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    Predefinito Mazzini cent'anni dopo (marzo 1972)



    In appendice al volume di Giovanni Spadolini su I repubblicani dopo l’unità, viene riprodotta la tavola rotonda su “Mazzini cent’anni dopo” promossa da Spadolini per il centenario della morte del profeta e che è stata pubblicata nel Corriere della Sera, diretto dallo stesso Spadolini, del 2 marzo 1972.

    Cent’anni fa, e precisamente il 10 marzo 1872, moriva Giuseppe Mazzini: “esule” in patria, nella solitudine complice dei lungarni di Pisa, ospite dei Nathan-Rosselli, con falso nome e sotto l’occhio distratto della polizia italiana. Erano stati, gli ultimi anni del profeta, amarissimi: la conquista di Roma attraverso l’iniziativa monarchica gli era sembrata una “profanazione” dell’ideale unitario e nazionale, la speranza di un moto repubblicano era stata delusa e smentita da Piacenza alla Sicilia, la Comune di Parigi lo aveva atterrito, il contrasto con Garibaldi aveva approfondito il solco dei nuclei di democrazia ortodossa dai gruppi internazionalisti o radicali.
    L’ideale mazziniano di un’Italia rigenerata per via di popolo si opporrà, per tutti i decenni successivi, alla realtà dei compromessi e degli adattamenti della Monarchia costituzionale: alimentando i settori più animosi della protesta repubblicana. Ed insieme l’eredità morale del maestro continuerà a nutrire una polemica che spesso coinciderà con un esame di coscienza. Sarà il nucleo più vivo del mazzinianesimo, al di là di tutte le retoriche. In questo spirito abbiamo promosso un dibattito, con storici, scrittori e uomini di cultura e d’azione, su quello che si può considerare vivo e morto dell’insegnamento mazziniano, un secolo dopo. Pur nella smentita a tante delle posizioni o delle pregiudiziali del grande genovese, sopravvive il lievito morale incomparabile che egli ha trasfuso nel Risorgimento. Torna in mente il giudizio di Francesco De Sanctis: egli fu il “Mosè dell’unità”, il profeta che intravide la terra promessa ma senza riuscire ad entrarvi.

    G. S.


    Ugo La Malfa


    Corriere. - Vuole parlarci della presenza di Mazzini nell’Italia di oggi?

    La Malfa
    . – Debbo subito confessare che se il contenuto etico dell’azione politica, quel senso del dovere e delle responsabilità che bisogna avere verso la comunità, si considera, come deve essere considerato, un elemento altamente qualificante della personalità mazziniana, bisogna purtroppo ammettere che Mazzini non è molto presente nell’Italia di oggi.
    Dal punto di vista più strettamente politico, la presenza di Mazzini non è stata in Italia, fino a qualche tempo fa, quella che doveva e poteva essere, per due motivi o contingenze facilmente identificabili: per quanto riguarda la sua grande azione nel Risorgimento, dalla necessità e convenienza che la corrente moderata e monarchica risorgimentale e post-risorgimentale aveva di sottovalutarne il significato e l’apporto; per quanto riguarda la altrettanto grande capacità di organizzare, intorno al suo pensiero e alle sue battaglie, forze popolari e sociali (non bisogna dimenticare che egli creò e guidò il primo grande movimento popolare di sinistra e organizzò nel 1871 il primo congresso delle “società operaie”), dall’irrompere prepotente del pensiero e dell’organizzazione marxisti.
    Oggi, tuttavia, la prima ragione di limitazione della presenza di Mazzini è completamente superata, mentre la seconda è in via di superamento. Dopo la revisione storica magistralmente condotta da Omodeo e Salvatorelli, l’opera risorgimentale di Mazzini, e quindi la sua presenza nell’Italia di oggi, appare in tutta la sua grandezza. In quanto alla potente irruzione marxista e poi leninista, nel campo proprio della sinistra popolare e rivoluzionaria, basta guardare alla revisione largamente in atto che si va operando sul pensiero marxista, alle esperienze non certo positive delle società socialiste dell’Oriente, in confronto al contenuto di libertà umana che ogni rivoluzione di tipo mazziniano dovrebbe portare con sé, per comprendere come la presenza di Mazzini si faccia sempre più alta e più forte. Del resto, questi sono i due temi sui quali è ingaggiata la battaglia delle forze culturali e della forza politica, che ne hanno compreso ed ereditato il pensiero.
    Segni evidenti della presenza del pensiero e della azione di Mazzini si possono trovare, peraltro, nel corso di tutta la lotta antifascista, nella resistenza, nella conseguente e connessa battaglia contro la monarchia, nella Costituzione repubblicana, quando si pensi all’esperienza mazziniana del 1849 a Roma, in tutta l’ampia area della scuola, dove il pensiero educativo di Mazzini viene oggi diffuso e potrà certamente influire sul costume delle nuove generazioni.
    La ricorrenza della morte sarà l’occasione solenne per constatare, in tutta la sua grandezza e vastità, tale presenza di Mazzini. Ed il momento più cospicuo, per celebrarla, sarà dato dal completamento dell’edizione nazionale dei suoi scritti per un complesso di 106 volumi (100 di scritti e di epistolario più 6 di protocollo della “Giovine Italia”) mentre il favore della sua opera più popolare Doveri dell’uomo è dimostrato dalle numerosissime edizioni in circolazione. Non a caso, perciò, il nuovo Presidente della Repubblica, nel messaggio inaugurale, ha ricordato Mazzini come ispiratore non solo passato, ma presente, della vita italiana.

