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  1. #61
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    Predefinito Riformismo, socialismo, uguaglianza (1985)

    Una domanda di questo genere, che a me pare opportuna, estende il nostro dibattito a un campo sinora poco esplorato, e rispetto al tema del convegno ancora più pregiudiziale di quello che ho percorso sino ad ora. Si tratta di sapere, in altre parole, se il riformismo sia, non solo ancora chiaramente definibile, dal momento che è venuta meno la sua sintesi storica, ma anche possibile, almeno nel senso in cui è sempre stato inteso all’interno della sinistra come riformismo politico, come azione o insieme di azioni prolungantisi nel tempo indirizzate al cambiamento in base a progetti a lunga o breve scadenza (in base cioè a un programma minimo). Mi pare difficile negare che in Italia tutti i progetti a lungo, medio, breve termine, siano miseramente falliti. Quanti sono i progetti elaborati dalla sinistra storica, comunisti e socialisti, che sono rimasti lettera morta, dopo aver costituito oggetto di trattenimento intellettuale in convegni, seminari, tavole rotonde, dibattiti su riviste e giornali, e altrettali logomachie? Chi di noi è senza peccato scagli la prima pietra. Non posso dimenticare che nel seno del Partito socialista medesimo si era costituita non molti anni fa un’associazione per il progetto socialista, di cui ho fatto parte (anzi ne sono stato nominato, indegnamente, per un certo periodo di tempo presidente), e che questa associazione è morta d’inedia o di consunzione senza che nessuno le desse il colpo di grazia. L’intellettuale propone e il politico dispone: e dispone non perché disdegni il lavoro dell’intellettuale, ma molto spesso perché non sa che farsene, consapevole com’è che la sua azione è principalmente quella di tappare falle per evitare di andare a picco piuttosto che quella di pilotare la nave verso mete meravigliose. Credo che il buon politico abbia ormai appreso che la nave che egli dirige in una società democratica, con tutti i vincoli che le regole democratiche gl’impongono, è un battello di piccolo cabotaggio che se si avventurasse in alto mare rischierebbe di essere squassato alla prima tempesta.
    Con questo non voglio dire che una politica riformatrice non sia possibile. Dico che non si può darla per scontata. Il che fra l’altro aumenta l’impegno e la responsabilità di chi si considera riformista e si pone correttamente il problema: quale riformismo. Non voglio dire neppure che in Italia non siano state fatte riforme mediante l’azione politica, dalla riforma della scuola unica alla riforma del diritto di famiglia, dall’istituzione del divorzio alla depenalizzazione dell’aborto. Ma sono tutte quante riforme che sono state proposte e attuate a pezzi, di volta in volta, senza un piano generale, senza che si possa dire siano state il prodotto di un partito del riformismo. Paradossalmente ci sono state riforme senza riformismo, voglio dire senza un progetto riformatore. E se progetti riformatori ci sono stati, questi non hanno prodotto riforme.
    Riflettendo in grande sulla storia del nostro tempo e non limitandosi ad annotazioni in margine o a piè di pagina circa gli avvenimenti che cadono sotto i nostri occhi di cronisti (quali siamo spesso costretti ad essere sotto l’assalto quotidiano degli imprenditori delle comunicazioni di massa e dei loro agenti), vien fatto di osservare che vi sono almeno due cause di mutamento sociale che non dipendono direttamente dal potere politico. Queste sono, anzitutto, il mutamento dei costumi che avviene sotto la spinta di cambiamenti d’idee, di condizioni economiche, di regole di comportamento sociale e morale; in secondo luogo, il progresso tecnico. Si tratta di due mutamenti che sono indubbiamente connessi tra loro, anche se non è del tutto chiara la loro interdipendenza. Per quel che riguarda il mutamento del costume, basti pensare alle profonde trasformazioni che sono avvenute nei paesi economicamente sviluppati, e nelle classi che di questo sviluppo hanno tratto i maggiori vantaggi, nei rapporti tra i sessi. Mi è accaduto spesso di dire che l’unica rivoluzione del nostro tempo (rivoluzione come effetto), almeno nei paesi più avanzati economicamente, è stata la rivoluzione femminile. Ma è stata una rivoluzione che è avvenuta al di fuori della sfera d’influenza del potere politico, il quale si è limitato nella più favorevole delle ipotesi a ratificare e a legalizzare una serie di cambiamenti avvenuti nei rapporti familiari in seguito al mutamento di norme etiche, e, beninteso, di condizioni di lavoro, alla loro volta effetto di mutamenti nella sfera delle tecniche di produzione. Quale enorme influenza abbia esercitato sui rapporti sessuali la scoperta e la diffusione dei contraccettivi, è inutile sottolineare tanto è smaccatamente evidente.
