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Discussione: Pillole di Dante

  1. #21
    direttamente dall'Inferno
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    Predefinito Re: Pillole di Dante

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  2. #22
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    Predefinito Re: Pillole di Dante

    Citazione Originariamente Scritto da Eric Draven Visualizza Messaggio
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    Più che altro serviva il telecomando Pillole di Dante
    Non ho cercato eventuali siti Internet.
    La morte significava ben poco per me. Era l'ultimo scherzo in una serie di pessimi scherzi. Charles Bukowski
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  3. #23
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    Predefinito Re: Pillole di Dante

    Dante, poeta permaloso



    Sandro Botticelli, Banchetto di nozze di Nastagio degli Onesti, 1483
    Madrid, Museo del Prado



    Si racconta che, dopo essere stato esiliato dalla sua città ed avere chiesto ospitalità a Lucca, un giorno Dante ricevette un invito alla corte di Roberto d'Angiò, figlio del re di Napoli Carlo II e diventato lui stesso sovrano nel 1309. A questa vicenda lo scrittore lucchese Giovanni Sercambi (1348 – 1424) dedicò una novella inserita poi nella sua raccolta.

    La novella racconta che, «essendo già la nomea sparta del senno del ditto Dante», il nuovo re desiderò conoscerlo e ospitarlo presso la sua corte «per vedere e sentire del suo senno e vertù». Scrisse quindi una lettera a Castruccio Castracani, signore di Lucca, presso il quale Dante si trovava insieme ad altri esuli fiorentini, per invitarlo a Napoli.

    Dante accettò l'invito e dopo un lungo cammino giunse a Napoli, dove raggiunse il palazzo reale giusto verso l'ora di pranzo. Venne quindi introdotto nella sala del banchetto, dove gli ospiti stavano già accomodandosi a tavola. Essendo vestito in modo dozzinale, sudato e coi vestiti stazzonati dopo il faticoso viaggio, gli venne assegnato un posto «in coda di taula», in fondo a uno degli ultimi tavoli. Era un posto di poca visibilità e di scarso prestigio dove anche il cibo era più modesto, perché non a tutti i tavoli si servivano gli stessi piatti: anche la qualità del cibo rappresentava visivamente le differenze di rango.

    Il sovrano, prima di prendere posto a tavola, chiese notizie dell'arrivo di Dante e gli confermarono che il poeta era arrivato, ma non si curò di farselo indicare.
    Il poeta — notoriamente irascibile e permaloso — non la prese bene e giudicò che il re aveva mancato ai suoi doveri, organizzando un'ospitalità così scadente e distratta. Tuttavia, aveva fame e decise di rimanere («Avendo Dante voluntà di mangiare, mangiò»); ma, appena finito il pranzo, si alzò e se ne andò senza salutare nessuno, ripartendo subito in direzione di Ancona per poi tornare in Toscana. Roberto d'Angiò, intanto, aveva indugiato a tavola chiacchierando con i commensali. Dopo pranzo si ricordò di avere un ospite importante e chiese dove fosse Dante per conoscerlo, ma gli fu risposto che il poeta era già partito in direzione di Ancona. Il re si rammaricò di non avergli fatto onore e immaginò — giustamente — che il poeta se ne fosse andato incollerito. Subito ordinò a un messaggero di rincorrerlo prima che arrivasse ad Ancona e di consegnargli una lettera di scuse, insieme ad un nuovo invito a pranzo. Il messaggero balzò in groppa al cavallo e rapidamente raggiunse il poeta, al quale consegnò la lettera del re. Dante la lesse e tornò sui suoi passi, recandosi di nuovo a Napoli alla corte di Roberto d'Angiò.

    Questa volta si vestì «d'una bellissima robba» e si presentò al cospetto del sovrano «con gran cerimonia». Prima di sedersi a tavola, il re si preoccupò di farlo sedere «in capo della prima mensa, che al lato alla sua era»: una collocazione di primissimo piano, nella geografia simbolica del banchetto. La tavola accanto a quella reale era la più vicina al centro del potere e chi vi sedeva occupava un posto d'onore riservato a pochi.

