fa comprendere la vera natura delle cose: infatti l'unico principio divino che regge il mondo è la Divina Voluptas: il piacere, la vita stessa intesa come animazione regge l'universo, ed è l'unica cosa in grado di fermare lo sfacelo che sta portando Roma alla fine: Marte, ovvero la Guerra. Proprio per questo, egli elogia Atene, creatrice di quegli intelletti più grandi che hanno illuminato la natura e quindi l'uomo stesso, ed in ultima istanza Epicuro, sole invitto della conoscenza rasserenatrice. Non solo, egli stesso si sente quasi un poeta rasserenatore delle tempeste umane e proprio per questo si sente profondamente affine ai poeti delle origini, il cui luogo principe è in Empedocle (secondo infatti per elogi solo a Epicuro) ma con una sola grande differenza: egli non è portatore di una verità divina fra le umane genti, ma di una verità affatto umana, universale e per tutti, che attecchirà ben presto per la salvezza di Roma.

    Il destinatario e i destinatari

    Come detto sopra, il dedicatario è la Claris Memmiadis Propago, ovvero il rampollo della famiglia dei Memmi, che solitamente si fa indicare con Gaio Memmio. Più in generale, si può dire che il destinatario che l'autore si prefigge di conquistare è proprio il giovane aperto e pronto ad ogni esperienza che un giorno prenderà il posto dei politici e attuerà quella rivoluzione propugnata con così tanto fervore da Lucrezio. Ma, almeno con Memmio, egli fallì: cresciutosi divenne un dissoluto, fraintendendo il significato di piacere catastematico epicureo, e fu allontanato dal Senato Probi Causa, ovvero per immoralità. Dopo di ciò si riparò in Grecia, dove scrisse poesie licenziose, e dove ce lo cita anche Cicerone (nelle Ad Familiares), pronto a voler distruggere la casa e il giardino dove proprio Epicuro risiedette, suscitando lo sdegno degli epicurei che fecero istanza a Cicerone di intervenire per impedirglielo, cosa in cui Cicerone fallirà.

    Lo stile

    In un simile progetto Lucrezio scelse di doversi rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in Livio Andronico, ma soprattutto in Ennio e in Pacuvio i modelli emuli, per motivi fra loro quanto meno vari: l'egestas linguae (povertà della lingua),lo vede costretto a dover arrangiare le lacune terminologiche e tecnicistiche con l'arcaismo, ancora che proprio Lucrezio, insieme a Cicerone, sia uno dei fondatori del lessico astratto e filosofico latino, e a colmare e ancor meglio comprendere l'oscurità del filosofo con la mielosa luce della poesia. Discendendo più in profondità nelle anguste gole del poema, si notano anche altri problemi cui dovette far fronte: primo fra tutti, come tradurre parole di pregnanza filosofica in latino, che ancora non aveva termini confacenti. Finché potette, egli evitò la semplice translitterazione (ad es. "Atomus" per Ατομος) e preferì invece usare altri termini presenti già nella sua lingua magari dandogli altra accezione oppure (come mostrato anche sopra) creando neologismi. Ed è proprio grazie all'arcaismo che Lucrezio riesce a rendere possibile tutto questo: infatti era proprio dello stile arcaico il neologismo munificenza ed anche un certo uso (convulso a detta di antichi e moderni) delle figure di suono quali allitterazioni, consonanze, assonanze e omoteleuti. Molto importante è anche il fatto che Lucrezio non si limitò a trasmettere il messaggio di Epicuro con un arido scritto filosofico, ma lo fece attraverso un poema che, a differenza del rigoroso linguaggio razionale della filosofia, parla per squarci imaginifici.

    Il De Rerum Natura


    Si tratta di un poema didascalico, di natura scientifica-filosofica, in esametri suddiviso in sei libri, dedicato a Gaio Memmio.