    Il mutamento più sconvolgente di fronte al quale ci troviamo oggi è indubbiamente quello prodotto dal progresso tecnico, cioè dall’invenzione di macchine sempre più perfette che sostituiscono il lavoro dell’uomo. Gli antichi per giustificare la schiavitù, ovvero la riduzione dell’uomo a strumento, a macchina, erano costretti a ricorrere allo specioso argomento secondo cui vi sono degli uomini schiavi per natura. In sostanza essi dovevano spiegare perché un lavoro brutale, da macchina, dovesse farlo l’uomo (che secondo la classica definizione aristotelica era un animale razionale e come tale diverso da tutti gli altri animali). Ora il lavoro degli uomini-macchina lo potranno fare sempre più delle vere e proprie macchine. Dopo la riduzione dell’uomo a macchina il progresso tecnico di questi ultimi anni ci fa assistere al processo inverso dell’elevazione della macchina a uomo. Tutto questo avviene indipendentemente, ripeto all’insaputa, del potere politico. Furono Saint-Simon e i saint-simoniani i primi a affermare che la vera e grande trasformazione della società avvenuta alla fine del secolo XVIII era stata il prodotto non già di una rivoluzione politica, com’era stata la rivoluzione francese, ma della rivoluzione industriale, i cui creatori erano stati gli scienziati e non i politici. La grande trasformazione che sta cambiando la nostra attuale società, e che prepara la società cosiddetta post-industriale, è l’effetto non di riforme politiche ma di scoperte scientifiche e di mirabolanti applicazioni tecniche. Alla fine del secolo anche Marx credeva che l’umanità fosse entrata nell’era delle grandi rivoluzioni sociali e politiche, e che dopo la rivoluzione borghese una nuova rivoluzione avrebbe fatto passare l’umanità dal regno della necessità al regno della libertà.
    Allargando ulteriormente lo sguardo a ciò che è cambiato dal secolo scorso ad oggi, occorre ancora osservare che dalla fine del Settecento sino allo scoppio della prima guerra mondiale la filosofia della storia era orientata verso l’idea che la specie umana fosse perfettibile, e questo processo verso la perfezione o meglio verso il perfezionamento fosse inarrestabile e irreversibile. Era in altre parole dominata da una concezione progressiva della storia, cioè dall’idea che l’umanità fosse, per usare le parole di Kant, “in costante progresso verso il meglio” (da sottolineare il “costante”). Il mito del progresso è caduto[1]. Oggi non esiste più una filosofia della storia se per filosofia della storia s’intende una risposta positiva alla domanda se la storia abbia un senso e quale esso sia. Affinché si possa dare un senso alla storia bisogna ritenere che la storia abbia una meta prestabilita (la libertà, l’eguaglianza, l’unità del genere umano?) e questa meta prestabilita sia destinata a essere immancabilmente raggiunta. Oggi non vi è più alcun filosofo tanto temerario da pensare che la storia umana abbia una meta prestabilita e che questa meta, posto che ci sia, sia raggiungibile. Caduta è forse definitivamente ogni concezione teologica della storia. La storia va verso… Verso dove? La pace universale oppure la guerra onnidistruttiva? La secolarizzazione integrale oppure la rinascita dello spirito religioso? (Dio è morto oppure è vivo più che mai?). La libertà di tutti o la schiavitù universale sotto nuove e mai viste forme di dispotismo, come quella fantasticata da Orwell?