    Dante, attorniato da alti personaggi, non vedeva l'ora di cominciare a mangiare... e, finalmente, ecco arrivare le vivande e i vini. Ma, anziché mangiare e bere, «Dante, prendendo la carne, et al petto e su per li panni se la fregava; così il vino si fregava sopra i panni». I vicini di tavola cominciarono ad agitarsi: va bene che gli intellettuali sono strani, ma non fino al punto di strofinarsi la carne addosso e di versarsi «il vino e la broda sopra i panni»! Sempre più perplessi di fronte a questo agire strambo, i commensali cominciarono a fare commenti... prima mormorando, poi a voce sempre più alta. Ma Dante, che li sentiva benissimo, non fece una piega e continuò a imbrattarsi le vesti. Alla fine, fu il sovrano in persona a rivolgersi a lui: «Dante, che è quello che io v'ho veduto fare? Tenendovi tanto savio, come avete usato tanta bruttura?». Dante non aspettava altro. «Santa corona», rispose, «io cognosco che questo grande onore ch'è ora fatto, avete fatto a' panni; e pertanto io ho voluto che i panni godano le vivande apparecchiate». E per quelli che non avevano capito, spiegò: "Io sono lo stesso di sempre, con tutto il mio senno, qualunque esso sia. Ma l'altro giorno mi avete messo in fondo alla tavola perché ero malvestito; oggi, che sono ben vestito, mi avete messo a capotavola."

    Il re non si offese per il rimprovero, perché corrispondeva a verità ed era stato fatto con spirito. Così, comandò di portare una veste pulita e pregò Dante di rivestirsi. Dopo di che il poeta «mangiò avendo allegrezza ché avea dimostrato a' re la sua follia». Terminato il pranzo, il re si alzò da tavola e prese da parte Dante, intrattenendosi amabilmente con lui e «praticando della sua scienza». Lo trovò ancora più brillante e sapiente di quanto non avesse sentito dire e lo pregò di fermarsi a corte per qualche giorno, per il piacere di conversare con lui.

  4. #24
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    Predefinito Re: Pillole di Dante

    Che Dante fosse permaloso lo dimostra bene la popolazione dell'Inferno ma la novella del Sercambi è intestata a Dante con notevole impudenza: il poeta non è mai andato a Napoli e per di più aveva una pessima opinione di Roberto d'Angiò (v. "li ‘nganni / che ricever dovea la sua semenza", Par. IX,2-3) che riteneva un usurpatore; come spesso succede, è stato fatto protagonista solo per la sua fama di filosofo e letterato, per rendere la novella più interessante.
    La stessa trama, poi, è il riciclo di una storiella del ciclo persiano di Nasr ed Din (diventato Giufà in Sicilia) e una variante la troviamo riassunta dal papa Innocenzo III nel suo "De contempu mundi", nella quale il filosofo protagonista bacia la bella veste che lo ha fatto trattar bene a corte invece di darle da mangiare.
    "Oh vanità delle vanità" conclude il papa "Si onorano più i bei vestiti che le virtù, più la bellezza che l'onestà".
    Non è cambiato molto dal XII secolo di Innocenzo III, potrebbe averlo detto Bergoglio all'Angelus di domenica scorsa..

    DE CONTEMPTU MUNDI - CAPUT XXXIX: Quam plus defertur vestibus quam virtutibus.

    Cum quidam philosophus in habitu contemptibili principis aulam adisset, et diu pulsans non fuisset admissus, sed quoties tentasset ingredi,toties contigisset eum repelli, mutavit habitum, et assumpsit ornatum.
    Tunc ad primam vocem aditus patuit venienti; qui procedens ad principem, pallium quod gestabat, coepit venerabiliter osculari.
    Super quo princeps admirans, quare hoc ageret, exquisivit.
    Philosophus respondit: "Honorantem me honoro, quia quod virtus non potuit, vestis obtinuit."
    O vanitas vanitatum, plus honoris defertur vestibus, quam virtutibus: plus venustati, quam honestati.

  5. #25
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    Predefinito Re: Pillole di Dante

    Citazione Originariamente Scritto da trash Visualizza Messaggio
    Che Dante fosse permaloso lo dimostra bene la popolazione dell'Inferno ma la novella del Sercambi è intestata a Dante con notevole impudenza: il poeta non è mai andato a Napoli e per di più aveva una pessima opinione di Roberto d'Angiò (v. "li ‘nganni / che ricever dovea la sua semenza", Par. IX,2-3) che riteneva un usurpatore; come spesso succede, è stato fatto protagonista solo per la sua fama di filosofo e letterato, per rendere la novella più interessante.
    Riuscirò a prenderti in castagna almeno una volta, prima o poi...