    Riproduce il modello prosastico e filosofico epicureo e la struttura del poema Περὶ φύσεως di Empedocle (anche un'opera di Epicuro aveva il medesimo titolo).

    Secondo i filologi vi sono corrispondenze e simmetrie interne che corrisponderebbero ad un gusto alessandrino. L'opera infatti è suddivisa in tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica. Ogni diade comincia con un inno ad Epicuro e l'ultimo libro termina con un altro inno ad Epicuro, mentre il secondo libro inizia con un inno alla scienza e il terzo libro con l'esposizione dell'estetica di Lucrezio.

    Essendo un poema didascalico, ha come modello Esiodo e quindi anche Empedocle, che aveva preso il modello esiodeo come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri modelli potrebbero essere i poeti ellenistici Arato e Nicandro di Colofone, che usavano il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria.

    Critiche

    Molti critici hanno affermato che il De Rerum Natura sia un libro incompiuto. Se infatti lo scopo di Lucrezio era quello di trasmettere un'etica, egli non ne ostentò mai direttamente le caratteristiche. Questa critica mette in luce, però, una delle più grandi abilità di Lucrezio di trasmettere, attraverso l'analisi del cosmo, un'etica implicita che non consisteva certo nel confezionare valori predefiniti, ma nel fornire, invece, gli strumenti culturali per decidere liberamente in cosa credere.

    La filosofia

    Il poema ha tre argomenti principali: La lacerante antinomia fra ratio e religio La ratio è vista da Lucrezio come quella chiarità folgorante della verità «che squarcia le tenebre dell'oscurità»,è il discorso razionale sulla natura del mondo e dell'uomo,quindi la dottrina epicurea, mentre la religio è ottundimento gnoseologico e cieca ignoranza.Indica l'insieme di credenze e dunque di comportamenti umani "superstiziosi" nei confronti degi dei e della loro potenza.Poichè la religio si basa sulla ratio essa è falsa e pericolosa.

    Lucrezio afferma che sono evidenti le nefaste conseguenze della religione e adduce come esempio il caso di Ifigenia, dicendo poi che il mito è una rappresentazione falsata della realtà (cfr. Evemerismo). La religione è perciò la causa principale dell'ignoranza e dell'infelicità degli uomini.

    Lucrezio riprende i temi principali della dottrina epicurea, che sono: l'aggregazione atomistica e la 'parenklisis (che egli ribattezza clinamen, la liberazione dalla paura della morte, la spiegazione dei fenomeni naturali in termini meramente fisici e biologici. Egli opera un completamento di essa in senso naturalistico ed esistenzialistico, introducendo un elemento di pessimismo, assente in Epicuro, probabilmente da attribuirsi a un suo stato di depressione di cui era affetto.

    Da un punto di vista ontologico, secondo Lucrezio, tutte le specie viventi (animali e vegetali) sono state "partorite" dalla Terra grazie al calore e all'umidità originari. Ma egli avanza anche un nuovo criterio evoluzionistico: le specie così prodotte sono infatti mutate nel corso del tempo, perché quelle malformate si sono estinte, mentre quelle dotate degli organi necessari alla conservazione della vita sono riuscite a riprodursi.[2] Tale concezione materialista, antiprovvidenzialista e storica della natura sarà ereditata e rielaborata da molti pensatori materialisti dell'età moderna, in particolare Diderot e La Mettrie.

    L'uomo e il progresso

    Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di beatitudine originaria e afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di bisogno tramite la produzione di tecniche, che sono trasposizioni della natura.

    Per Lucrezio, però, il progresso non è positivo a priori, ma solo finché libera l'uomo dall'oppressione. Se è invece fonte di degradazione morale, lo condanna duramente.
    Concedi alla ragione il privilegio di essere l'ultima pietra di paragone della verità. (Immanuel Kant)

  9. #19
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    Predefinito Riferimento: Atei ed Agnostici famosi.

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    Predefinito Riferimento: Atei ed Agnostici famosi.