    (...)



    [1] Rinvio al libro di G. Sasso, Tramonto di un mito (1984), il Mulino, Bologna 1988.
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  2. #62
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    Predefinito Riformismo, socialismo, uguaglianza (1985)

    Insomma, la storia è in costante progresso verso il meglio? E se fosse in costante regresso verso il peggio? Che il riformismo del secolo scorso fosse strettamente connesso a una concezione progressiva della storia è indubitabile. Una visione come quella dell’uomo d’oggi, più problematica, meno sicura di sé, non dico che lo vanifichi, ma certo lo rende meno baldanzoso. Senza contare che l’idea del progresso è sempre stata connessa ad una concezione eurocentrica della storia. La crisi dell’idea del progresso va di pari passo con la crisi dell’eurocentrismo. Nell’idea di progresso il riformismo ha avuto uno dei suoi più potenti alleati. Caduto il mito o, per dirla con Sorel, l’illusione del progresso (ma Sorel era un rivoluzionario o credeva di esserlo), anche il riformismo si trova di fronte a un compito non solo più difficile ma anche dagli incerti risultati. Progressismo e riformismo avevano in comune l’idea della positività del cambiamento: il cambiamento come tale non è né buono né cattivo, ma se la storia procede costantemente verso il meglio, allora il cambiamento è sempre di segno positivo. Che il cambiamento fosse buono e l’immobilità fosse cattiva è stata un’idea entrata prepotentemente nella visione della storia nell’età moderna. Gli antichi ritenevano generalmente che il mutamento fosse cattivo, avevano una visione regressiva della storia. Quando Licurgo diede le leggi a Sparta lasciò la sua città e raccomandò ai suoi cittadini di non mutarle sino a che non fosse tornato e non tornò più.
    Sulla base di questo giudizio positivo sul cambiamento, è sempre stata fatta la distinzione fra il partito dei progressisti e il partito dei conservatori. I conservatori solo coloro che danno un giudizio negativo del cambiamento o per lo meno accettano il cambiamento soltanto se esso è giustificato da buoni argomenti; i progressisti al contrario sono coloro che danno un giudizio negativo della conservazione e l’accettano solo se è a sua volta giustificata da buoni argomenti. Ma, oggi, chi sono i maggiori fautori del cambiamento? Non sono forse proprio i conservatori che considerano lo stato presente del rapporto fra economia e politica nella maggior parte dei paesi democratici in cui è avvenuta una progressiva estensione dei compiti dello stato come un male da correggere, e propongono un ritorno a uno stato precedente alla formazione dello stato sociale? Mi pare indubbio che oggi i maggiori mutamenti siano quelli richiesti e già in gran parte attuati in alcuni paesi neoliberali che chiedono lo smantellamento dello stato dei servizi. Sono costoro che, chiedendo una inversione di rotta, si presentano come i veri propugnatori del cambiamento. Di fronte a questa inversione di rotta non rischiano di apparire nemici del cambiamento proprio i riformatori di un tempo?
    Scusate se insisto su questo punto. Ma è proprio a questo punto che si affaccia con la massima evidenza la crisi della sinistra. E si capisce: la sinistra è sempre stata o rivoluzionaria o riformista. Dopo aver rinunciato alla rivoluzione si è rifugiata nel riformismo. Ora comincia a sospettare che se per riformismo s’intende il partito del cambiamento riformisti sono gli altri. Inutile nasconderselo: assistiamo a un vero e proprio capovolgimento della politica cui la sinistra in tutte le sue forme è sempre stata fedele, e che ha avuto sempre per risultato un accrescimento della sfera pubblica rispetto alla sfera privata. Si può negare che il processo di democratizzazione guidato dalla sinistra è sempre andato di pari passo, intenzionalmente o meno, con un allargamento dei compiti dello stato? Oggi la parola d’ordine dei conservatori si può esprimere tutta quanta in queste due parolette: meno stato. Si può negare che la politica della sinistra abbia avuto per effetto, sempre e ovunque, “più stato”?
