Una domanda di questo genere, che a me pare opportuna, estende il nostro dibattito a un campo sinora poco esplorato, e rispetto al tema del convegno ancora più pregiudiziale di quello che ho percorso sino ad ora. Si tratta di sapere, in altre parole, se il riformismo sia, non solo ancora chiaramente definibile, dal momento che è venuta meno la sua sintesi storica, ma anche possibile, almeno nel senso in cui è sempre stato inteso all’interno della sinistra come riformismo politico, come azione o insieme di azioni prolungantisi nel tempo indirizzate al cambiamento in base a progetti a lunga o breve scadenza (in base cioè a un programma minimo). Mi pare difficile negare che in Italia tutti i progetti a lungo, medio, breve termine, siano miseramente falliti. Quanti sono i progetti elaborati dalla sinistra storica, comunisti e socialisti, che sono rimasti lettera morta, dopo aver costituito oggetto di trattenimento intellettuale in convegni, seminari, tavole rotonde, dibattiti su riviste e giornali, e altrettali logomachie? Chi di noi è senza peccato scagli la prima pietra. Non posso dimenticare che nel seno del Partito socialista medesimo si era costituita non molti anni fa un’associazione per il progetto socialista, di cui ho fatto parte (anzi ne sono stato nominato, indegnamente, per un certo periodo di tempo presidente), e che questa associazione è morta d’inedia o di consunzione senza che nessuno le desse il colpo di grazia. L’intellettuale propone e il politico dispone: e dispone non perché disdegni il lavoro dell’intellettuale, ma molto spesso perché non sa che farsene, consapevole com’è che la sua azione è principalmente quella di tappare falle per evitare di andare a picco piuttosto che quella di pilotare la nave verso mete meravigliose. Credo che il buon politico abbia ormai appreso che la nave che egli dirige in una società democratica, con tutti i vincoli che le regole democratiche gl’impongono, è un battello di piccolo cabotaggio che se si avventurasse in alto mare rischierebbe di essere squassato alla prima tempesta.
Con questo non voglio dire che una politica riformatrice non sia possibile. Dico che non si può darla per scontata. Il che fra l’altro aumenta l’impegno e la responsabilità di chi si considera riformista e si pone correttamente il problema: quale riformismo. Non voglio dire neppure che in Italia non siano state fatte riforme mediante l’azione politica, dalla riforma della scuola unica alla riforma del diritto di famiglia, dall’istituzione del divorzio alla depenalizzazione dell’aborto. Ma sono tutte quante riforme che sono state proposte e attuate a pezzi, di volta in volta, senza un piano generale, senza che si possa dire siano state il prodotto di un partito del riformismo. Paradossalmente ci sono state riforme senza riformismo, voglio dire senza un progetto riformatore. E se progetti riformatori ci sono stati, questi non hanno prodotto riforme.
Riflettendo in grande sulla storia del nostro tempo e non limitandosi ad annotazioni in margine o a piè di pagina circa gli avvenimenti che cadono sotto i nostri occhi di cronisti (quali siamo spesso costretti ad essere sotto l’assalto quotidiano degli imprenditori delle comunicazioni di massa e dei loro agenti), vien fatto di osservare che vi sono almeno due cause di mutamento sociale che non dipendono direttamente dal potere politico. Queste sono, anzitutto, il mutamento dei costumi che avviene sotto la spinta di cambiamenti d’idee, di condizioni economiche, di regole di comportamento sociale e morale; in secondo luogo, il progresso tecnico. Si tratta di due mutamenti che sono indubbiamente connessi tra loro, anche se non è del tutto chiara la loro interdipendenza. Per quel che riguarda il mutamento del costume, basti pensare alle profonde trasformazioni che sono avvenute nei paesi economicamente sviluppati, e nelle classi che di questo sviluppo hanno tratto i maggiori vantaggi, nei rapporti tra i sessi. Mi è accaduto spesso di dire che l’unica rivoluzione del nostro tempo (rivoluzione come effetto), almeno nei paesi più avanzati economicamente, è stata la rivoluzione femminile. Ma è stata una rivoluzione che è avvenuta al di fuori della sfera d’influenza del potere politico, il quale si è limitato nella più favorevole delle ipotesi a ratificare e a legalizzare una serie di cambiamenti avvenuti nei rapporti familiari in seguito al mutamento di norme etiche, e, beninteso, di condizioni di lavoro, alla loro volta effetto di mutamenti nella sfera delle tecniche di produzione. Quale enorme influenza abbia esercitato sui rapporti sessuali la scoperta e la diffusione dei contraccettivi, è inutile sottolineare tanto è smaccatamente evidente.