    Parmenide di Elea
    (in greco Παρμενίδης; Elea, 515 a.C. – 450 a.C.) è stato un filosofo greco antico presocratico. Fu il maggiore esponente della scuola eleatica.

    La vita

    Parmenide nacque in Magna Grecia, ad Elea (Velia in epoca romana), da una famiglia aristocratica. Della sua vita si hanno poche notizie. Fu probabilmente discepolo di Senofane. Dai suoi concittadini sarebbe stato chiamato a redigere le leggi della sua città. Ad Elea fondò inoltre una scuola, insieme al suo discepolo prediletto Zenone. Platone nel Parmenide riferisce di un viaggio che negli anni della vecchiaia Parmenide intraprese alla volta di Atene, dove conobbe Socrate da giovane col quale ebbe una vivace discussione.

    Il Poema sulla natura

    L'unica opera di Parmenide è il poema in esametri intitolato Poema sulla natura [1], di cui alcune parti sono citate da Simplicio in De coelo (De cœlo 556, 25) e nei suoi commenti alla Fisica aristotelica (In Aristotelis Physica commentaria), da Sesto Empirico (Adversus mathematicus, libro VII) e da altri scrittori antichi. Di tale poema ci sono giunti ad oggi diciannove frammenti, alcuni dei quali allo stato di puro stralcio, che comprendono un Proemio e una trattazione in due parti: La via della Verità e La via dell'Opinione; di quest'ultima abbiamo solo pochi versi.

    L'Essere

    Nel Poema sulla natura Parmenide sostiene che la molteplicità e i mutamenti del mondo fisico sono illusori, e afferma, contrariamente al senso comune, la realtà dell'Essere: immutabile, ingenerato, finito , immortale, unico, omogeneo, immobile, eterno.

    La narrazione si snoda intorno al percorso intellettuale del filosofo che racconta il suo viaggio immaginario verso la dimora della dea Diche (dea della Giustizia) la quale lo condurrà al «cuore inconcusso della ben rotonda verità». Secondo alcuni, la splendida donna rappresenterà d'ora in poi il significato della filosofia . La dea mostra al filosofo la via dell'opinione, che conduce all'apparenza e all'inganno, e la via della verità che conduce alla sapienza e all'Essere (τὸ εἶναι, tò èinai).

    Pur non specificando cosa sia questo essere, Parmenide è il filosofo che per primo ne mette a tema esplicitamente il concetto; su di esso egli esprime soltanto una lapidaria formula, la più antica testimonianza in materia, secondo la quale «l'essere è, e non può non essere», «il non-essere non è, e non può essere»:
    (GRC)
    « ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι
    ...
    ἡ δ' ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι μὴ εἶναι »
    (IT)
    « è, e non è possibile che non sia
    ...
    non è, ed è necessario che non sia »
    (Parmenide, Sulla Natura, fr. 2, vv 3;5 - raccolta DIELS KRANZ / fonti: Simplicio, Phys. 116, 25. Proclo, Comm. al Tim.)

    Con queste parole Parmenide intende affermare che niente si crea dal niente, e nulla può essere distrutto nel nulla. Già i primi filosofi greci avevano cercato l'origine (o ἀρχή, archè) della mutevolezza dei fenomeni in un principio statico che potesse renderne ragione, non riuscendo a spiegarsi il divenire. Ma i cambiamenti e le trasformazioni a cui è soggetta la natura, tali per cui alcune realtà nascono, altre scompaiono, secondo Parmenide non hanno semplicemente motivo di esistere, essendo pura illusione. La vera natura del mondo, il vero essere della realtà, è statico e immobile. A tali affermazioni Parmenide giunge promuovendo per la prima volta un pensiero basato non più su spiegazioni mitologiche del cosmo, ma su un metodo razionale, servendosi in particolare della logica formale di non-contraddizione, da cui si traggono le seguenti conclusioni:

