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    Predefinito Il Psi o dell’irrilevanza suicida






    Da Ernesto Galli della Loggia, “Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica”, Il Mulino, Bologna 2016, pp. 183-203.

    1. A mandare all’aria l’universo profondamente instabile ma in un certo senso sempre eguale a se stesso che era da molti anni la scena politica italiana, e al suo interno il mondo della sinistra, venne Bettino Craxi. Venne l’uomo, cioè, la cui azione è stata la prima in ordine di tempo a produrre l’atmosfera agitata, carica di veleni e di ostilità, che dalla fine degli anni Settanta in avanti ha sempre più caratterizzato la discussione e la vita pubblica nel nostro Paese. Un’ostilità divenuta presto senza quartiere perché in essa confluirono e si confusero, rafforzandosi e inasprendosi a vicenda, due fattori: lo scontro più propriamente politico-partitico e il conflitto ideologico-culturale. Il tutto, come se non bastasse, all’insegna di una rinnovata “questione morale” e addirittura di una latente “questione antropologica”. Alla stagione del 1968 e dintorni, caratterizzata da vasti, talvolta feroci, scontri sociali e dalle visioni palingenetiche, successe ora quella dei veleni, delle aggressioni tra un partito e l’altro, delle polemiche spietate tra i leader. Mentre la società, da protagonista tanto spesso abituata a muoversi ai limiti della legge che era poco prima, ora venne sempre più atteggiandosi a giudice inflessibile di legalità.
    Nel panorama della sinistra italiana Craxi produsse qualcosa di assolutamente nuovo. In tutto il periodo precedente, infatti, per quanto possa oggi apparire singolare, la competizione politica all’interno di quel campo si era sempre mantenuta entro un quadro che potremmo definire di “buone maniere”. Almeno sul piano esteriore. In realtà un certo livello di “buone maniere”, al di là delle apparenze, si era generalmente mantenuto dal 1945 in poi nell’ambito di tutto lo schieramento antifascista. Forse per effetto della comune battaglia combattuta a suo tempo, o forse anche – mi azzardo a dire – per una certa duratura consapevolezza, o se si preferisce per il timoroso sentore da parte dello schieramento di cui sopra, di non rappresentare realmente l’animo profondo del Paese. E che quindi ciò rendesse opportuno non rompere mai del tutto legami antichi che avrebbero sempre potuto rivelarsi nuovamente utili. Allo stesso modo, mi viene da osservare, per cui i due principali attori di quello schieramento antifascista – la Dc e il Pci -, finché sono esistiti, non hanno mai pensato di poter sciogliere il vincolo che li teneva legati ai loro due rispettivi grandi protettori stranieri ai quali in qualche modo sentivano di dovere, se non altro storicamente, il loro ruolo nella Penisola. La storia politica della democrazia italiana, non bisogna mai dimenticarlo, è stata nella sostanza una storia di minoranze. E dunque, per molti aspetti, una storia “contro” il Paese più che un’espressione originariamente maggioritaria di esso.
    Le “buone maniere”, insomma, erano state sempre osservate da ambo le parti anche nei rapporti tra la sinistra e il mondo cattolico, Democrazia cristiana compresa. Pur nello scontro politico talora asperrimo, e fatte salve alcune inevitabili punte di volgarità polemica e di anticlericalismo, cattolici e comunisti si erano costantemente rispettati. Di modo che l’ostilità della sinistra verso la Democrazia cristiana si era quasi sempre mantenuta sul terreno della politica. Non solo a causa del tacito interdetto a discutere di questioni attinenti la sfera religiosa, ma anche per l’assai scarsa concorrenza che la cultura cattolica, storicamente assai debole nel Paese, poteva fare a quella laica. In sostanza non c’era mai stato alcuno scontro virulento che riguardasse idee, valori, principi “non negoziabili”, come si direbbe oggi. Tutto era stato sempre e solo politica. Neppure il contrasto sul divorzio o sull’aborto valse a cambiare le cose.
    Tradizionalmente pure quella parte quantitativamente esigua ma socialmente e intellettualmente assai prestigiosa rappresentata dal Partito repubblicano, con le sue molte confluenze dell’antico azionismo, aveva sempre curato di mantenere verso i comunisti un contrasto sì, ma dai toni “civili”, “alti” e “colti”. Sempre con la speranza di poterli prima o poi utilizzare per tenere buona la variopinta scolaresca nazionale oggetto della vasta impresa pedagogica di cui ad avviso di azionisti e repubblicani abbisognava l’Italia, e che naturalmente avrebbe visto loro nella parte dei maestri in cattedra.
    Forse la sola vera eccezione alle “buona maniere” era stata a sinistra, negli anni Cinquanta, la frequente e abbastanza violenta polemica comunista – ribattuta peraltro colpo su colpo – contro l’ambiente intellettuale del “Mondo” e i rappresentanti della sua cultura liberal-democratica. Polemica nella quale non erano mancati – si pensi a certi corsivi di Roderigo di Castiglia, alias Palmiro Togliatti – anche toni oltraggiosi e pesantemente personali. Alla fine, però, in un modo o nell’altro era sempre intervenuta la convenienza di tutti a non scavare fossati incolmabili.
    Con Craxi, invece, fin dall’inizio fu tutto diverso. Egli diventò segretario subito dopo le elezioni del 1976, quando si erano appena consumate la grande avanzata del Pci e la débâcle socialista. Ciò nonostante nel Paese stava già maturando un clima nuovo. Già cominciava a insinuarsi, infatti, il sospetto che la tanto celebrata tradizione del comunismo italiano fosse destinata in realtà a sfociare in un vero e proprio nulla di fatto politico. Quanto più nell’immediatezza della vittoria tutti ne avevano sanzionato l’ormai definitivo successo storico-epocale[1], tanto più ora, dopo appena poche settimane, ne appariva deludente il frutto e forse addirittura dubbio il successo stesso[2]. Il misero esordio del primo governo di “solidarietà nazionale” stava avendo l’effetto di una rivelazione che gli esiti successivi, lungi dallo smentire, avrebbero semmai confermato. Insomma, giunta a un passo dal “grande successo finale”, la tradizione comunista, perennemente in bilico tra radicalismo teorico[3] e “opportunismo” pratico, immobile da decenni su questo crinale, cominciava visibilmente a perdere forza d’attrazione. Cominciava ad apparire agli occhi di un crescente numero di persone ciò che per noi oggi è evidente: l’espressione di una profonda anomalia italiana. E tutto ciò non poteva non imporre prima o poi a tutta la sinistra un redde rationem. Implicitamente, infatti, quell’anomalia non coronata dal successo rilanciava nei fatti la prospettiva socialdemocratica rimasta fino allora sempre sconfitta[4].
    Nelle crisi politiche è sempre un uomo che fa la differenza. Craxi, che alla prospettiva socialdemocratica aveva sempre guardato con genuina convinzione, capì che era giunta l’ora: anche la sua ora. E audacemente – mi pare difficile negare questa qualifica a un’impresa di simile portata e dall’esito allora così incerto – diede inizio alla rottura definitiva dell’unità culturale e più ancora antropologica che aveva sempre caratterizzato nel suo fondo la sinistra italiana e insieme, in un certo senso, anche la prima Repubblica. Fu in questo modo che avviò uno scontro di inedita virulenza sulla scena politica, e una sorta di vera e propria guerra civile pure tra gli intellettuali italiani. A proposito dei quali il fatto di “conoscersi tutti”, di sapere ognuno vita, morte e miracoli d’ogni altro, lungi dall’abbassare il livello dello scontro, viceversa era destinato ad accrescerlo, secondo la tipica modalità delle vere guerre civili.