    (...)
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    Predefinito Re: Mazzini cent'anni dopo (marzo 1972)

    Arturo C. Jemolo

    Corriere. – A tanti anni di distanza, come giudica la posizione di Mazzini ne confronti della Chiesa? Possiamo definirlo un riformatore in senso religioso?

    Jemolo. – Mazzini riformatore della Chiesa, proprio no; neanche riformatore radicale, se per Chiesa deve pur sempre intendersi se non una istituzione gerarchicizzata, una istituzione giuridica, quanto meno una associazione caratterizzata da un complesso di convincimenti comuni, diciamo di articoli di fede (se non vogliamo parlare di dogmi), di regole di azione.
    Oriani scrisse di Mazzini che impetuoso come Lutero, inflessibile come Calvino, difendeva ed epurava il cristianesimo; Buonaiuti contestò che Mazzini si riannodi al deismo illuminista; il suo Dio è suprema legge di amore, suprema manifestazione di bontà, la fede non è per lui un problema di speculazione razionale, bensì un atto di dedizione alla significazione etica dell’universo.
    Per parlare di religione di Mazzini occorre accedere al consueto equivoco tra religione e religiosità, chiamare religione ogni convincimento appassionatamente vissuto, ogni elevazione umana. Se si chiamano riformatori anche i teologi della “morte di Dio”, chi ritiene religione coltivare quanto c’è di più eletto nell’uomo, quanto lo distacca dall’animalità, allora anche Mazzini potrà essere considerato un riformatore; ma è un usare delle parole per annebbiare i concetti. Se riformatori religiosi sono Lutero e Calvino, o quanti hanno operato nella Chiesa restando nella ortodossia, purificando, ma non attaccando le fondamenta, cioè il Dio che atterra e suscita, la rivelazione, la vita ultraterrena, Mazzini non può dirsi un riformatore. Ma neppure un fondatore di nuova religione, se questa non dev’essere semplicemente il costante richiamo dell’uomo al culto dei valori morali, al senso di solidarietà, di amore del prossimo, del sentirsi tutti componenti di un’unica famiglia. Se anche talora Mazzini sembri concepire un Dio persona, è un Dio che non comunica con i singoli se non illuminando la loro coscienza morale. Mazzini aderisce ai Vangeli per quanto è la loro etica; l’idea dell’incarnazione gli resta estranea.


    Alberto M. Ghisalberti


    Corriere. – L’opinione pubblica non è ancora concorde sulla reale misura del contributo dato da Mazzini al Risorgimento italiano. Che cosa ne pensano gli storici?