    * L'Essere è immobile perché se si muovesse sarebbe soggetto al divenire, e quindi ora sarebbe, ora non sarebbe.
    * L'Essere è Uno perché non possono esserci due Esseri: se uno è l'essere, l'altro non sarebbe il primo, e sarebbe quindi non-essere. Allo stesso modo per cui, se A è l'essere, e B è diverso da A, allora B non è: qualcosa che non sia Essere non può essere, per definizione.
    * L'Essere è eterno perché non può esserci un momento in cui non è più, o non è ancora: se l'essere fosse solo per un certo periodo di tempo, a un certo momento non sarebbe, e si avrebbe contraddizione.
    * L'Essere è dunque ingenerato e immortale, poiché in caso contrario implicherebbe il non essere: la nascita significherebbe essere, ma anche non essere prima di nascere; e la morte significherebbe non essere, ovvero essere solo fino a un certo momento.
    * L'Essere è indivisibile, perché altrimenti richiederebbe la presenza del non-essere come elemento separatore.

    L'Essere risulta così vincolato dalla necessità (ἀνάγχη, anànche), che è il suo limite ma al contempo il suo fondamento costitutivo: «la dominatrice Necessità lo tiene nelle strettoie del limite che tutto intorno lo cinge; perché bisogna che l'essere non sia incompiuto».


    Parmenide paragona l'Essere a una sfera perfetta, sempre uguale a se stessa nello spazio e nel tempo, chiusa e finita (per gli antichi greci il finito era sinonimo di perfezione). La sfera è infatti l'unico solido geometrico che non ha differenze al suo interno, ed è uguale dovunque la si guardi; l'ipotesi collima suggestivamente con la teoria della relatività di Albert Einstein che nel 1900 dirà: «Se prendessimo un binocolo e lo puntassimo nello spazio, vedremmo una linea curva chiusa all'infinito» in tutte le direzioni dello spazio, ovvero, complessivamente, una sfera (per lo scienziato infatti l'universo è sferico sebbene finito, fatto di uno spazio ripiegato su se stesso).

    Fuori dell'Essere non può esistere nulla, perché il non-essere, secondo logica, non è, per sua stessa definizione. Il divenire attestato dai sensi, secondo cui gli enti ora sono e ora non sono, è una mera illusione (che appare ma in realtà non è). La vera conoscenza dunque non deriva dai sensi, ma nasce dalla ragione. «Non c'è nulla di errato nell'intelletto che prima non sia stato negli erranti sensi» è la frase che d’ora in poi sarà attribuita a Parmenide. Il pensiero è dunque la via maestra per cogliere la verità dell'Essere: «ed è lo stesso il pensare e pensare che è. Giacché senza l'essere ... non troverai il pensare», a indicare come l'Essere si trovi nel pensiero. Pensare il nulla è difatti impossibile, il pensiero è necessariamente pensiero dell'essere. Di conseguenza, poiché è sempre l'essere a muovere il pensiero, la pensabilità di qualcosa dimostra l'esistenza dell'oggetto pensato. Tale identità immediata di essere e pensiero, a cui si giunge scartando tutte le impressioni e i falsi concetti derivanti dai sensi, abbandonando ogni dinamismo del pensiero, accomuna Parmenide alla dimensione mistica delle filosofie apofatiche orientali, come il buddhismo, il taoismo e l'induismo.