    (...)



    [1] Un solo esempio tra i mille che potrebbero farsi: quello abbastanza noto di Alberto Asor Rosa, il quale aveva appena assicurato che il Pci era “l’erede più autentico del riformismo secondinternazionalista di Turati e di Prampolini”, e però al tempo stesso anche “l’erede più autentico della tradizione leninista” (cfr. “l’Unità”, 25 giugno 1976). Parole delle quali colpisce non tanto la dubbia fondatezza dell’assunto, quanto il compiacimento che le ispira, del tutto cieco davanti al paralizzante pasticcio che verosimilmente sarebbe scaturito dalla convivenza di due prospettive così diverse. Va ricordato che poco tempo prima Asor Rosa aveva più precisamente affermato (cfr. La cultura, in Storia d’Italia. IV: Dall’Unità a oggi, Torino, Einaudi, 1975, t. 2, p. 1102) che il Partito comunista non solo era “il più legittimo erede del riformismo”, ma altresì il suo “superatore”.

    [2] Significativo il titolo che il 5 agosto 1976, “la Repubblica” dà all’editoriale di Eugenio Scalfari che commenta immediatamente dopo le elezioni politiche la formazione del governo monocolore Andreotti che si regge sull’astensione del Pci, il quale così abbandonava per la prima volta l’area dell’opposizione: Un voto gratuito per un governo incolore; cit. in Guido Crainz, Il Paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003, p. 544 n. Non era un inizio promettente.

    [3] Per avere un’idea di tale radicalismo nonché della sua diffusione, si pensi che ancora nel 1970, per ricordare il centesimo anniversario della nascita di Lenin, il Pci organizzò al Teatro Eliseo di Roma, con adeguata scenografia, una solenne seduta pubblica congiunta del comitato centrale e della commissione centrale di controllo. In essa Terracini definì Lenin il “maestro” e il “capo del grande movimento progressivo e rinnovatore cui s’intitola quest’epoca”; mentre Giorgio Napolitano, oratore ufficiale della cerimonia, non esitò a illustrarne la figura – probabilmente nutrendo in cuor suo più di un dubbio – come “un luminoso punto di riferimento” per le giovani generazioni chiamate a schierarsi “contro il capitalismo”. La cerimonia di Roma fu il clou di una serie imponente di manifestazioni e conferenze celebrative svoltesi per mesi e mesi nelle sezioni, nei cinema e nei teatri di tutta Italia; tutte con il medesimo titolo: Con le idee di Lenin per il socialismo in Italia e nel mondo. Dal 18 al 25 aprile si svolse addirittura una “settimana leniniana”. In totale tra il 7 novembre 1969 e il 7 novembre 1970 si ebbero nella Penisola 2 mila cicli di conferenze su Lenin e qualcosa come 18 mila manifestazioni in suo onore. Cfr. l’utilissimo volume di Andrea Possieri, Il peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pci al Pds (1970-1991), Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 67-71 e 73-74.

    [4] Prospettiva socialdemocratica rispetto alla quale il Pci di Berlinguer, checché se ne dica oggi, si ostinò sempre, fino alla fine, a volersi differenziare e anzi contrapporre. Vale la pena di riportare in proposito un episodio illuminante ricordato da Umberto Ranieri in Napolitano, Berlinguer e la luna, Venezia, Marsilio, 2014, pp. 41-42. Intervistato a Mixer da Giovanni Minoli nel 1984, alla domanda su chi fosse la personalità internazionale cui andava la sua preferenza, Berlinguer rispose Jànos Kàdàr (nel 1984!): mentre in quegli anni, come ricorda Ranieri, “erano protagonisti sulla scena europea personaggi come Willy Brandt e Helmut Schmidt, François Mitterrand e Olof Palme”.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #2
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    Predefinito Re: Il Psi o dell’irrilevanza suicida