    Ghisalberti. – Il contrasto d’opinioni sull’importanza del contributo di Mazzini al Risorgimento è antico. I primi dubbi e le prime defezioni risalgono all’indomani della spedizione di Savoia. E un “indomani” critico, o, addirittura, di aperto dissenso, seguirà sempre le principali manifestazioni della sua azione: così per il ’49 romano, che non si potrebbe comprendere senza Mazzini, come per il febbraio milanese del ’53. E ugualmente accadrà quando gli eventi parranno esclusivamente guidati da Cavour e dalla monarchia sabauda.
    Che cosa ha indotto parte dei seguaci a dubitare della validità del verbo e dell’efficacia dell’opera dell’apostolo dell’unità? Una limitazione che, tuttavia, è anche un elogio, è già nella definizione antica di Tommaseo, per il quale Mazzini era “nato più a ispirare che a cospirare”. I rivoluzionari, diremo così, tradizionali, non riuscivano a intendere, anche se formalmente parevano accettarle, le grandi formule mazziniane. Quando alla immediata vigilia dell’assalto di sorpresa di Oudinot alle mura romane, il 2 giugno 1849, l’onesto Francesco Borgatti supplica “in nome della Patria” Mattia Montecchi “di fare in modo che Mazzini discenda dalle sue idee celesti”, rivela uno stato d’animo che è di molti, di tutti coloro, specialmente, che non riescono a rendersi conto della necessità di non dissociare in Mazzini il pensiero religioso da quello politico. “La religione è il rispetto dell’umanità”: grande affermazione, ma come potevano comprenderla un Sirtori, che accuserà Mazzini di voler essere insieme “papa e re”, o un Orsini, che, alla vigilia del tragico attentato, lo chiamerà sdegnosamente “nuovo Maometto”?
    Molti saranno attratti dai successi di altre iniziative e di altri uomini, altri rimprovereranno a colui che pure era stato salutato Maestro una sua presunta, e non vera, insensibilità di fronte al problema sociale, ma né allora né oggi possiamo chiudere gli occhi di fronte alla efficacia di una predicazione che non ha scosso soltanto l’Italia, ma ha avuto echi molti al di là dei confini del nostro paese, dall’Argentina alla Russia, dalla Francia alla Polonia. All’indomani della morte di Mazzini il romeno Dimitri Bràtianu definiva efficacemente il valore dell’insegnamento e dell’azione del Genovese: “Mazzini non poteva fare quello che ha fatto Cavour, né quello che ha fatto Garibaldi. La sua missione è stata di plasmare lo spirito di Cavour, di Garibaldi, di un Manin, di suscitare un re patriota e un popolo degno della sua indipendenza e della sua tradizione”.
    Indispensabile l’opera di Cavour e della monarchia, a patto che non si dimentichi mai che la preparazione del terreno e degli spiriti è stata compiuta da Mazzini e dai suoi. L’immagine di un nobile mazziniano di recente scomparso, il Griffith, che vedeva in Mazzini il profeta di una nuova Europa, immagine ripresa dal nostro Omodeo, è a mio parere ancora valida: Mazzini e Cavour sono stati rispettivamente l’uno per l’altro incudine e martello.

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    Predefinito Re: Mazzini cent'anni dopo (marzo 1972)

    Franco Valsecchi

    Corriere. – L’opinione pubblica non è ancora concorde sulla reale misura del contributo dato da Mazzini al Risorgimento italiano. Che cosa ne pensano gli storici?

    Valsecchi. – A mio vedere, più che di una discordia di opinioni, si deve parlare di una divergenza di prospettive, nel valutare la portata del contributo di Mazzini al Risorgimento. Considerato da un punto di vista pratico, immediato, concreto, a peso e misura di dati statistici e di calcoli di attivo e passivo (per es., il numero di affiliati alla Giovine Italia, la diffusione degli scritti mazziniani, il successo o l’insuccesso delle sue imprese), il bilancio rimane in sospeso. Si pongono numerosi interrogativi, ai quali gli storici hanno cercato di rispondere, ma con esito, per lo più approssimativo e incerto. Sino a qual punto, sino a qual momento, col passare degli anni e il mutar degli eventi, le generazioni che fornirono i ranghi alla Giovine Italia rimasero fedeli al verbo del Maestro? Sino a qual punto, sino a qual momento gli scritti di Mazzini continuarono a far presa sulle minoranze attive che fecero il Risorgimento? Sino a qual punto, sino a qual momento, la popolarità e il prestigio di Mazzini ressero all’iniziale fallimento delle sue iniziative, al fallimento finale delle sue previsioni?
    Le riserve si estendono alla dottrina mazziniana: riserve sulla sua consistenza filosofica, ove la si misuri col metro della teoria; riserve sulla sua efficacia, ove la si misuri col metro della pratica: precorre, con geniali intuizioni, la realtà avvenire, ma si mantiene nel limbo delle astrazioni, per quanto riguarda la realtà presente, la realtà del Risorgimento.
    Il significato, il valore del pensiero e dell’azione mazziniana non è nella loro maggiore o minore coerenza razionale o nella loro maggiore o minore efficienza strumentale: è nella “carica” interiore, nell’impegno morale che li ispira, nell’impulso sentimentale che li anima, nello spirito religioso che li pervade. Per adoperare un’espressione che l’uso e l’abuso della retorica hanno logorato ma che rimane pur sempre la più aderente al carattere dell’uomo e dell’opera sua, la dottrina di Mazzini è una professione di fede, la sua predicazione un apostolato. È qui, a mio vedere, sul terreno morale, non sul terreno politico, che va cercato il reale contributo di Mazzini al Risorgimento. Le grandi idee animatrici del Risorgimento, la libertà e l’indipendenza, acquistano in lui la intensità di una fede; la causa risorgimentale si accende di uno spirito messianico, che esercita una profonda suggestione sull’animo degli italiani, che agisce sulla loro coscienza come un possente stimolo, come un fecondo fermento. Una larga parte della futura classe dirigente dell’Italia è cresciuta alla sua scuola, ha preso le mosse da lui, ha combattuto in suo nome le sue prime battaglie e ha conservato la sua impronta, anche se si è allontanata dal suo verbo.
    Un contributo, il suo, che non si può valutare in termini quantitativi, che sfugge ad ogni calcolo effettivo, ma che non è per questo meno consistente e reale.