Il mutamento più sconvolgente di fronte al quale ci troviamo oggi è indubbiamente quello prodotto dal progresso tecnico, cioè dall’invenzione di macchine sempre più perfette che sostituiscono il lavoro dell’uomo. Gli antichi per giustificare la schiavitù, ovvero la riduzione dell’uomo a strumento, a macchina, erano costretti a ricorrere allo specioso argomento secondo cui vi sono degli uomini schiavi per natura. In sostanza essi dovevano spiegare perché un lavoro brutale, da macchina, dovesse farlo l’uomo (che secondo la classica definizione aristotelica era un animale razionale e come tale diverso da tutti gli altri animali). Ora il lavoro degli uomini-macchina lo potranno fare sempre più delle vere e proprie macchine. Dopo la riduzione dell’uomo a macchina il progresso tecnico di questi ultimi anni ci fa assistere al processo inverso dell’elevazione della macchina a uomo. Tutto questo avviene indipendentemente, ripeto all’insaputa, del potere politico. Furono Saint-Simon e i saint-simoniani i primi a affermare che la vera e grande trasformazione della società avvenuta alla fine del secolo XVIII era stata il prodotto non già di una rivoluzione politica, com’era stata la rivoluzione francese, ma della rivoluzione industriale, i cui creatori erano stati gli scienziati e non i politici. La grande trasformazione che sta cambiando la nostra attuale società, e che prepara la società cosiddetta post-industriale, è l’effetto non di riforme politiche ma di scoperte scientifiche e di mirabolanti applicazioni tecniche. Alla fine del secolo anche Marx credeva che l’umanità fosse entrata nell’era delle grandi rivoluzioni sociali e politiche, e che dopo la rivoluzione borghese una nuova rivoluzione avrebbe fatto passare l’umanità dal regno della necessità al regno della libertà.
Allargando ulteriormente lo sguardo a ciò che è cambiato dal secolo scorso ad oggi, occorre ancora osservare che dalla fine del Settecento sino allo scoppio della prima guerra mondiale la filosofia della storia era orientata verso l’idea che la specie umana fosse perfettibile, e questo processo verso la perfezione o meglio verso il perfezionamento fosse inarrestabile e irreversibile. Era in altre parole dominata da una concezione progressiva della storia, cioè dall’idea che l’umanità fosse, per usare le parole di Kant, “in costante progresso verso il meglio” (da sottolineare il “costante”). Il mito del progresso è caduto[1]. Oggi non esiste più una filosofia della storia se per filosofia della storia s’intende una risposta positiva alla domanda se la storia abbia un senso e quale esso sia. Affinché si possa dare un senso alla storia bisogna ritenere che la storia abbia una meta prestabilita (la libertà, l’eguaglianza, l’unità del genere umano?) e questa meta prestabilita sia destinata a essere immancabilmente raggiunta. Oggi non vi è più alcun filosofo tanto temerario da pensare che la storia umana abbia una meta prestabilita e che questa meta, posto che ci sia, sia raggiungibile. Caduta è forse definitivamente ogni concezione teologica della storia. La storia va verso… Verso dove? La pace universale oppure la guerra onnidistruttiva? La secolarizzazione integrale oppure la rinascita dello spirito religioso? (Dio è morto oppure è vivo più che mai?). La libertà di tutti o la schiavitù universale sotto nuove e mai viste forme di dispotismo, come quella fantasticata da Orwell?
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[1] Rinvio al libro di G. Sasso, Tramonto di un mito (1984), il Mulino, Bologna 1988.