    Con questo non voglio dire che non vi sia spazio per un riformismo di sinistra. Voglio dire soltanto che il criterio per distinguere riformatori e conservatori non può più essere quello semplicistico, o che per lo meno oggi apparirebbe semplicistico, dei partiti socialisti del secolo scorso che si definivano partito del cambiamento e del progresso. Ripeto: progresso in che senso, in quale direzione, in nome di che cosa?
    Mi rendo conto che in questa mia riflessione preliminare che io ho concepita unicamente come un’analisi concettuale più che come una proposta, dobbiamo ancora fare un passo avanti. C’è riforma e riforma. E quindi c’è riformismo e riformismo. Dove tutti sono riformisti, nessuno è riformista. E allora il problema si sposta alla domanda veramente cruciale: quali riforme? Siamo proprio sicuri di sapere quali sono le riforme che vogliamo e quali quelle che non vogliamo, quelle che contraddistinguono un partito socialista da quelle che non solo non lo contraddistinguono ma lo contraddicono?
    La risposta a queste domande è tanto più difficile in quanto non mi pare si sia mai riflettuto abbastanza sul concetto stesso di riforma. Siamo sicuri di sapere che cosa s’intende esattamente per riforma? Quando parliamo di riforma siamo sicuri di parlarne tutti nello stesso senso? Siamo sicuri di possedere un criterio qualsiasi per definire riformatore un provvedimento e per distinguerlo da un provvedimento non di riforma? E poiché c’è riforma e riforma, siamo proprio sicuri di possedere un criterio orientativo per distinguere una riforma di sinistra da una riforma di destra?
    Più che una risposta a questa domanda che non sono sicuro di poter dare (ma chi è sicuro?), propongo una ricerca. Si esamini per un certo periodo di tempo – gli ultimi trent’anni, per esempio, dall’inizio del centro-sinistra, che avrebbe inaugurato nel nostro paese il periodo delle riforme cui ha dato il proprio contributo il Partito socialista – quali leggi sono state emanate (ed eseguite) che siamo di comune accordo disposti a considerare leggi di riforma. Si tratta di una ricerca terra terra, empirica, tanto per cominciare. Ma bisogna pur cominciare da dati di fatto, che tutti possiamo avere sotto i nostri occhi e sui quali possiamo imbastire un ragionamento non del tutto campato in aria. Faccio qualche esempio: la istituzione della scuola media e l’estensione dell’obbligo scolastico a otto anni (ora ci stiamo avvicinando a un ulteriore allungamento di due anni); lo statuto dei lavoratori; la riforma del diritto di famiglia; l’introduzione del divorzio e il riconoscimento della liceità dell’aborto se pure entro certi limiti; la chiusura dei manicomi; la liberalizzazione degli accessi all’università; le elezioni scolastiche; la fine del monopolio statale della radio e della televisione. Naturalmente questo elenco è destinato ad aumentare o a essere corretto, col contributo del gruppo di ricerca. Mi si potrà obiettare che un elenco di questo genere presuppone già un criterio di distinzione e quindi un’idea di quel che si debba intendere per riforma. Rispondo che un concetto di riforma non si può dare a priori, e per non involgerci in un circolo vizioso o in un processo all’infinito bisogna cominciare dal senso comune, e soltanto in un secondo tempo l’idea del senso comune può essere convenientemente modificata in base ai risultati di ricerca.