    Denis Mack Smith


    Corriere. – Come vede i rapporti fra Mazzini e l’Inghilterra, e in quale misura le sembra che si siano realizzati i suoi ideali?

    Mack Smith. – Poiché Mazzini è stato più un uomo di pensiero che d’azione, oggi è estremamente difficile valutare e definire con esattezza la sua influenza politica e storica. Ancora oggi è impossibile sapere fino a che punto le sue idee sono penetrate, non diciamo nel resto dell’Europa ma persino in molte regioni d’Italia. In Inghilterra, dove egli trascorse buona parte della sua vita, non è invece arduo seguire, anche a distanza di tanto tempo, le sue orme.
    A prima vista può sembrare strano che l’Inghilterra, un Paese così poco disposto all’idea repubblicana e così lontano dallo spirito rivoluzionario, lo abbia accolto con tanto calore. La verità è che l’Inghilterra in quei tempi era un Paese che offriva liberalmente la sua ospitalità ai molti profughi, spinti all’esilio da persecuzioni politiche, e la loro presenza nelle isole britanniche costituiva un importante e insostituibile fattore di educazione civile e politica. Fra gli amici e ammiratori di Mazzini ci furono le personalità più illustri dell’Inghilterra di quel tempo, compresi Carlyle, Dickens, Tennyson, Wordsworth, Swinburne, Gladstone, Meredith, George Eliot e Robert Browning.
    Tra i personaggi più in vista del periodo vittoriano Arnold Toynbee stimò e venerò Mazzini come uno dei più grandi maestri dell’epoca, e Lord Morley lo ricordava come l’uomo moralmente più degno di considerazione che egli avesse mai incontrato. L’ammirazione a un certo punto diventò reciproca.
    “L’Italia è la mia patria – scriveva Mazzini – ma l’Inghilterra è la mia casa”. È dalla sua profonda amicizia con alcuni dei suoi fedeli discepoli inglesi che ebbe origine l’epistolario Mazzini’s Letters to an English Family (Lettere di Mazzini a una famiglia inglese), tradotte in italiano nel 1935, e che a mio giudizio è da considerare uno dei più elevati prodotti letterari di tutto il Risorgimento.
    Con tutto ciò, si può parlare di una effettiva influenza di Mazzini sul mondo inglese? Molti, e sarebbero troppi per poter essere qui menzionati, ritengono di sì. Mazzini stesso fu certamente influenzato dal modo di pensare e dall’ambiente trovato a Londra, ma per contro, essendo un predicatore e un profeta nato, egli non si stancò mai di spiegare e di far conoscere le proprie idee a tutti coloro che erano disposti ad ascoltarlo. Delle biografie di Mazzini, le migliori sono quelle scritte in inglese da Bolton King, Jessie White e Gwilym Griffith. Esse testimoniano l’entusiasmo che Mazzini fu in grado di suscitare e che continuò sempre a generare in mezzo agli inglesi. Griffith, che prese Mazzini come proprio modello per tutta la sua vita, non era né uno studioso né uno scrittore di professione, ma un pastore protestante del Galles, della setta dei congregazionisti. Il suo libro fu tradotto in italiano nel 1935 e, secondo la professoressa Emilia Morelli, costituisce “il tentativo finora meglio riuscito di interpretare storicamente e umanamente insieme la figura complessa e difficile di Mazzini”. Molti lettori italiani apprenderanno certamente con rammarico che il biografo Gwilym Griffith è morto proprio il primo del mese di gennaio di quest’anno in cui ricorre il centenario di Mazzini.
    È da ricordare ora che quando Cavour temeva Mazzini come il peggiore nemico dell’Italia, gli inglesi non vedevano in lui pericolo alcuno. Per gli inglesi, e differenza di quella che fu l’opinione prevalente dell’ “establishment” politico di Torino e di Roma, Mazzini era press’a poco un “moderato”. Ai loro occhi egli era soltanto un uomo non disposto ad abbandonare i propri principii, un uomo di elevata statura morale, che aveva un profondo sentimento religioso, e in ogni caso non soltanto un patriota ma anche un fervente europeo e un combattente per la giustizia e per la libertà.
    Forse si potrebbe andare avanti e affermare che Mazzini conosceva meglio l’Inghilterra dell’Italia. Ma questa interessante ipotesi ci porterebbe troppo lontano dall’argomento. Ciò che è innegabile è che Mazzini fece uso a Londra con molta efficacia della sua abilità di giornalista per suscitare e diffondere in Inghilterra l’ammirazione per la nuova Italia che egli stava creando, e nello stesso tempo per portare la sua patria adottiva, la Gran Bretagna, il più vicino possibile alla nuova Europa, che egli sognava di realizzare. È un fatto storico che egli è riuscito in entrambi i suoi obiettivi: impresa in cui un semplice patriota e un puro uomo politico sarebbero invece falliti.