    2. Per far scoppiare guerre del genere, però, non sono sufficienti dissensi ideologici o discussioni colte: serve qualcuno che imbracci il fucile e cominci a sparare. Craxi fece per l’appunto questo: sparò con freddezza mirando al Pci. Ma se il rimbombo fu assordante è perché al suo sparo ne fecero eco mille altri che resero evidente a tutti che c’erano già da tempo schiere di tiratori che si allenavano, così come già da tempo era stato allestito un apposito poligono: le pagine di una rivista intitolata “Mondoperaio”. Era ormai qualche anno che su quelle pagine, approfittando del disordine creativo e della mancanza di qualunque vera disciplina che da sempre caratterizzavano il Partito socialista, un gruppo di intellettuali aveva maturato una più o meno esplicita apostasia rispetto alle proprie presunte radici marxiste. Era un’apostasia, intendiamoci, ancora debitrice in larga misura a una visione più utopica che realisticamente riformatrice. Nel “progetto socialista” che questi intellettuali lanciarono agli inizi del 1978 ancora si parlava per esempio di “autogestione”, di “democrazia diretta”, di referendum popolari da introdurre “a tutti i livelli”. Almeno altrettanto forte, però, vi risuonava la polemica contro il “partito leninista” o l’enfasi sulla dimensione del conflitto come essenza di ogni regime democratico. Essenziali comunque erano la volontà di dare vita finalmente a una “sinistra di governo” pienamente convertita a un pluralismo di tipo occidentale, e la speranza di arrivare prima o poi a convincere i comunisti ad aderirvi[1].
    Ciò che però si stava rivelando una speranza vana. Tuttavia, privi com’erano di qualunque pugnace sponda politica dentro il Psi che non fosse quella decorosa ma alquanto evanescente di Antonio Giolitti, ed essendo tutto sommato politicamente innocui, agli intellettuali di “Mondoperaio” erano stati fino allora risparmiati l’accusa di “tradimento” e il relativo trattamento che essa comportava. Anzi il Pci era sempre largo di apprezzamenti per il loro acume e i loro studi; ciò che scrivevano era sempre letto con interesse, essi erano invitati a dibattiti e convegni. Ma poi tutto finiva lì.
    Per via degli interessi di storia economica che nutrivano quei miei primi anni di vita universitaria conoscevo da tempo uno di questi intellettuali “giolittiani”, Luciano Cafagna. Di loro Luciano era certamente quello dotato dell’ingegno più irrequieto e più libero. Curioso di tutto, aveva letto e leggeva di tutto (non da ultimo romanzi e poesia). E sapeva di tutto. La realtà presente e quella passata, anche la più remota, non finivano mai d’interessarlo. Era insieme fermissimo sui principi quanto pronto anche a capire le ragioni di cose o persone contrarissime a quei principi stessi. Napoletano d’origine, era un conversatore appassionato, pronto alla battuta caustica, ma al tempo stesso profondo, e anche nella conversazione conservava quell’abito di equanimità condita di arguzia che era il suo. Fu lui a invitarmi a collaborare a “Mondoperaio” e poi a entrare nella redazione della rivista.
    L’atmosfera che vi si respirava si può dire che l’abbia descritta lui stesso parlando dell’atmosfera che regnava tradizionalmente nel Partito socialista:

    Era l’unico luogo nel quale spiriti indipendenti di sinistra si sentivano di poter stare, anche senza “iscrizioni” formali, anche se non condividevano tutte le compagnie e gli odori che il “luogo”, per il suo stesso disordine comportava. Perché il punto è questo: che ci si poteva stare, in quel luogo, senza doverli condividere e sottoscrivere quelle compagnie e quegli odori, a differenza di quanto accadeva, invece, inesorabilmente, per ogni altro luogo, grande partito che fosse, o movimento dedicato, o piccolo gruppo settario; luoghi che dovevi accettare in blocco: prendere o lasciare[2].

    È significativo che quando cominciai a partecipare alle riunioni della rivista nessuno – tanto meno quell’autentica figura di galantuomo che era il suo direttore, Federico Coen – abbia fatto mai il più piccolo accenno alle cose cattivissime che mi era capitato di scrivere poco tempo prima a proposito dell’antropologia ormai dominante dopo anni di potere nel gruppo dirigente socialista appena giunto al potere.
    Ospitando abitualmente saggi di Bobbio, di Colletti, di Salvadori, di Amato, e di altri più o meno sulle loro posizioni, “Mondoperaio” era diventata da alcuni anni una tribuna della cultura di sinistra non comunista, sempre più orientata in senso liberal-democratico. Io m’inserii in questo filone pubblicando nel gennaio del 1977 un lungo articolo su Gramsci, molto critico del suo concetto di egemonia.
    Nel frattempo Craxi muoveva i primi passi sulla scena italiana. All’inizio con un minimo di cautela, che tuttavia non servì a eludere i sospetti che la sua figura di coriaceo socialista autonomista di lunga data aveva immediatamente suscitato nel Partito comunista, il cui gruppo dirigente berlingueriano era ancora intimamente legato alle mitologie marxiste-leniniste e alle loro spettrali incarnazioni sovietiche[3]. Lo si vide bene al momento di quella che può essere considerata la prima vera uscita pubblica in grande stile della nuova linea di Craxi: la Biennale di Venezia, che il suo presidente Carlo Ripa di Meana, evidentemente non senza un’intesa con il segretario del Psi, annuncia nel gennaio 1977 per l’autunno seguente sul tema del “dissenso” nei Paesi dell’Est e quindi, inevitabilmente, sui regimi comunisti di tali Paesi[4]. Il tutto in coincidenza, probabilmente non casuale, con una seduta a Roma del Tribunale internazionale Sacharov istituito per occuparsi del medesimo argomento.
    La data è importante: 1977. Cioè quando del craxismo “rampante”, spregiudicato accaparratore di posti e rifugio di assessori di dubbia fama, insomma del craxismo di Ghino di Tacco e del Caf, in giro non c’è ancora la minima avvisaglia. Eppure, bastò che si avesse sentore di quanto si prepara a Venezia perché cominciasse a scatenarsi comunque il finimondo. Sul quale merita che ci si diffonda un poco anche per le novità che apporta un materiale documentario da poco venuto alla luce[5].
    Oggi sappiamo che appena avuta conoscenza delle due iniziative alla fine di agosto del 1977, il Kgb invitò immediatamente i servizi segreti dei Paesi del Patto di Varsavia a coordinare i propri sforzi per informarsi circa i particolari delle stesse e la possibilità di “misure attive” di contrasto. La rete informativa della Repubblica democratica tedesca entrò quindi in azione prendendo contatto, tramite un proprio agente, sia con un dirigente del Psi che confidò le perplessità che il nuovo corso stava creando al medesimo Partito socialista, sia, in seguito, con un confidente all’interno della direzione del Pci. Questi assicurò il suo interlocutore che egli stesso e il Partito si sarebbero impegnati a evitare qualunque partecipazione di propri rappresentanti all’evento veneziano. Nel rapporto dell’agente tedesco si leggeva poi che “L’ambasciata sovietica a Roma ha compiuto il medesimo passo nei confronti del compagno Tatò, segretario personale del compagno Berlinguer, per informare e muovere misure concrete contro il coinvolgimento del Pci”. Tale lavorio rende plausibile la notizia che alla fine di settembre del 1977 ci sia stata addirittura una riunione riservata, a Mosca, di altissimi dirigenti del Pcus (tra i quali Suslov e Ponomarëv) per decidere le contromisure del caso[6].
    Già a marzo, comunque, l’ambasciatore Rykov aveva chiesto ufficialmente al governo italiano, a nome di tutti i Paesi del Patto di Varsavia, di cancellare l’appuntamento veneziano. Dopo un passo inutile della Farnesina presso Ripa di Meana[7] l’appuntamento era stato però confermato. È a questo punto che cominciò a prendere consistenza l’offensiva contro la manifestazione da parte degli intellettuali italiani vicini al Partito comunista o comunque convinti dell’opportunità di non spiacergli.
    Aveva cominciato il critico artistico di “Paese Sera”, Nello Ponente chiedendosi se fosse opportuno finanziare ancora la Biennale. Gli aveva fatto eco dopo poco Giulio Carlo Argan, neoeletto sindaco di Roma nella lista del Pci come “indipendente”, definendo il progetto sul dissenso “zelo da crocerossina”, seguìto a ruota da Renato Guttuso e Lucio Lombardo Radice. In luglio i tre direttori di settore della Biennale, Vittorio Gregotti, Giacomo Gambetti e Luca Ronconi, si dimettono insieme a tutti gli esperti delle loro commissioni. Dopo un mese – tanto per avvalorare l’opinione di chi in seguito avrebbe sostenuto che non era mai esistita alcune egemonia del Pci sul mondo culturale italiano – Paolo Marinotti, erede e proprietario della Snia Viscosa nonché presidente di Palazzo Grassi, Paolo Grassi presidente della Rai in quota socialista (!), Bruno Visentini repubblicano di formazione azionista presidente della Fondazione Cini, la Casa Ricordi, il rettore cattolico di Ca’ Foscari Feliciano Benvenuti, tutti quanti negano alla Biennale l’uso dei locali nella città lagunare che si trovano sotto la loro giurisdizione. Per non essere da meno, anche la Cgil, in occasione dell’apertura della Biennale del dissenso il 15 novembre, proclama per la mattinata uno sciopero generale a Venezia, motivandolo con la previsione che a suo dire l’Unione Sovietica – il cui ambasciatore aveva poco prima tenuto un’assemblea proprio con i lavoratori veneziani – per rappresaglia avrebbe da allora in poi rifiutato le commesse ai cantieri di Marghera. Inutile dire che al convegno, sebbene fossero stati invitati, intellettuali come Giuliano Procacci, Paolo Spriano e Lucio Lombardo Radice, tradizionalmente vicinissimi al Pci, si guardarono bene dal partecipare. Venne, ma solo per un giorno e mezzo, unicamente Giuseppe Boffa, ex corrispondente dell’ “Unità” da Mosca[8]. Alberto Moravia accettò invece di introdurre il convegno sul dissenso nella letteratura, pur cercando di dare alla cosa il minor significato politico possibile e dicendo di confidare – a proposito di possibili reazioni sovietiche nei suoi confronti – “nella flessibilità delle autorità sovietiche, che, debbo dire, hanno sempre dimostrato comprensione almeno nei miei riguardi”[9].

