di Adolfo Battaglia


Nel 1973-74 il ministro del Tesoro [Ugo La Malfa] fece […] in tempo a dare alcuni contributi alla riduzione del caos finanziario. Da una parte varò il disegno di legge per l’istituzione della Consob (trasmesso a Rumor con una lettera “riservata-personale, segreto”, per evitare speculazioni di Borsa)[1]. Dall’altro stroncò decisamente l’attività speculativa di Michele Sindona, lo spregiudicato finanziere connesso con la massoneria deviata e con la mafia, sodale del capo della P2 Gelli, in affari col Banco ambrosiano di Roberto Calvi nonché con la finanza cattolica di monsignor Marcinkus. Sindona era ricchissimo e aveva sostenitori politici straordinari: in particolare, il segretario della Dc Fanfani (di cui finanzierà per due miliardi di lire la campagna elettorale contro il divorzio) e Giulio Andreotti (che gli dava consigli sullo svolgimento delle sue attività e sugli uomini che avrebbero potuto aiutarlo). Ma la cerchia della sua influenza nell’ambiente della maggioranza andava anche oltre la Dc.
Sia gli atti della commissione parlamentare d’inchiesta istituita negli anni Ottanta[2], sia un libro di Corrado Stajano[3] forniscono affreschi impressionanti degli aspetti torbidi della vicenda. Ma forse non evidenziano adeguatamente un punto-chiave: le pressioni politiche che si esercitarono sul ministro del Tesoro nel 1973 per facilitare il finanziere in un’operazione che si sarebbe risolta in un’ennesima truffa ai risparmiatori per centinaia di miliardi, essenziali a Sindona per evitare il fallimento. Furono pressioni autorevolissime, continue, durarono mesi. La Malfa prima bloccò con una norma generale l’operazione. Poi confermò il suo diniego specifico e infine rifiutò addirittura di convocare il comitato per il credito da lui presieduto, che teoricamente avrebbe potuto avallare l’operazione mettendolo in minoranza. Fu aiutato da pochi: il governatore della Banca d’Italia Guido Carli (che aveva avuto per la verità qualche incertezza di orientamento), il capo della vigilanza bancaria Mario Sarcinelli, il direttore generale di Mediobanca, Enrico Cuccia. Così, alla fine, con rilevante beneficio dei risparmiatori italiani non meno che dell’etica pubblica, Sindona cadde e dovette fuggire dall’Italia. La Banca privata italiana, il suo principale strumento, fu commissariata e affidata all’avvocato Giorgio Ambrosoli.
Gli eventi che seguirono negli anni successivi furono chiarificatori quanto tragici. Ambrosoli fu assassinato. Per ragioni diverse Roberto Calvi fu a sua volta impiccato dalla mafia sotto il ponte dei Black Friars a Londra (entrambe le autorità inquirenti inglesi e italiane dichiararono che si trattava di un suicidio). Cuccia ricevette serissime minacce di morte. Mario Sarcinelli fu fatto arrestare nel 1979 da un magistrato romano della destra. Lo stesso governatore della Banca d’Italia, Paolo Baffi, persona come Sarcinelli di rigore estremo, fu incriminato da quel medesimo magistrato senza che alcuno nel governo si levasse a difenderlo, con l’eccezione del ministro del Bilancio Bruno Visentini. Circolò l’impressione che il presidente del Consiglio Andreotti non fosse estraneo all’iniziativa del magistrato romano. Quanto a Sindona, fu più tardi estradato dagli Stati Uniti dove era fuggito, processato in Italia, e condannato a una dura pene detentiva: e poco dopo assassinato in carcere con una dose mortale di stricnina, messa nel suo caffè non si è mai scoperto da chi. Quanto a monsignor Marcinkus fu alla fine cacciato dalle stesse autorità vaticane che lo avevano protetto, dopo che nel 1982 la sua fellonia finanziaria era stata dimostrata senza possibilità di dubbio dal ministro del Tesoro del governo Spadolini, Nino Andreatta. Il quale pagherà la sua battaglia, successivamente, con l’esclusione dal governo per quasi un decennio.
Sono cose che si sono dimenticate quando si è parlato con rimpianto della Prima Repubblica. Ma certo avvennero, e a battersi contro di esse, è bene ricordarlo, furono essenzialmente le forze laiche.
Una singolare eco della questione Sindona si ebbe un anno dopo al congresso repubblicano di Genova del 1975. La cosa crebbe pezzo dopo pezzo, come un puzzle, e al suo inizio vi fu il problema del tesseramento interno del Pri. Avviene spesso in tutti i partiti che in vista di assise nazionali il tesseramento sia più o meno lievemente “ritoccato”. In questa occasione, però, si era esagerato; e le discussioni in seno al comitato di segreteria del partito furono vivaci. Lo divennero ancor di più quando si trattò del tesseramento siciliano, perché alla sua irregolarità si aggiunsero interventi poco ortodossi del leader regionale del partito, Aristide Gunnella, deputato nazionale, da sempre molto vicino a La Malfa. Finì che di tali questioni alcuni dirigenti siciliani investirono il collegio dei probiviri nazionali. E questo, inopinatamente, non ascoltando alcun consiglio di prudenza, emanò una sentenza di espulsione di Gunnella proprio alla vigilia del congresso nazionale del partito.
Era stato convenuto che la notizia restasse riservata. Fu pubblicata invece con clamore dall’agenzia-stampa di Marco Pannella, che intendeva puntare strumentalmente sullo stretto rapporto di La Malfa con Gunnella. Nell’aula del congresso l’avventuroso leader radicale movimentò il dibattito. E vi fu una seduta straordinaria nella quale il presidente del partito, che era anche il vicepresidente del Consiglio dei ministri, si levò a parlare e chiese al congresso di annullare il deliberato del collegio probivirale. Motivò la richiesta con ragioni politiche e procedurali. Ma in realtà sapeva che la questione vera era un’altra: ed era che in Sicilia la massoneria deviata legata a Sindona aveva orchestrato una operazione a vasto raggio per colpirlo attraverso Gunnella. Era una operazione alla quale il deputato siciliano, per difendersi e difendere la posizione del leader del partito, aveva resistito con le buone e con le cattive. E la difesa di Gunnella di fronte al congresso nazionale fu da parte di La Malfa equilibrata quanto appassionata.
Seguì un dibattito non facile, nel quale il professore di diritto che aveva indirizzato la sentenza di espulsione, notoriamente massone, difese con veemenza l’operato suo e dei suoi colleghi. Gli rispose con grande efficacia Giovanni Ferrara.
Il voto fu naturalmente favorevole al leader del partito. Ma fuori del congresso Pannella, in collegamento con un delegato romano massone, continuò la sua campagna. A molti sfuggì allora che Pannella era il segretario di un partito radicale il cui tesoriere milanese era figlio di Michele Sindona.


Adolfo Battaglia, Né un soldo, né un voto. Memoria e riflessioni dell’Italia laica, il Mulino, Bologna, 2015.

[1] Si trova nello scritto di P. C. Marchetti, Diritto societario e disciplina della concorrenza, in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano, Roma, Donzelli, 1997.

[2] Era presieduta da Francesco De Martino e darà luogo a ben sei relazioni conclusive, una di maggioranza e le altre di minoranza, la più risoluta della quali è forse quella radicale firmata da Massimo Teodori.

[3] C. Stajano, Un eroe borghese, Torino, Einaudi, 1991.