  6. #26
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    Predefinito Re: Pillole di Dante

    Uomo barbuto...




    Poeta grande, grandissimo, ma con un fisico minuto e d'aspetto piuttosto bruttino. Così lo descrive Boccaccio nel "Trattatello in laude di Dante" (1362)...

    «Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura (solo 1.64 m, a quanto pare), e, poi che alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, e era il suo andare grave e mansueto, d'onestissimi panni sempre vestito in quell'abito che era alla sua maturità convenevole. Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso». Pur non avendolo mai conosciuto di persona, Giovanni Boccaccio riuscì a descrivere con buona approssimazione l'aspetto fisico del poeta interrogando numerose persone che l'avevano conosciuto e frequentato a Ravenna. Le affermazioni di Boccaccio, del resto, non furono smentite neppure dalle ricognizioni effettuate nel 1865 e nel 1921 sulle ossa di Dante. Ulteriori conferme sulla sostanziale attendibilità di questa descrizione vengono dal confronto con i due più antichi ritratti, entrambi postumi, del poeta: quello dipinto nel 1337 nella cappella di S. Maria Maddalena nel Palazzo del Bargello a Firenze (immagine sopra), attribuito alla bottega di Giotto, in cui viene confermata a grandi linee la fisionomia indicata da Boccaccio (naso pronunciato e quasi adunco, viso magro e labbro inferiore prominente). L'altro ritratto, abbastanza simile ma privo del lungo naso al quale siamo abituati, risale alla fine del XIV secolo ed è affrescato nel Palazzo dell'Arte dei Giudici e Notai, sempre a Firenze. In tempi recenti (2007) nuovi studi antropologici effettuati sui resti del poeta, hanno confermato che Dante - pur essendo di aspetto tutt'altro che bello - non aveva quel brutto naso aquilino tratteggiato dai pittori rinascimentali.

    Naso a parte, la vera sorpresa è però un'altra. Sebbene nei ritratti sia rappresentato tradizionalmente glabro, molti sostengono che negli anni della maturità il sommo poeta portasse la barba! La notizia è balenata nella mente di alcuni studiosi analizzando il canto XXXI del Purgatorio (vv. 67-75), dove - in tre terzine successive - la parola "barba" è ripetuta per ben tre volte:

    tal mi stav’io; ed ella disse: «Quando
    per udir se’ dolente, alza la barba,
    e prenderai più doglia riguardando».

    Con men di resistenza si dibarba
    robusto cerro, o vero al nostral vento
    o vero a quel de la terra di Iarba,

    ch’io non levai al suo comando il mento;
    e quando per la barba il viso chiese,
    ben conobbi il velen de l’argomento.


    Impossibile immaginare un Dante barbuto...

  7. #27
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    Predefinito Re: Pillole di Dante

    Citazione Originariamente Scritto da Blue Visualizza Messaggio
    Impossibile immaginare un Dante barbuto...
    Al massimo un po' barboso, nei saggi politici e linguistici.

  8. #28
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    Predefinito Re: Pillole di Dante