    (...)



    [1] Cfr. su tutta questa esperienza di “Mondoperaio” Federico Coen e Paolo Borioni, Le Cassandre di Mondoperaio, una stagione creativa della cultura socialista, prefazione di Luciano Cafagna, Venezia, Marsilio, 1999.

    [2] Ibidem, p. VIII.

    [3] Ne è una prova eloquente una fonte di primissima mano di cui disponiamo da alcuni anni (ma singolarmente ben poco citata dalla storiografia sul periodo): Francesco Barbagallo (a cura di), Carlo Berlinguer. Note e appunti riservati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer 1969-1984, Torino, Einaudi, 2003. Tatò, cattolico comunista, fu il portavoce e il capo dell’ufficio stampa di Berlinguer, nonché la persona più fidata e a lui più vicina per tutto il periodo in cui l’uomo politico sardo fu ai vertici del Pci. Per il legame ancora assai vivo con la vicenda sovietica, si veda per esempio l’appunto datato 7-9 marzo 1976 nel quale, dopo aver affermato che l’Urss era certamente una società socialista, Tatò si avventurava a profetizzare che ormai anche gli Stati Uniti dovessero incamminarsi sulla strada del superamento del capitalismo, per poi concludere: “è pazzesco pretendere […] che un reale processo di trasformazione in direzione del socialismo delle società dell’occidente capitalistico possa andare avanti respingendo, separandosi e sputando sopra una parte della storia del socialismo, quella costituita pur sempre dell’Unione Sovietica e dagli altri Paesi dell’Europa orientale che si vorrebbero (sic!) presentare come pura negatività, puro errore e puro male”. E ancora: “L’esistenza e il peso dell’Urss […] esercitano un ruolo insostituibile sia per il mantenimento della pace e per il proseguimento della distensione e della cooperazione internazionali, sia anche per impedire il ritorno del dominio capitalistico sull’intera umanità” (p. 46). In un appunto di pochi mesi dopo, dell’ottobre 1976, Tatò parla dell’ “immondo contesto costituito dall’insieme, ancora imperante, degli idola capitalistici” (p. 50). Questa era l’atmosfera ideologica esistente nell’inner circle berlingueriano mentre stava per cominciare la parabola craxiana – atmosfera definita di “sincerità […] nel richiamarsi agli ideale comunisti” da Salvatore Lupo, in Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica (1946-78), Roma, Donzelli, 2004, p. 248 -; essa spiega molte delle cose che sarebbero accadute da lì in avanti.

    [4] Si tenga a mente che lo stesso Ripa aveva dedicato l’edizione della Biennale del 1974 al Cile (edizione che era stata inaugurata dalla vedova di Allende), e che nel 1976 gran parte della manifestazione aveva avuto come oggetto un “omaggio alla Spagna democratica”.