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    Predefinito Re: Mazzini cent'anni dopo (marzo 1972)

    Alessandro Galante Garrone

    Corriere. – Quali sono i connotati morali e politici che fanno la grandezza di Mazzini?

    Galante Garrone
    . – Non mi pare una domanda a cui si possa agevolmente rispondere in sede storica: perché stacca l’uomo dal suo tempo, e, racchiusa com’è nella considerazione esclusiva del carattere, della figura morale del personaggio, rischia di perpetuare la trasfigurazione mitica, apologetica, e di sviare da una meditata valutazione di ciò che fa, in concreto, la sua opera veramente creativa. È forse più facile ripensare alla risposta che istintivamente ne diedero i contemporanei, sorpresi e soggiogati dall’apparire di un uomo così diverso dal consueto, e dunque anche così sconvolgente e sconcertante. Mi limito a citare alcuni esempi, tra i mille che si potrebbero addurre.
    Nei primissimi anni della Giovine Italia, Gustavo Modena, che gli è al fianco, in certi momenti lo considera quasi un allucinato, un ottimista delirante, che confonde realtà e sogni; ma ne è affascinato, e gli resterà sempre fedele, e fino all’ultimo esalterà il suo “entusiasmo santo”. Se Cattaneo è la “verità ragionata, matematica”, Mazzini è la “poesia della verità”. Nessun disinganno varrà a dissipare questo che, agli occhi dei seguaci, è il fascino segreto di Mazzini.
    Oppure si pensi agli inglesi delle più diverse correnti, che prima del ’48 scoprirono in lui un tipo nuovo di italiano, che non avevano mai pensato potesse esistere; si pensi a un passo famoso del diario di Carlyle (che pure, non meno della moglie Jane, ne diede a volte giudizi fortemente critici, addirittura sarcastici), sulla dirittura morale e la fede politica di quell’homo novus, sulla sua parola d’acciaio, sul suo pensiero “puro e limpido come acqua di fonte”: nel mondo britannico, un’apparizione stupefacente, che mandava in pezzi la tradizionale visione dell’italiano furbo e accomodante e povero di coraggio morale.
    O si consideri infine il caso del milanese Vincenzo Pezza, uno dei tanti giovani che, intorno al 1871, si staccano da Mazzini per passare all’Internazionale. Con tristezza egli confessa: “Non siamo noi che lo abbandoniamo; è lui che ci condanna”. Ma soggiunge: “Io sono il primo a riconoscere che se la repubblica si farà in Italia, come spero, il merito sarà suo; la generazione nostra lo benedirà come suo salvatore, perché l’idea fu predicata da lui, e dalla sua parola ispirata abbiamo succhiato il sangue della libertà”.
    Così, per tutto un quarantennio, dal 1831 alla morte, la grandezza di Mazzini non è tanto nei suoi “connotati” morali o intellettuali o politici, nelle sue idee (per lo più di scarsa originalità), nei suoi accorgimenti politici (che pur furono più efficaci di quanto comunemente non si creda), quanto nel suo fuoco di apostolo, che contagiava e spronava all’azione, nella sua caparbia volontà di rottura con l’ambiente circostante (fossero la vecchia carboneria, o le correnti democratiche francesi a cui strappare l’iniziativa, o il mondo operaio nel quale egli infuse una nuova linfa), nella sua capacità di ossessionare governi diplomazie, di creare movimenti e partiti.


