Spesa e tasse da paura: e in cambio?
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L’aggiornamento dei dati di contabilità nazionale pubblica 2009 reso noto oggi dall’Istat fa una certa impressione. E’ vero, nel 2009 con i suoi 5,3 punti di Pil di deficit pubblico l’Italia è rimasta abbondantemente sotto la media dell’Europa a 27, che ha registrato un deficit del 6,8%, con punte come l’Irlanda al 14,3%, la Spagna all’ 11,2%, il Regno Unito all’11,5%, la Francia al 7,5%. Ma quel che deve farci riflettere più di tutto sono tre fattori. Il primo riguarda il totale della spesa pubblica. Il secondo, la pressione fiscale. Il terzo, che cosa otteniamo in cambio dalle amministrazioni pubbliche – Stato e Autonomie – come cittadini e contribuenti, rispetto agli altri Paesi avanzati, paragonando livelli di spesa, d’imposta e contributi, alla qualità e agli effetti concreti dei servizi offerti al pubblico.
Il totale della spesa pubblica, comprendendo spesa primaria e interessi passivi sul debito, tocca il 52,5% del Pil nel 2009. E’ superiore di 2 punti alla media dell’Europa a 27. Ma è superiore di 5 punti di Pil a quella tedesca, tanto per fare il paragone con il Paese leader dell’Europa. In Germania, nel 1995 la spesa pubblica era pari al 54,8% del Pil. In quello stesso anno, in Italia la spesa era esattamente al livello del 2009, il 52,5%. La differenza è che i tedeschi hanno piegato verso il basso la spesa pubblica, in 15 anni di continue riforme, di ben 10 punti di prodotto. Noi siamo virtuosamente scesi al 46% nel 2000, per entrare nell’euro. Ma, da allora, gli oltre 6 punti di Pil che abbiamo risparmiato in minori tassi d’interesse sul debito, grazie all’euro, li abbiamo tutti trasformati in spesa primaria aggiuntiva. Ci siamo bruciato il dividendo dell’euro, per via di una politica che – destra o sinistra – non è riuscita dire no alla tentazione di spendere di più.
Venendo alla pressione fiscale, somma di imposte e contributi, nel 2009 è stata pari al 43,2% del Pil. Un record battuto solo dal 1997, in cui ammontò al 43,7%. Siamo 3 punti sopra la media dell’Europa a 16, e 4 punti sopra la media dell’Europa a 27. E’ vero che ci battono Danimarca e Svezia, con il 49 e il 48%, e anche Belgio e Austria, con il 45,3% e il 43,8%. Ma poiché la pressione italiana va ritarata sottraendo al Pil il 17% di economia “in nero” stimata dall’Istat, ecco che siamo i primi in Europa, col 51,8% di pressione sopportata nel 2009 da chi è in regola con la legge. E’ questo il dato da confrontare con il 40,7% di pressione fiscale tedesca. E’ un divario fortissimo, che pesa come piombo nelle ali dell’economia produttiva italiana, soprattutto nel manifatturiero che esporta e deve confrontarsi con la concorrenza sui mercati internazionali.
Di fronte a questi dati, ripetere solo la tiritera della lotta all’evasione fiscale non basta. Solo incidendo energicamente nella spesa pubblica, più energicamente di quanto fa Tremonti che pure solleva infinite resistenze e polemiche nei mille centri di spesa pubblica italiana, solo così l’Italia può riavvicinarsi a un sentiero di crescita fatto di meno spesa e meno tasse. Non è agli Stati Uniti che tanti criticano, che dobbiamo avvicinarci. Ma innanzitutto alla Germania, la patria della previdenza sociale e del welfare con Bismarck, a quella Germania che nessuno può considerare un Paese liberista, visto che prima ha regalato al mondo lo Stato etico nelle varianti rosse e nere, per ripiegare poi nel dopoguerra sull’economia sociale di mercato di Konrad Adenauer, attenta al welfare ma mai separato dalla competitività e produttività dell’economia reale.
Che cosa otteniamo in cambio, da livelli di spesa pubblica e d’imposizione tanto elevati e gravosi? Se avessimo i servizi sociali efficienti di Danimarca e Svezia, avrebbe ragione chi nega la ragione dei liberisti, chi pensa alla crescita anche con molto Stato. Ma i seguaci del modello scandinavo, nel nostro Paese, non sono mai riusciti a declinarlo in un sistema pubblico rigoroso come quello norderuropeo. La politica ha la cattiva abitudine di imporre sovraccosti molto più elevati, da noi. Giungendo in alcune Regioni del Sud a fare la differenza tra livelli ufficiali di reddito disponibile inferiori anche di più del 30% dalle punte più elevate del Paese, e livelli di consumo invece inferiori solo di 3 o 4 punti. A spiegare il paradosso non c’è solo mafia e camorra, in quelle Regioni. E’ la politica, il concreto funzionamento secondo logiche conventicolari e discrezionali delle pubbliche amministrazioni locali,a fare la differenza. Le massicce evasioni dell’IVA sino a oltre il 50% del gettito presumibile, la forbice di costi per servizi sanitari che in quelle Regioni supera anche del 60% quelli di Lombardia e Veneto, indica che in quelle Regioni è lo Stato ad essere corruttore, prima della malavita. O, se preferite, insieme. E sia detto con il massimo rispetto per l’abnegazione con cui moltissimi servitori dello Stato, in quelle Regioni, prodigano i loro sforzi.
Non è il caso di fare di tutt’erbe un fascio. Nelle graduatorie internazionali per tre settori diversi del welfare l’Italia ottiene valutazioni molto differenziate.
Nella sanità, l’Ocse attesta da anni la relativa eccellenza italiana. Continuiamo a essere tra coloro che spendono meno rispetto a Francia e Germania – noi 2700 euro in media a persona l’anno rispetto ai 3600 circa dei franco-tedeschi – ottenendo, malgrado i nostri sprechi tremendi in alcune Regioni, effetti migliori su aspettative di vita, contenimento di patologie, controllo epidemiologico.
Nelle politiche attive del lavoro, il giudizio comparato già ci vede superati non solo dagli scandinavi – che da decenni sperimentano tutele ai giovani e forme di workfare – ma anche dai tedeschi, assai più orientati a promuovere il lavoro che serve davvero alle imprese germaniche, a cominciare da quello tecnico-professionale.
Se poi guardiamo alla scuola, lì tutte le graduatorie internazionali attestano che proprio ancora non ci siamo. I giovani italiani restano in classe negli anni della scuola primaria e secondaria ormai quanto e più che negli altri Paesi avanzati, ma solo per giustificare il maggior numero di insegnanti assunti a misera paga comparata, piuttosto che per i risultati ottenuti. Continuiamo ad avere più abbandoni, più non diplomati disoccupati, e persino la Russia ormai ci ha superato per capacità di attirare studenti stranieri nelle nostre università.
C’è molto da disboscare e molto da cambiare, per la rivoluzione pubblica con meno tasse e meno spesa di cui ‘Italia continua ad avere bisogno.