    [5] Mi riferisco allo studio di Gianluca Falanga, Spie dell’est. L’Italia nelle carte segrete della Stasi, Roma, Carocci, 2014, p. 67. Negli archivi della Stasi sono conservate altre numerose informative sulla manifestazione veneziana di quell’anno. Falanga è un ricercatore italiano stanziato a Berlino dove collabora con la Fondazione istituita dalla Repubblica federale con l’incarico di ordinare e studiare le carte del ministero della Sicurezza della scomparsa Rdt. Che io ricordi, nessuno dei suoi due libri sulla Stasi e sull’attività spionistica tedesco-orientale nella Penisola ha mai avuto l’onore di una recensione su qualcuno dei principali quotidiani o periodici italiani.

    [6] Cfr. Carlo Ripa di Meana, 1977, guerra fredda a Venezia: l’Unione Sovietica contro la Biennale del dissenso, in “Il Foglio”, 17 dicembre 2002; dove sono anche indicate le suddette contromisure.

    [7] Avrebbe detto a Ripa di Meana il direttore generale degli Affari culturali, ambasciatore Manzini: “Viviamo in un periodo di violenze e di terrorismo con gravi rischi per la nostra Repubblica. Per il nostro Paese è molto importante che l’Unione sovietica mantenga un atteggiamento responsabile e rimanga, come ha fatto finora, estranea ai gruppi armati e terroristici”. Cit. in Arturo Gismondi, La lunga strada per Hammamet. Craxi e i poteri forti, Milano, Bietti, 2000, pp. 88-89.

    [8] Cfr. Paolo Flores d’Arcais, La biennale del dissenso, in “La critica sociale”, 16 dicembre 1977, ora in Id., La rimozione permanente. Il futuro della sinistra e la critica del comunismo. Scritti 1971-1991, Genova, Marietti, 1991, pp. 80-84. Flores d’Arcais, da tempo in contatto con gli ambienti del dissenso nei Paesi dell’Est, era stato uno dei principali collaboratori di Ripa di Meana nella preparazione della Biennale. Non va peraltro dimenticato che l’anno successivo il Partito comunista riservò un trattamento più o meno analogo a quello riservato alla Biennale anche a un convegno sulle dissidenze interne o in esilio dei Paesi dell’Est, organizzato questa volta dal “Manifesto”. Come ha ricordato Rossanda “il Pci interdisse ai suoi di parteciparvi. Spedì Rosario Villari e leggere un testo predisposto e […] Vittorio Foa ci mandò un telegramma di scherno” (cfr. Rossana Rossanda, Ancora sul ’56, in “La rivista del manifesto”, n. 14, febbraio 2001: anche di cose come questa, bisogna pur ricordarlo, è fatto il passato di molti “padri della democrazia italiana”).

    [9] Cfr. l’intervista di Moravia nel numero dedicato alla Biennale da “Mondoperaio”, dicembre 1977, p. 52. Secondo le cautissime parole di Moravia, l’assenza alla manifestazione veneziana di tanti intellettuali italiani si spiegava con “una certa mancanza d’informazione da parte loro, sia in generale, sia sugli scopi, le modalità e il carattere di questa Biennale”. Secondo il giudizio alquanto minimizzatore di Moravia “i dissidenti non sono dunque gli ex amici diventati nemici (scilicet del potere sovietico), e neppure necessariamente dei nemici, ma solo persone che hanno una visione del mondo diversa, a volte solo parzialmente diversa”. Conveniva comunque sul fatto che la loro esistenza testimoniava di “una situazione perlomeno malsana nel rapporto tra l’artista e lo Stato nei Paesi dell’Est” (corsivo mio).
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    3. Sopraggiunse il rapimento di Aldo Moro. In quelle giornate immobili e insieme convulse, scandite dall’unica novità dell’ultimo comunicato delle Br o dell’ultima missiva del prigioniero, in cui nulla sembrava rompere l’attesa snervante di qualcosa, si manifestò con chiarezza il disegno di Craxi d’inserirsi come un cuneo nel duopolio Dc-Pci. Egli lo fece elaborando una sua pur discutibilissima posizione “umanitaria” in alternativa al cosiddetto “fronte della fermezza” tenuto (a mio giudizio con ragioni che ieri come oggi ritengo fondate) dai due partiti suddetti. Oltre che assai discutibile la posizione del segretario socialista era però isolata e debolissima, e non produsse quindi alcun frutto. Servì però ottimamente a far capire le intenzioni del suo ideatore, e a procurargli l’immediata, accresciuta, attenzione da parte di tutti i nemici dell’intesa tra cattolici e comunisti, dietro la quale si stagliava sempre l’ombra inquietante del “compromesso storico”. Dai conservatori di cultura liberale alla Montanelli fino a non pochi ambienti della sinistra extraparlamentare, in molti cominciarono a vedere in Craxi se non un alleato un possibile interlocutore. I goscisti in particolare videro subito nella posizione del segretario socialista un potenziale contrappeso al culto dello Stato dal vago sapore sabaudo-leninista con cui il Pci cercava di domare il disordine del Paese insidiato da loro stessi e dal terrorismo.
    Fu evidentemente tutto ciò a mandare in bestia il gruppo dirigente del Pci. “Tutti i compagni della Segreteria convengono, a quattr’occhi, - scriveva Tatò al ‘carissimo Enrico’ poche settimane dopo la conclusione della vicenda Moro – che Craxi è un avventuriero, anzi un avventurista, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, del tutto estraneo alla classe operaia, ai lavoratori, ai loro profondi e reali interessi, ideali e aspirazioni”. Aggiungendo poi del suo (ma scrivendo testualmente che sapeva di “sfondare porte aperte”): “Con Craxi appare in Italia un bandito politico di alto livello […]. Il suo è un comportamento sfrontato, provocatorio, fazioso, violento”, caratterizzato da un “esasperato autonomismo programmatico”[1]. Dove s’indovina che è quest’ultimo capo d’accusa, l’ “esasperato autonomismo programmatico”, quello che agli occhi di Tatò colma davvero la misura. Dai tempi della famigerata teoria del “socialfascismo” credo che da parte comunista non si fosse mai scritto o pensato qualcosa di analogo sul conto di un esponente socialista.
    Sta di fatto, come si vede, che l’elenco delle malefatte e degli addebiti pesantissimi imputati al craxismo era già pronto ben prima che nella società italiana se ne iniziassero a vedere gli effetti, cattivi o cattivissimi che essi siano stati. È altrettanto evidente che il motivo primo (e vero) di quelle accuse fosse tutto politico, per così dire di schieramento. Esso si sostanziava nella colpa di aver assunto – nell’ambito comune della sinistra, questo era il punto decisivo – una posizione di aperta differenziazione critica e di attacco, nei confronti del Partito comunista. Nel 1978, insomma, non erano certo il clientelismo, il personalismo, la “Milano da bere” – tutte cose ancora di là da venire – che non potevano essere perdonate a Craxi. Ciò che non gli poteva essere perdonato era la fine di quella subalternità introiettata, di quella timidezza psicologica, che tra i socialisti anche anni di centro-sinistra non avevano cancellato. Non gli si poteva perdonare di aver posto fine – già con la Biennale di Venezia e con la sua posizione all’epoca del rapimento Moro – a quell’immagine dei socialisti come dei volenterosi compagni di strada, magari talvolta riottosi e aggressivi ma alla fine sempre concilianti: soprattutto avvezzi a stare al loro posto[2].
    Dopo la caduta, da lì a molti anni, lo avrebbe visto e detto molto bene Luciano Cafagna. Craxi, scrisse, essendo stato “tra i pochissimi che non avevano mai accettato in tutti quegli anni Sessanta e Settanta compromissioni con la demagogia, né ideologiche né politiche”, aveva avuto di mira fin dall’inizio una cosa “chiarissima e costantemente presente: sostituire una leadership socialista ‘socialdemocratica’ a quella comunista che aveva prevalso per un intero periodo storico nella sinistra italiana”. E dunque, com’era inevitabile, egli si era opposto alla “deriva di governi che scivolavano sempre più inesorabilmente verso un controllo comunista. Di un comunismo, certamente, intendiamoci bene, dalle buone intenzioni, anzi ottime: ma intenzioni, comunque, comuniste”[3].
    Con Craxi, insomma, l’egemonia del Pci sulla sinistra italiana, fino ad allora incontrastata, anzi progressivamente accresciutasi, minacciava di andare in frantumi e ciò avveniva – cosa massimamente insopportabile – per un processo nato all’interno della sinistra stessa. Allora e sempre questa sarebbe stata la sua vera colpa.

