Da Ernesto Galli della Loggia, “Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica”, Il Mulino, Bologna 2016, pp. 183-203.
1. A mandare all’aria l’universo profondamente instabile ma in un certo senso sempre eguale a se stesso che era da molti anni la scena politica italiana, e al suo interno il mondo della sinistra, venne Bettino Craxi. Venne l’uomo, cioè, la cui azione è stata la prima in ordine di tempo a produrre l’atmosfera agitata, carica di veleni e di ostilità, che dalla fine degli anni Settanta in avanti ha sempre più caratterizzato la discussione e la vita pubblica nel nostro Paese. Un’ostilità divenuta presto senza quartiere perché in essa confluirono e si confusero, rafforzandosi e inasprendosi a vicenda, due fattori: lo scontro più propriamente politico-partitico e il conflitto ideologico-culturale. Il tutto, come se non bastasse, all’insegna di una rinnovata “questione morale” e addirittura di una latente “questione antropologica”. Alla stagione del 1968 e dintorni, caratterizzata da vasti, talvolta feroci, scontri sociali e dalle visioni palingenetiche, successe ora quella dei veleni, delle aggressioni tra un partito e l’altro, delle polemiche spietate tra i leader. Mentre la società, da protagonista tanto spesso abituata a muoversi ai limiti della legge che era poco prima, ora venne sempre più atteggiandosi a giudice inflessibile di legalità.
Nel panorama della sinistra italiana Craxi produsse qualcosa di assolutamente nuovo. In tutto il periodo precedente, infatti, per quanto possa oggi apparire singolare, la competizione politica all’interno di quel campo si era sempre mantenuta entro un quadro che potremmo definire di “buone maniere”. Almeno sul piano esteriore. In realtà un certo livello di “buone maniere”, al di là delle apparenze, si era generalmente mantenuto dal 1945 in poi nell’ambito di tutto lo schieramento antifascista. Forse per effetto della comune battaglia combattuta a suo tempo, o forse anche – mi azzardo a dire – per una certa duratura consapevolezza, o se si preferisce per il timoroso sentore da parte dello schieramento di cui sopra, di non rappresentare realmente l’animo profondo del Paese. E che quindi ciò rendesse opportuno non rompere mai del tutto legami antichi che avrebbero sempre potuto rivelarsi nuovamente utili. Allo stesso modo, mi viene da osservare, per cui i due principali attori di quello schieramento antifascista – la Dc e il Pci -, finché sono esistiti, non hanno mai pensato di poter sciogliere il vincolo che li teneva legati ai loro due rispettivi grandi protettori stranieri ai quali in qualche modo sentivano di dovere, se non altro storicamente, il loro ruolo nella Penisola. La storia politica della democrazia italiana, non bisogna mai dimenticarlo, è stata nella sostanza una storia di minoranze. E dunque, per molti aspetti, una storia “contro” il Paese più che un’espressione originariamente maggioritaria di esso.
Le “buone maniere”, insomma, erano state sempre osservate da ambo le parti anche nei rapporti tra la sinistra e il mondo cattolico, Democrazia cristiana compresa. Pur nello scontro politico talora asperrimo, e fatte salve alcune inevitabili punte di volgarità polemica e di anticlericalismo, cattolici e comunisti si erano costantemente rispettati. Di modo che l’ostilità della sinistra verso la Democrazia cristiana si era quasi sempre mantenuta sul terreno della politica. Non solo a causa del tacito interdetto a discutere di questioni attinenti la sfera religiosa, ma anche per l’assai scarsa concorrenza che la cultura cattolica, storicamente assai debole nel Paese, poteva fare a quella laica. In sostanza non c’era mai stato alcuno scontro virulento che riguardasse idee, valori, principi “non negoziabili”, come si direbbe oggi. Tutto era stato sempre e solo politica. Neppure il contrasto sul divorzio o sull’aborto valse a cambiare le cose.
Tradizionalmente pure quella parte quantitativamente esigua ma socialmente e intellettualmente assai prestigiosa rappresentata dal Partito repubblicano, con le sue molte confluenze dell’antico azionismo, aveva sempre curato di mantenere verso i comunisti un contrasto sì, ma dai toni “civili”, “alti” e “colti”. Sempre con la speranza di poterli prima o poi utilizzare per tenere buona la variopinta scolaresca nazionale oggetto della vasta impresa pedagogica di cui ad avviso di azionisti e repubblicani abbisognava l’Italia, e che naturalmente avrebbe visto loro nella parte dei maestri in cattedra.
Forse la sola vera eccezione alle “buona maniere” era stata a sinistra, negli anni Cinquanta, la frequente e abbastanza violenta polemica comunista – ribattuta peraltro colpo su colpo – contro l’ambiente intellettuale del “Mondo” e i rappresentanti della sua cultura liberal-democratica. Polemica nella quale non erano mancati – si pensi a certi corsivi di Roderigo di Castiglia, alias Palmiro Togliatti – anche toni oltraggiosi e pesantemente personali. Alla fine, però, in un modo o nell’altro era sempre intervenuta la convenienza di tutti a non scavare fossati incolmabili.