    Leo Valiani


    Corriere. – Qual è stata l’influenza di Mazzini sulle correnti democratiche del nostro secolo?

    Valiani
    . – Le elezioni del 1900 videro l’avanzata di tutti i partiti di sinistra e, fra di essi, del partito repubblicano. Non sembrava però che ciò dovesse ridare particolare attualità al pensiero politico di Mazzini. Da tempo egli era bensì esaltato, ma sullo stesso piano degli altri artefici del Risorgimento, a cominciare da quelli che avevano rappresentato posizioni ideali e politiche opposte alle sue. I radicali e una parte dei socialisti accantonavano la polemica antimonarchica nella quale Mazzini specialmente negli ultimi anni della sua vita, aveva condensato il proprio lascito storico. Fra i repubblicani medesimi guadagnava terreno il federalismo di Carlo Cattaneo, nel mentre il loro problema immediato era quello delle alleanze di sinistra, il che non escludeva aspri contrasti, ma in definitiva pareva puntare verso l’azione comune con una frazione (di volta in volta la frazione laicista oppure la frazione rivoluzionaria) del movimento socialista di cui Mazzini era stato aperto avversario.
    Il primo studio organico che si abbia del pensiero di Mazzini lo troviamo nel libro che Salvemini pubblicò nel 1905. Ivi la grandezza dell’apostolo è individuata da un lato nella sua tenace, indomita lotta per l’unità d’Italia, da raggiungere con l’iniziativa dello stesso popolo italiano, dall’altro nella rivendicazione dell’universalità del dovere.
    La guerra del 1914-1918 rimise in luce un aspetto politico della predicazione mazziniana. Già l’irredentismo del partito repubblicano e di Cesare Battisti poteva vantare in Mazzini il proprio precursore. La novità fu l’alleanza delle nazionalità, propugnata, sulle orme di Mazzini, da Salvemini e da Leonida Bissolati. Essa mirava al conseguimento della vittoria delle democrazie e all’instaurazione di una libera cooperazione europea, attraverso l’alleanza del patriottismo democratico italiano con le nazionalità ribelli dell’impero absburgico e segnatamente attraverso la riconciliazione fra italiani e jugoslavi. Non è un caso che i suoi fautori, così Salvemini stesso, Luigi Albertini, Giovanni Amendola, Carlo Sforza, Eugenio Chiesa, Guglielmo Ferrero, si trovassero poi in prima linea nell’opposizione democratica o liberale antifascista, dandole un’impronta etica quasi mazziniana, facendone, con l’assenso di una parte dei socialisti e dei popolari, una questione morale. Idealmente, l’espressione più elevata dell’opposizione morale fu la religione della libertà, formulata da Benedetto Croce. Ritracciandone la genesi storica, questi indicava in Mazzini colui che dell’anelito dei popoli alla libertà era stato il maggior maestro di vita.
    Anche se Croce personalmente non la percorse, la via era aperta alla rivalutazione storico-politica del lascito repubblicano di Mazzini. La compirono, gradatamente, Adolfo Omodeo e Luigi Salvatorelli. Pur rifiutando ogni processo al Risorgimento, essi fecero capire che lo spirito risorgimentale non era indissolubilmente legato alla monarchia e che l’alternativa mazziniana, necessariamente sconfitta nel 1861, poteva ripresentarsi ai nostri giorni, dal momento che la dinastia, come Mazzini aveva previsto, non s’era serbata fedele ai principii di libertà che aveva giurato di rispettare.
    Sul piano dell’azione cospirativa, quest’impostazione d’un nuovo repubblicanesimo, che si richiamava esplicitamente al tenace volontarismo rivoluzionario e all’etica del dovere e del sacrificio di Mazzini, era già stata anticipata da Carlo Rosselli. Se suo fratello, Nello Rosselli, riscoprì il decisivo contributo di Mazzini alla prima diffusione delle organizzazioni operaie in Italia, Carlo Rosselli creò l’organizzazione di combattimento antifascista “Giustizia e Libertà”, con la parola d’ordine mazziniana dell’ “insorgere per risorgere”. Dalla fusione di “Giustizia e Libertà” coi vecchi e nuovi gruppi repubblicani, nacque il partito d’azione della Resistenza, il partito che, seppure con un programma sociale del tutto diverso, prendeva nome ed ispirazione morale da quello di Mazzini. Negli uomini che lo rappresentarono nella lotta partigiana rivisse il vaticinio mazziniano della guerra per bande e dell’insurrezione popolare.