    (...)



    [1] Ibidem, pp. 74-75.

    [2] Insomma, ha perfettamente ragione Adriano Sofri, il quale ha parlato di “inimicizia assoluta” e di “messa al bando” comminate “sorprendentemente” nei confronti di Craxi: “Sorprendentemente, dico, perché l’avversione per così dire viscerale a Craxi venne prima dell’imputazione di corruzione pubblica e privata. Fu un’avversione all’uomo, al suo corpo, ai suoi modi arroganti e banditeschi, alla novità della sua irruzione nel compromesso storico. Il Craxi bandito venne molto prima del Craxi corruttore e corrotto”, cfr. Adriano Sofri, Fate attenzione a non giocare con la messa al bando dell’avversario, in “Il Foglio”, 16 giugno 2000.

    [3] Cfr. Luciano Cafagna, Il capitano Craxi e la nave che ripartì, in “Mondoperaio”, nn. 4-5, luglio-ottobre 2003.
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    Predefinito Re: Il Psi o dell’irrilevanza suicida

    4. Quando Craxi cominciò a rompere l’incantesimo eravamo un piccolo gruppo di persone tra i trenta e i quarant’anni che si conoscevano da non molto e venivano dalle più varie esperienze della sinistra. Paolo Flores d’Arcais era un ex trotskista allievo di Lucio Colletti. Io ero stato iscritto 15 anni prima al Partito socialista da cui però ero uscito dopo un tempo brevissimo agli inizi del centro-sinistra. Giampiero Mughini aveva fondato e animato a Catania “Giovane Critica”, una delle più intelligenti riviste del 1968 e dintorni; trasferitosi quindi a Roma era stato tra i fondatori del “manifesto” da cui si era allontanato per andare a lavorare a “Paese Sera”. Parlo di loro due soprattutto perché è con loro che avrei compiuto il tratto successivo del mio itinerario politico. Insieme a loro voglio tuttavia ricordare anche Franco Moretti, coinquilino di Flores in un pittoresco quanto scalcinato appartamentino di Monteverde, il quale però aveva per così dire una funzione di complemento: infatti, già allora s’interessava assai più di letteratura che di cose come la storia o la politica.
    Subito dopo le elezioni del 1976 che avevano visto il bizzarro risultato di una duplice vittoria della Dc e del Pci avevamo dato vita con Paolo a una minuscola rivistina “Il Leviatano”, una delle tante dell’epoca, ma nelle cui pagine si respirava un’aria un po’ particolare. A torto o a ragione che fosse ci pareva che stesse stringendosi intorno a noi il cerchio ferreo del condominio “catto-comunista”. Non era un punto di vista particolarmente originale: al di fuori del Pci, infatti, a sinistra era una convinzione diffusa. Ciò che ci distingueva era però il fatto di declinare questo timore in una direzione lontana da qualunque velleitario proposito “rivoluzionario”. Della “rivoluzione”, che imperversava da anni nelle aule e nelle assemblee universitarie, tra i Cobas, nei giornaletti del movimento studentesco, e anche nell’ “Unità” (seppure in questo caso sotto una menzognera veste storico-mitologica), non volevamo più saperne. Forse anche perché – era per esempio il mio caso – essendo passato da un lato all’altro della cattedra, non ci avevo messo molto ad accorgermi dell’uso truffaldino che troppi sedicenti “collettivi studenteschi” facevano degli “esami di gruppo”, dei “controcorsi” e di altre gloriose conquiste che per l’appunto la “rivoluzione” aveva ottenuto nelle aule universitarie. In realtà al poco nobile fine di strappare comunque una promozione senz’aprire un libro. Ho ancora nelle orecchie le grida e gli improperi rivolti a me e a un mio collega, all’Università di Siena, da un’assemblea di studenti in gran parte meridionali, i quali sapendoci di idee “democratiche”, reclamavano da noi il “voto politico”. “Ci vorrebbe una compagnia di bersaglieri per metterli a posto…” mi sibilò tra i denti Franco B. che, essendo piemontese, evidentemente non aveva dimenticato le imprese dei suoi avi contro il brigantaggio meridionale su per i monti dell’Abruzzo o dell’Irpinia all’indomani dell’Unità d’Italia.
    Ci andavamo sempre più convincendo, insomma, che per riuscire ad avere il Paese in cui ci sarebbe piaciuto vivere bastava la democrazia parlamentare: quella in cui è possibile attuare anche la riforma più radicale a patto di convincere la maggioranza degli elettori. Ma anche quella in cui le leggi, finché non si cambiano, si rispettano e c’è chi le fa rispettare. Insomma eravamo diventati dei riformisti radicali.
    Alla Democrazia cristiana continuava ad andare come sempre la nostra più sincera avversione, colorita di un disprezzo antropologico in cui, bisogna dirlo, c’era una buona dose di pregiudizio laicista. Oggi naturalmente non mi sentirei di sottoscrivere né l’una né l’altro, ma in tanti, allora, acculturati politicamente nel clima degli anni Sessanta, del Partito cattolico avevamo un’immagine formata quasi esclusivamente dai suoi avversari. Non saprei dire quante volte avrò sentito parlare o mi sarà capitato di leggere, ad esempio, della “Madonna pellegrina”, dell’alquanto ridicola scomunica dei comunisti o dello scandalo della Federconsorzi; e invece nulla o pochissimo di Praga, del blocco di Berlino o del processo al cardinale Mindszenty. Cose sulle quali peraltro, se la memoria non m’inganna, i democristiani per primi in quegli anni preferivano tacere, e che pure i “venerati maestri” liberal-democratici si guardavano perlopiù dal ricordare. Non so se perché pensassero che tanto non sarebbe servito a niente, ovvero – come sarei propenso a credere – perché convinti che ormai quegli argomenti avessero perso attualità essendosi definitivamente appurato che il comunismo italiano era “diverso”.