Con Craxi, invece, fin dall’inizio fu tutto diverso. Egli diventò segretario subito dopo le elezioni del 1976, quando si erano appena consumate la grande avanzata del Pci e la débâcle socialista. Ciò nonostante nel Paese stava già maturando un clima nuovo. Già cominciava a insinuarsi, infatti, il sospetto che la tanto celebrata tradizione del comunismo italiano fosse destinata in realtà a sfociare in un vero e proprio nulla di fatto politico. Quanto più nell’immediatezza della vittoria tutti ne avevano sanzionato l’ormai definitivo successo storico-epocale[1], tanto più ora, dopo appena poche settimane, ne appariva deludente il frutto e forse addirittura dubbio il successo stesso[2]. Il misero esordio del primo governo di “solidarietà nazionale” stava avendo l’effetto di una rivelazione che gli esiti successivi, lungi dallo smentire, avrebbero semmai confermato. Insomma, giunta a un passo dal “grande successo finale”, la tradizione comunista, perennemente in bilico tra radicalismo teorico[3] e “opportunismo” pratico, immobile da decenni su questo crinale, cominciava visibilmente a perdere forza d’attrazione. Cominciava ad apparire agli occhi di un crescente numero di persone ciò che per noi oggi è evidente: l’espressione di una profonda anomalia italiana. E tutto ciò non poteva non imporre prima o poi a tutta la sinistra un redde rationem. Implicitamente, infatti, quell’anomalia non coronata dal successo rilanciava nei fatti la prospettiva socialdemocratica rimasta fino allora sempre sconfitta[4].
Nelle crisi politiche è sempre un uomo che fa la differenza. Craxi, che alla prospettiva socialdemocratica aveva sempre guardato con genuina convinzione, capì che era giunta l’ora: anche la sua ora. E audacemente – mi pare difficile negare questa qualifica a un’impresa di simile portata e dall’esito allora così incerto – diede inizio alla rottura definitiva dell’unità culturale e più ancora antropologica che aveva sempre caratterizzato nel suo fondo la sinistra italiana e insieme, in un certo senso, anche la prima Repubblica. Fu in questo modo che avviò uno scontro di inedita virulenza sulla scena politica, e una sorta di vera e propria guerra civile pure tra gli intellettuali italiani. A proposito dei quali il fatto di “conoscersi tutti”, di sapere ognuno vita, morte e miracoli d’ogni altro, lungi dall’abbassare il livello dello scontro, viceversa era destinato ad accrescerlo, secondo la tipica modalità delle vere guerre civili.
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[1] Un solo esempio tra i mille che potrebbero farsi: quello abbastanza noto di Alberto Asor Rosa, il quale aveva appena assicurato che il Pci era “l’erede più autentico del riformismo secondinternazionalista di Turati e di Prampolini”, e però al tempo stesso anche “l’erede più autentico della tradizione leninista” (cfr. “l’Unità”, 25 giugno 1976). Parole delle quali colpisce non tanto la dubbia fondatezza dell’assunto, quanto il compiacimento che le ispira, del tutto cieco davanti al paralizzante pasticcio che verosimilmente sarebbe scaturito dalla convivenza di due prospettive così diverse. Va ricordato che poco tempo prima Asor Rosa aveva più precisamente affermato (cfr. La cultura, in Storia d’Italia. IV: Dall’Unità a oggi, Torino, Einaudi, 1975, t. 2, p. 1102) che il Partito comunista non solo era “il più legittimo erede del riformismo”, ma altresì il suo “superatore”.
[2] Significativo il titolo che il 5 agosto 1976, “la Repubblica” dà all’editoriale di Eugenio Scalfari che commenta immediatamente dopo le elezioni politiche la formazione del governo monocolore Andreotti che si regge sull’astensione del Pci, il quale così abbandonava per la prima volta l’area dell’opposizione: Un voto gratuito per un governo incolore; cit. in Guido Crainz, Il Paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003, p. 544 n. Non era un inizio promettente.
[3] Per avere un’idea di tale radicalismo nonché della sua diffusione, si pensi che ancora nel 1970, per ricordare il centesimo anniversario della nascita di Lenin, il Pci organizzò al Teatro Eliseo di Roma, con adeguata scenografia, una solenne seduta pubblica congiunta del comitato centrale e della commissione centrale di controllo. In essa Terracini definì Lenin il “maestro” e il “capo del grande movimento progressivo e rinnovatore cui s’intitola quest’epoca”; mentre Giorgio Napolitano, oratore ufficiale della cerimonia, non esitò a illustrarne la figura – probabilmente nutrendo in cuor suo più di un dubbio – come “un luminoso punto di riferimento” per le giovani generazioni chiamate a schierarsi “contro il capitalismo”. La cerimonia di Roma fu il clou di una serie imponente di manifestazioni e conferenze celebrative svoltesi per mesi e mesi nelle sezioni, nei cinema e nei teatri di tutta Italia; tutte con il medesimo titolo: Con le idee di Lenin per il socialismo in Italia e nel mondo. Dal 18 al 25 aprile si svolse addirittura una “settimana leniniana”. In totale tra il 7 novembre 1969 e il 7 novembre 1970 si ebbero nella Penisola 2 mila cicli di conferenze su Lenin e qualcosa come 18 mila manifestazioni in suo onore. Cfr. l’utilissimo volume di Andrea Possieri, Il peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pci al Pds (1970-1991), Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 67-71 e 73-74.
[4] Prospettiva socialdemocratica rispetto alla quale il Pci di Berlinguer, checché se ne dica oggi, si ostinò sempre, fino alla fine, a volersi differenziare e anzi contrapporre. Vale la pena di riportare in proposito un episodio illuminante ricordato da Umberto Ranieri in Napolitano, Berlinguer e la luna, Venezia, Marsilio, 2014, pp. 41-42. Intervistato a Mixer da Giovanni Minoli nel 1984, alla domanda su chi fosse la personalità internazionale cui andava la sua preferenza, Berlinguer rispose Jànos Kàdàr (nel 1984!): mentre in quegli anni, come ricorda Ranieri, “erano protagonisti sulla scena europea personaggi come Willy Brandt e Helmut Schmidt, François Mitterrand e Olof Palme”.