    Una volta stabilito che l'Essere è, e il non-essere non è, restava tuttavia da spiegare come nascesse l'errore dei sensi, dato che nell'Essere non ci sono imperfezioni, e perché gli uomini tendano a prestare fede al divenire attribuendo l'essere al non-essere. Parmenide si limita ad affermare che gli uomini si lasciano guidare dall'opinione (δόξα, doxa), anziché dalla verità, ossia giudicano la realtà in base all'apparenza, secondo procedimenti illogici. L'errore in definitiva è una semplice illusione, e dunque, in quanto non esiste, non si può trovargli una ragione. Compito del filosofo è unicamente quello di rivelare la nuda verità dell'Essere nascosta sotto la superficie degli inganni. Il tema sarà ripreso da Platone che cercherà una soluzione al conflitto tra l'essere e il molteplice; per sciogliere il dramma umano costituito dal senso greco del divenire (per cui tutto muta) che si scontra con una ragione, altra dimensione fondamentale della grecità, che è portata a negarlo, Platone concepirà il non-essere non più alla maniera di Parmenide staticamente e assolutamente contrapposto all'essere, ma come diverso dall'essere in senso relativo, nel tentativo di dare una spiegazione razionale anche al tempo e al molteplice.

    Il rigore logico di Parmenide gli valse inoltre l'appellativo di "venerando e terribile" da parte di Platone . La fiducia di Parmenide in un sapere completamente dedotto dalla ragione, e viceversa la sua totale sfiducia nei confronti dei sensi e di una conoscenza empirica, fa di lui un filosofo profondamente razionalista.

    Parmenide e la scuola di Elea

    Parmenide fu il fondatore della scuola di Elea, dove ebbe vari discepoli, il più importante dei quali fu Zenone. Il metodo usato dagli eleati era la dimostrazione per assurdo, con cui confutavano le tesi degli avversari giungendo a dimostrare la verità dell'Essere, nonché la falsità del divenire e delle impressioni dei sensi, per una "impossibilità logica di pensare altrimenti".

    Stupiva i contemporanei un ragionamento che scaturiva dalla radicale contrapposizione essere/non-essere e da un'immediata conseguenza del principio di non-contraddittorietà dell'essere e del pensiero, teorizzato in seguito da Aristotele come evidenza prima e indimostrabile alla ragione senza la quale diverrebbe impossibile qualsiasi conoscenza necessaria-filosofica, restando solo il mondo dell'opinione.

    Parmenide e gli eleati si contrapponevano soprattutto al pensiero di Eraclito, loro contemporaneo, filosofo del divenire che basava la conoscenza interamente sui sensi. Nella prospettiva della storia della filosofia, sarà quindi Hegel a concepire l'essere in maniera radicalmente opposta a Parmenide.

    Anche l'atomismo democriteo intese contrapporsi alla teoria eleatica dell'Essere (che aveva cercato una soluzione al problema dell’archè negando alla radice un fondamento originario al divenire), presupponendo gli atomi e uno spazio vuoto, diverso dagli atomi, in cui essi potessero muoversi, ipotizzando in un certo senso una convivenza di essere e non-essere.

    In seguito furono i sofisti a cercare di confutare il pensiero degli eleati, opponendo al loro sapere certo e indubitabile (επιστήμη, epistéme) sia il relativismo di Protagora, sia il nichilismo di Gorgia. Uno dei maggiori problemi sollevati da Parmenide riguardava in particolare l'impossibilità di oggettivare l'Essere, di darne un predicato, di sottrarlo all'astrattezza formale con cui Parmenide l'aveva enunciato, e che sembrava contrastare con la pienezza totale del suo contenuto. Fu seguendo questa strada che Platone, nel tentativo di risolvere il problema, approderà al mondo delle idee.

    L'interpretazione della "Doxa"

    Giovanni Reale ha elencato le diverse interpretazioni contemporanee sullo statuto ed il significato dell'opinione ed il suo rapporto con la verità. Si veda La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico / E. Zeller; [trad. e a cura di] R. Mondolfo, Parte 1, vol. 3, Eleati / a cura di Giovanni Reale, Firenze, La Nuova Italia, 1957, pp. 292-319.