    Noi cominciavamo a pensare che invece non fosse affatto così diverso. In questa convinzione si riversavano e mischiavano stimoli provenienti dagli orizzonti più vari: la lettura di certi libri di storia semiclandestini, l’ovvio anticonformismo dei giovani, forse, chissà, anche qualche reminiscenza di antiche discussioni al calor bianco con un padre cattolico o liberale. Era come se nel cuore di quegli anni Settanta fosse sopraggiunta una seconda scossa del terremoto sessantottesco. Di nuovo tutto cominciava a vacillare e a muoversi. La prima volta, anni prima, a farne le spese era stato il mondo conservatore borghese, di destra; ora era il turno del mondo conservatore di sinistra, al cui centro sedeva dominatore il Partito comunista. Dominatore ora più che mai, dopo la vittoria elettorale del 1976. Ma proprio ora – ciò che sembrava (ed era) il colmo del paradosso – anelante a un accordo con la Dc.
    Questo sentimento d’insofferenza e di rivolta contro il mondo conservatore di sinistra nutrì certamente anche i terroristi. In quasi tutti gli altri, per fortuna, gli esiti furono però ben diversi. Per esempio in quelli come me che scorgevano chiaramente le contraddizioni in cui si erano infilati in conseguenza delle certezze avute fino ad allora. In quelli a cui proprio il terrorismo stava aprendo gli occhi su molte cose. Infine in molte giovani donne le quali sentivano urgere ora questioni ben diverse da quelle che per lungo tempo avevano condiviso i maschi.
    Il grande fiume sessantottesco, insomma, cominciava a dividersi in vari rami, che però mantenevano quasi sempre un certo collegamento tra loro. Ben presto, ad esempio, un lettore di Anna Achmatova o di Pasternak di semplici sentimenti democratici si sarebbe accorto con un certo stupore di avere su Stalin opinioni assai più vicine a quelle di un abbonato al “manifesto” o di un militante intelligente di Lotta continua che non a quelle, mettiamo, di un vecchio elettore di Francesco De Martino.
    Anche per questo mutevole agitarsi delle idee e dei sentimenti, per questo continuo incalzare di fatti e di stati d’animo apparentemente sempre nuovi, continuava a essere bello e interessante vivere ed essere giovani nell’Italia dei Settanta-Ottanta. Per la verità giovani non eravamo più tanto. Ma il fatto si è che volgendomi indietro con il pensiero mi pare che fu proprio allora, nel cuore di quegli anni, che ebbe inizio la nostra eterna giovinezza. Proprio in quel tempo, infatti, cominciammo a non invecchiare più. Ormai eravamo perlopiù tra i trenta e i quaranta, è vero, ma l’immagine che continuavamo ad avere di noi stessi era la medesima immagine giovanile di sempre. Alla nostra età, in passato, i nostri genitori erano già sposati, avevano già messo su famiglia, avevano dei figli. Per noi invece il tempo non passava. Cominciava allora a non passare. Certo, l’inflazione incalzava, il debito pubblico cresceva, ma l’Italia sembrava diventare sempre più ricca, si moltiplicavano le occasioni di ogni genere, si aprivano nuove autostrade e nuove “radio libere”, le leggi diventavano più permissive, perché darsi pensiero? Potevamo continuare a portare gli stessi jeans, a non sentirci vincolati a nessun particolare obbligo legato al trascorrere delle età della vita. Scoprivamo che la modernità significava anche questo. Eravamo la prima generazione, e dentro quella generazione il primo gruppo sociale, che viveva un’esperienza che ben presto tutta l’Italia avrebbe imitato: l’illusione di non diventare mai vecchi per l’insostenibile paura di esserlo. Da allora in poi, per gli italiani gli anni non sarebbero mai passati. Anche a 40, a 50 anni, si sarebbe restati – o almeno cercato di restare – leggeri, disponibili, giovanili. E possibilmente felici.
    In quei giorni esserlo non era certo tanto difficile per quel piccolo gruppo di persone che ho detto sopra. Le occasioni non mancavano per dei giovani intellettuali ammalati di politica, portatori di punti di vista e di aneliti un po’ diversi da quelli che fino ad allora avevano tenuto il campo: e capaci di argomentarli non del tutto spregevolmente avendo sottomano una macchina da scrivere. Non per nulla era cosa quasi di ogni settimana essere invitati a collaborare a un giornale, a una iniziativa editoriale, essere invitati a un convegno, a tradurre o a scrivere un libro. Se guardo alcune vecchie agende, mi accorgo che era un vero fioccare di proposte. Segno tra l’altro dei tempi: di una passione e di un interesse per la storia, per la politica, di una vastità oggi neppure immaginabile. La sinistra poi, allora al suo zenit, era ancora un mondo sostanzialmente compatto: frastagliatissimo ma notevolmente intercomunicante, non ancora attraversato da contrapposizioni incomponibili. A fungere virtualmente da tollerante stabilizzatore di ogni contesa provvedeva in certo senso lo strapotere egemonico del Partito comunista: una specie di impero britannico del pianeta cultura e dintorni. E così era ad esempio possibile che a una stessa persona giungessero offerte e inviti da intellettuali pure collocati su posizioni significativamente diverse come Giuseppe Vacca, Stefano Merli o Massimo Teodori; dalla redazione di “Quaderni storici” e da quella di “Paese Sera”. Anche se il tempo delle rotture, quasi sempre drammatiche, ormai incombeva. Dove non era riuscito il terrorismo stava per riuscire Bettino Craxi.
    Agli occhi di coloro che fin d’allora si rendevano conto del vicolo cieco cui conduceva la politica del Pci, ed erano ormai sicuri che non ci fosse nulla di male a pensare del comunismo tutto il male possibile (non necessariamente dei comunisti, com’è ovvio), l’arrivo sulla scena di Craxi apparve immediatamente, come ho detto, una fondamentale novità.
    Abbastanza curiosamente per uno destinato a passare a lungo per craxiano, Craxi a me personalmente non è mai capitato – non dico di conoscerlo – ma semplicemente di vederlo dal vivo neppure una volta. Fino al 1980 ho respirato però a pieni polmoni l’aria del “craxismo”. Perlomeno quella che filtrava a “Mondoperaio”, un posto che in verità di craxiani autentici non ne annoverava quasi nessuno, essendo perlopiù, come ho detto, un cenacolo di amici di Giolitti, ai quali in quel momento Craxi non stava eccessivamente simpatico, pur apprezzandone tutti quanti la ferma volontà di voltare pagina e di farla finita con il vecchio Psi.