    Cesare, eroe della Commedia
    di Carlo Ossola Il Sole Domenica 17.1.16
    Nel poema la storia di Roma è concepita unitariamente: la fase repubblicana prepara l'impero, completando il disegno divino. Uno studio di Luciano Canfora sulla biblioteca latina del poeta
    «I’ vidi Eletra con molti compagni, / tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea, / Cesare armato con li occhi grifagni» (Inf., IV, 121-123): occhi grifagni poiché - come vuole il Buti e ricorda Luciano Canfora - sono «alla guatatura spaventevole ad altrui». Non tanto dunque occhi «rossi come fuoco» (secondo il Tesoro di Brunetto Latini), ma piuttosto di «aspectus terribilis» (Bambaglioli). E qui Canfora convoca un altro scenario, non quello del «nobile castello» dei «savi» della classicità, bensì quello manzoniano dei bravi che attendono Renzo sulla soglia dell’osteria: «Quando Renzo e i due compagni giunsero all’osteria, vi trovaron quel tale già piantato in sentinella, che ingombrava mezzo il vano della porta, appoggiata con la schiena a uno stipite, con le braccia incrociate sul petto; e guardava e riguardava, a destra e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifagni» (I promessi sposi, cap. VII). Il ricordo dantesco in Manzoni, ricondotto dallo sguardo del grande stratega al ceffo della plebaglia del malaffare, potrebbe ricalcare l’intento di piegare i potenti tutti - come il Napoleone del Cinque maggio – al «disonor del Golgota»; ma è da notare, come è stato proposto, che allorquando egli deve mettere in scena il fulmineo agire di quel grande («Dall’Alpi alle Piramidi…»), altro non possa fare che ricorrere (e questa volta su un registro ben alto) al Cesare di Dante: «Maria corse con fretta a la montagna; / e Cesare, per soggiogare Ilerda, / punse Marsilia e poi corse in Ispagna» (Purg., XVIII, 100-102).
    Ben più di Manzoni, è Dante qui a collocare il modello di Cesare accanto a quello di Maria che s’affretta presso Elisabetta: come se quella “ansia di compimento” fosse propria della salvezza temporale e di quella eterna, congiunte ab origine in uno stesso disegno provvidenziale, secondo il testo del Convivio: «E però che ne la sua venuta nel mondo, non solamente lo cielo, ma la terra convenia essere in ottima disposizione; e la ottima disposizione de la terra sia quando ella è monarchia, cioè tutta ad uno principe, come detto è di sopra; ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo e quella cittade che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma» (IV, V, 4).
    Il mito di Cesare, nella Commedia, è tutt’uno con l’unità armonica della venuta salvifica, che fu al tempo del Cristo e che ora non si può che compiangere: «Vieni a veder la tua Roma che piagne / vedova e sola, e dì e notte chiama: / “Cesare mio, perché non m’accompagne?”» (Purg., VI, 112-114). L’interrogazione finale ricapitola del resto la visione politica che Dante enuncia nitidamente poche terzine sopra: «Ahi gente che dovresti esser devota, / e lasciar seder Cesare in la sella, / se beni intendi ciò che Dio ti nota» (Purg., VI, 91-93). Qui Dante si riferisce certo a Matteo, 22, 21: «Reddite ergo quae sunt Caesaris, Caesari; et quae sunt Dei, Deo»; ma c’è di più: e cioè che la translatio fidei da Gerusalemme a Roma fu fatta per armonizzare e non per sovrapporre o perché la nuova Gerusalemme dovesse assorbire l’antica Roma. Ecco perché il modello e il mito di Cesare (eponimo ora di quello dell’Impero) attraversa tutta la Commedia e si suggella nei celebri versi del Paradiso: «Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle / redur lo mondo a suo modo sereno, / Cesare per voler di Roma il tolle» (Par., VI, 55-57). È l’inizio dell’epico prorompere della storia e delle vittorie di Cesare (Par., VI, 55-81), ricapitolazione mirabile di molte imprese e di una vita che ancora sarà modello al Napoleone del Manzoni: «Da indi scese folgorando a Iuba». Il Buti, nel suo commento, insiste giustamente su quel momento, su quel «redur lo mondo a suo modo sereno»: «ma notantemente dice tutto ’l Cielo: imperò che, a mutare lo reggimento del tutto, conveniano correre tutte le cagioni insieme; e dice: a suo modo sereno, perchè lo cielo è retto e governato da uno signore, e così volse lo cielo redur lo mondo che in tutto ’l mondo fusse uno monarca. Cesari».
    vedi:
    materialismo storico: Luciano Canfora: il Cesare di Dante

  9. #29
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    Predefinito Re: Pillole di Dante

    Vanni Fucci , grazie finalmente pagine di CULTURA ......
    _Non rinnegare e non restaurare__


    Difendi la nazione come nei tempi passati, in modo moderno:" fotti lo Stato antifascista! "(Giò)
    L'invidia ha due bocche; con una sputa miele , con l'altra sputa veleno e fiele

  10. #30
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    Predefinito Re: Pillole di Dante

    _Non rinnegare e non restaurare__


    Difendi la nazione come nei tempi passati, in modo moderno:" fotti lo Stato antifascista! "(Giò)
    L'invidia ha due bocche; con una sputa miele , con l'altra sputa veleno e fiele

 

 
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