Marxismo e socialismo (1978)
“MondOperaio”, a. 31, n. 5, maggio 1978, pp. 61-9.
Intervento nel dibattito sul progetto socialista.
Uno dei rimproveri che è stato mosso al progetto socialista, anche all’interno dello stesso Partito, è di essere poco marxista o di non esserlo affatto. Così la discussione intorno al progetto è stata un’ennesima occasione per accendere una nuova discussione intorno alla vitalità, continuità, attualità, perennità, validità ecc. del marxismo. Siccome non posso nascondere i miei dubbi sulla opportunità e sulla fecondità di un dibattito impostato in questo modo, mi permetto di fare alcune osservazioni senz’altra pretesa che quella di portare un po’ d’acqua al mulino comune.
Per dichiarare subito il punto di partenza da cui muovono queste osservazioni, e quindi per non nascondere i loro limiti di fronte a coloro che muovono da un punto di vista diverso, premetto che si tratta di osservazioni di uno che non si considera marxista, almeno nel senso in cui di solito s’intende questa parola, e neppure un marxologo, se per “marxologo” s’intende uno che abbia fatto delle opere di Marx il principale oggetto dei propri studi. Ho letto e riletto Marx, specie le opere storiche e filosofiche, come si legge un classico, come ho letto Platone e Aristotele, Hobbes e Rousseau, Kant e Hegel, o, per venire ai giorni nostri, Pareto e Weber. Non sono marxista come non sono platonico o aristotelico, kantiano o hegeliano. Ho subito il fascino dell’opera di Marx, specie negli anni della liberazione e della ricostruzione, quando tradussi e presentai i Manoscritti economico-filosofici del 1844. Ma non posso passar sotto silenzio che negli stessi anni introdussi la prima traduzione integrale del De cive di Hobbes, di un autore la cui importanza decisiva nella storia del pensiero politico, o meglio nella riflessione sulla nascita dello stato moderno, non era allora riconosciuta come è unanimemente riconosciuta ora. Credo mi abbia attratto nell’uno e nell’altro l’atteggiamento realistico, spregiudicato, disincantato ma non indifferente, di fronte alla crudeltà della storia, alla durezza delle condizioni obiettive che gli uomini devono fronteggiare per sopravvivere, alla necessaria spietatezza dei rimedi che occorrono per non soccombere. Pur essendo consapevole di addurre una ragione psicologica e quindi fragilissima, devo aggiungere che il fascino che Marx ha esercitato su di me per la forza della sua critica delle cose è stato attenuato e talora rovesciato in una sorta di invincibile avversione per l’intolleranza, la maniera sprezzante, sferzante e feroce di cui l’autore della ideologia tedesca e della Sacra famiglia, con il suo fedele amico Engels, ha dato tante prove nella critica degli uomini. A ogni modo non ho mai dubitato che Marx sia un grande pensatore, dal cui pensiero nessuno il cui giudizio non sia ottenebrato da partito preso può prescindere.
Dico questo non per fare della facile autobiografia che non interessa a nessuno, ma unicamente per spiegare il punto di vista da cui mi metto, che non è quello solito e francamente uggioso delle dispute fra marxisti e non marxisti, cioè fra due partiti presi, e neppure quello dei convertiti (genere che si va diffondendo), cioè di coloro che, essendo stati marxisti e ora non essendolo più, erano tanto puntigliosamente marxofili prima quanto sono puntigliosamente marxofobi ora. Solo coloro che si sono inginocchiati di fronte a un idolo sentono il bisogno di abbatterlo quando si alzano in piedi. Chi non ha mai sventolato il vessillo con su scritto “Tutto in Marx, nulla fuori di Marx, nulla contro Marx”, non sente il bisogno di unirsi al coro dei sudditi ribelli.
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