    (...)
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    Predefinito Re: Il Psi o dell’irrilevanza suicida

    Nella redazione della rivista ero entrato, ho già ricordato anche questo, su sollecitazione di Luciano Cafagna. Lì mi ritrovai con Flores e Mughini oltre che, lo si può ben dire, con il fior fiore dell’intelligentsija democratico-riformista: da Giuliano Amato a Gino Giugni, allo stesso Cafagna a Federico Mancini. Ci si riuniva periodicamente con Coen negli ambienti tersi e squadrati di un palazzo d’architettura fascista prospicente piazza Augusto Imperatore, a Roma. Vigilava l’occhio attento di Concetta Marazzita, la segretaria di redazione, un’intelligente donna del sud, ironica e puntuta, di cui ogni parola sembrava sottintendere un ordine o una rampogna. L’atmosfera che da un certo momento in poi cominciò a regnare fu quella di una battaglia culturale, che in ragione del montare della polemica con il Pci, sempre di più appariva, almeno a me, una battaglia all’ultimo sangue. Non da ultimo perché molti che si trovavano a combatterla da quel lato della barricata avvertivano di avere senz’altro la ragione dalla loro. Fu comunque in quelle stanze, in quelle riunioni, che capii definitivamente che con quella che era stata la mia “sinistra d’origine”, la chiamerò così, non avevo più nulla a che fare. Che ero cambiato.
    I grandi temi allora agitati è inutile ricordarli, essendo stranoti: Gramsci, Togliatti, la democrazia. Ma di quei numeri di “Mondoperaio” più che i lunghi saggi o le tavole rotonde io credo che abbiano contato almeno altrettanto certi corsivi che cominciarono a comparire sulla rivista: aguzzi, velenosi, talora apertamente irridenti, che avevano soprattutto di mira l’antica sicumera marx-leninista però sempre più abbigliata, adesso, nei panni di trombonismo di casa nostra. La rottura più insopportabile credo che sia stata proprio quella del linguaggio. Quando mai una pubblicazione ufficiale del Psi aveva osato parlare a quel modo dei compagni comunisti?
    E quando mai, d’altra parte, i vecchi dirigenti del Psi avevano avuto qualcosa in comune con quelli giunti ora al seguito di Craxi, con la loro immagine, con il loro modo di fare? Gli uomini del nuovo corso erano davvero un pugno di uomini nuovi, rappresentanti della prima vera rottura antropologica che si fosse vista dal 1945 sulla scena pubblica italiana. Al centro, ma più ancora in periferia, il loro avvento segnò la comparsa di un tipo inedito di politico: dai modi e dall’abbigliamento informali, sfrontato nel linguaggio, dalla vita privata spesso non proprio irreprensibile ma esibita senza problemi, abituato ad andare per le spicce. Su tutti svettava Claudio Martelli, che subito lanciò l’idea di fare un circolo di cultura intitolato a “Mondoperaio” e lo affidò a Paolo Flores. Martelli era giovane, vestiva con eleganza sgualcita consona ai tempi e portava in giro una sua certa aria di “bello e dannato”. Recava nel viso corrucciato, nello sguardo mobile e nella parola tagliente, il segno di un’intelligenza irrequieta, così come dell’ambizione, della sicurezza arrogante di chi è convinto di saperla più lunga degli altri. E che pensa anche di aver letto più libri degli altri: peraltro avendoli letti davvero. Come non essere colpiti da un simile personaggio? Già allora, poi, vedere in Italia qualcuno al di sotto dei 40 anni in una posizione politica importante sembrava un miraggio. Certo, Martelli faceva abbastanza storia a sé, ma comunque era rappresentativo dello stile con cui la nuova leadership craxiana si presentava sulla scena.
    Fu subito palese, naturalmente, anche l’inevitabile dose di spregiudicatezza che un tale stile comportava. Ma in politica – la tradizione comunista avrebbe potuto insegnarlo – non è detto che la spregiudicatezza sia di per sé un male. Beninteso, a due condizioni: che a un certo punto si sia capaci di porle un limite, e che essa conduca al successo. E forse anche a un’altra condizione: che la spregiudicatezza non appaia in modo troppo evidente. Sfortunatamente, a Craxi e ai suoi non riuscì la prima cosa, sembrò del tutto irrilevante la terza, e quanto al successo esso mancò clamorosamente.


    Ernesto Galli della Loggia
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