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    Predefinito Re: Mazzini cent'anni dopo (marzo 1972)

    Indro Montanelli

    Corriere. – Perché secondo lei soltanto una parte degli italiani pensa con simpatia alla figura di Mazzini?

    Montanelli. – Siamo più esatti: a pensare con simpatia a Mazzini non è una parte, ma un’infima minoranza d’italiani. Ce n’è un’altra, un po’ meno infima, che pensa a lui con un rispetto privo di simpatia. Eppoi c’è una maggioranza che ci pensa con più o meno scoperta antipatia, anzi preferisce non pensarci. E il motivo è abbastanza ovvio.
    Mazzini non era un agitatore politico. Lo diventò per necessità, cioè perché la situazione italiana di quel momento gli imponeva di diventarlo. Ma quell’attività non gli era congeniale, e lo dimostrano gli errori che vi commise: abbastanza numerosi e marchiani, anche a detrarne quelli che gli vennero ingiustamente attribuiti. Nell’azione era molto meno risoluto che nella predicazione, aveva orrore e terrore della folla, non amava il potere, e quando a Roma gli toccò esercitarlo, non vi trovò alcun piacere, e lo dimostrò.
    La sua stoffa era quella del riformatore religioso, quale sarebbe certamente diventato se il paese e il momento storico gliel’avessero consentito. Mazzini fu l’unico campione del Risorgimento che del Risorgimento vide il problema fondamentale: restituire agli italiani una coscienza civile, o per meglio dire dargliela perché non l’hanno mai avuta. Questo lo videro anche altri, come per es. i suoi amici-nemici Ferrari e Cattaneo. Ma qui si fermavano. Mazzini invece andava più in là. Egli comprendeva (e di prove nei suoi scritti potremmo pescarne a josa) che una coscienza civile non è separabile da quella religiosa, e che quindi a questa bisognava rifarsi. Lo dimostra non soltanto il suo modo di pensare, ma anche il suo modo di vivere e di essere, monastico e ascetico. Il suo laicismo non ebbe mai nulla a che fare con l’agnosticismo. Mazzini fu un prete a rovescio e il suo stato ideale, una chiesa.
    Ma era proprio questo che condannava all’impopolarità del suo messaggio. Di italiani disposti a sfidare le galere, le forche austriache e borboniche, qualcuno ne trovò. Ma non ne trovò nessuno disposto a rimettere in discussione il problema di una coscienza che la Chiesa controriformista aveva confiscato trecento anni prima. Questa coscienza gli italiani son talmente abituati ad appaltarla al prete e ad agire come se essa non esistesse, che il ricordagliene l’esistenza li lascia increduli e infastiditi.
    Ora, Mazzini proprio questo faceva. Egli diceva ai suoi compatrioti: “Badate che se voi non riscattate da questa confisca la vostra coscienza religiosa restituendole le parole e accettandone i rigori, non avrete mai nemmeno una coscienza civile. E senza un coscienza civile, avrete un bel cacciare gli austriaci: un popolo, una comunità nazionale, non li diventerete mai”. È un discorso a cui gli italiani erano e sono rimasti sordi. Noi il caso di coscienza coi suoi tormenti non lo vogliamo: la responsabilità delle scelte preferiamo affidarla a un potere esterno, sia in campo religioso sia civile. Un Mazzini che ci viene a predicare il contrario è un guastafeste, un disturbatore della pubblica quiete, quali sono sempre considerati in questo paese tutti coloro che ripropongono delle istanze morali. A Mazzini fecero la fama di “menagramo”. Era il meno che gli potesse capitare.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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