    Scuola eleatica

    La Scuola eleatica è una scuola filosofica presocratica attiva ad Elea, colonia greca dell'antica Lucania, il cui esponente principale fu Parmenide. Altri membri della scuola sono Zenone di Elea, Melisso di Samo e Senofane di Colofone che viene da alcuni storici considerato come suo fondatore, ma questa posizione, probabilmente basata sull'apparente contiguità fra la polemica contro la molteplicità degli dei antropomorfi, propria di Senofane e il concetto dell'unità propria dell'essere, elaborato da Parmenide, è discussa. Le conoscenze su questa antica scuola, come per tutte le altre scuole presocratiche, è indiretta e si basa su sporadiche testimonianze e scarsi frammenti di autori più tardi.

    Storia

    La scuola prese il suo nome da Elea, Velia per i Romani, oggi nel comune di Ascea (Salerno), città greca sulle coste del Cilento, patria dei suoi più importanti esponenti: Parmenide e Zenone. La sua fondazione è spesso attribuita a Senofane di Colofone, ma, sebbene nella sua dottrina ci siano molti elementi che faranno parte integrante della speculazione della Scuola eleatica, è probabilmente più corretto guardare a Parmenide come suo fondatore.

    Senofane di Colofone fu il primo a muovere all'attacco della mitologia della Grecia arcaica, alla metà del VI secolo a.C., scagliandosi contro l'intero sistema antropomorfico sancito dai poemi di Omero ed Esiodo. Nelle mani di Parmenide questo spirito di libero pensiero si sviluppò in senso ontologico. In seguito, o perché le sue speculazioni risultavano offensive per i contemporanei cittadini di Elea, o a causa della mancanza di una salda guida, la scuola degenerò concentrandosi su temi eristici e retorici, mentre i migliori frutti di questa corrente furono assorbiti dalla metafisica platonica.

    Filosofia

    Gli Eleati rifiutano la validità epistemologica dell'esperienza dei sensi e invece assumono parametri matematici di chiarezza e necessità come criteri della verità. Dei diversi esponenti, Parmenide e Melisso dimostrano argomentazioni da premesse indubbiamente sicure, Zenone, al contrario, adopera principalmente il metodo dialettico della reductio ad absurdum, cercando di distruggere gli argomenti degli avversari mostrando che le loro premesse li portano a contraddirsi.

    Le principali dottrine degli Eleatici furono sviluppate in opposizione con i primi filosofi naturalisti della Scuola di Mileto, che spiegavano ogni forma di esistenza in termini di elementi primari e con la teoria di Eraclito, che dichiarava che ogni esistenza può essere riassunta come un perpetuo cambiamento. Gli Eleatici asserivano che la vera spiegazione delle cose si trova nella concezione dell'universale unità dell'essere. Conformemente a questa dottrina, i sensi non possono aver cognizione di questa unità, perché le loro impressioni sono inconsistenti: è solo tramite il pensiero che è possibile superare le false apparenze dei sensi (la doxa) e giungere alla conoscenza dell'essere e alla fondamentale verità che Tutto è Uno. Inoltre non può esserci creazione, perché l'essere non può scaturire dal non-essere, perché una cosa non può sorgere da ciò che è diverso da essa. Essi argomentano che gli errori su questo punto derivano comunemente per l'ambiguo uso del verbo essere che può significare esistere o essere mera copula che connette soggetto e predicato.

    Sebbene le conclusioni degli Eleatici fossero rifiutate dai più tardi presocratici e da Aristotele i loro argomenti vennero presi sul serio, e viene loro generalmente riconosciuto di aver notevolmente migliorato i parametri dell'argomentazione filosofica nella loro epoca, iniziando a formalizzare i concetti base della logica occidentale. La loro influenza fu similmente durevole, Gorgia, un sofista, argomenta secondo lo stile degli Eleatici nella sua opera Sulla natura o ciò che non è, mentre Platone ne riconobbe l'importanza nei dialoghi del Parmenide, del Sofista e del Politico. Inoltre, molti dei metodi e dei principi stabiliti per primi dagli Eleatici furono presi a prestito dalle filosofie più tarde.
    Concedi alla ragione il privilegio di essere l'ultima pietra di paragone della verità. (Immanuel Kant)

 

 
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