    Una volta compilato l’elenco, con tutte le cautele del caso, occorrerà porsi una prima domanda: hanno tutti questi provvedimenti un minimo comune denominatore? Se sì, quale? È evidente che solo da una risposta a questa domanda possiamo riuscire a dare una risposta alla domanda in che cosa consista una riforma, che è la domanda principale cui siamo obbligati a dare una risposta se vogliamo continuare a parlare di riformismo. Ma che vi pare? Siamo riformisti e non sappiamo metterci d’accordo sul significato di riforma? Bene, a me pare che in una prima approssimazione tutti i provvedimenti che ho citati sopra abbiano un carattere comune: siamo provvedimenti che allargano gli spazi di libertà degl’individui o dei gruppi, e che nella misura in cui allargano questo spazio restringono o limitano lo spazio del potere politico. Ma allora sono riforme liberali? Direi che sono prima di tutto riforme democratiche, intesa la democrazia come l’opposto dell’autocrazia, come quella forma di governo o regime che realizza tanto più la propria natura quanto più allarga la libertà dei governati e restringe il potere dei governanti, mentre il regime autocratico è caratterizzato dalla tendenza opposta.
    Ma una riforma liberale, una riforma democratica, è anche necessariamente una riforma socialista? Gli esempi che ho fatto sono tutti quanti di riforme che sono state o promosse o appoggiate dal Partito socialista: di qua la permanenza della domanda.
    Vediamo un po’: la risposta a questa domanda dipende dalla risposta a una domanda preliminare: libertà di chi? Quando si pone un problema di libertà bisogna sempre porsi preliminarmente due domande: chi è libero e da che cosa è libero. Non esiste in nessun luogo la libertà di tutti da tutto. Ogni libertà è sempre relativa: se aumenta la libertà di uno, sia un gruppo o un individuo, una categoria o una classe, diminuisce la libertà di un altro, sia gruppo, individuo, categoria o classe. La liberazione degli schiavi ha diminuito la libertà dei padroni degli schiavi. Faccio un esempio estremo: la libertà dalla tortura ha diminuito la libertà dei torturatori. Ma l’ideale socialista non è sempre stato, oltre quello della libertà, anche quello dell’eguaglianza? Ebbene: il principio dell’eguaglianza è proprio quello che serva a distinguere la libertà liberale della libertà socialista, beninteso del socialismo liberale, che è quello che ci sta a cuore (giacché esiste anche un socialismo soltanto egualitario e non anche liberale). In che senso? Considero libertà socialista per eccellenza quella libertà che liberando eguaglia ed eguaglia in quanto elimina una discriminazione: una libertà che non solo è compatibile con l’eguaglianza ma ne è la condizione. Riprendiamo alcuni dei nostri esempi: i matti liberati dalle istituzioni totali non solo sono stati resi liberi ma nello stesso tempo sono stati resi più eguali agli altri di quanto fossero prima; una riforma del diritto di famiglia che elimina la potestà maritale rende più libera la moglie e liberandola la rende eguale al marito; la liberalizzazione degli accessi all’università ha tolto nei riguardi dei giovani che avevano fatto le scuole medie superiori una limitazione (li ha liberati) e una discriminazione (li ha eguagliati). (Permettetemi ancora un piccolissimo esempio, ma significativo, che mi è stato suggerito poco fa da un amico: la predella che viene collocata su certe scale per permettere il passaggio degli handicappati con le loro carrozzelle che cosa è se non un mezzo per liberarli da un limite e nel momento stesso per renderli più eguali, o forse soltanto un po’ meno diversi, dalle persone normali?).
    Questo tentativo di individuare riforme che sono insieme liberatrici ed eguagliatrici deriva dalla constatazione che vi sono riforme liberatrici che non sono eguagliatrici, come potrebbe essere ogni riforma di tipo neo-liberale che dà mano libera agli imprenditori per sbarazzarsi dai vincoli che provengono dall’esistenza di sindacati o di consigli di fabbrica, ma nello stesso tempo è destinata ad aumentare la distanza fra ricchi e poveri; e vi sono d’altra parte riforme eguagliatrici che non sono liberatrici, com’è ad esempio ogni riforma che introduce un obbligo scolastico che costringe tutti i ragazzi ad andare a scuola mettendo tutti, ricchi e poveri, sullo stesso piano ma mediante una diminuzione di libertà.
    Richiamo l’attenzione sul tema dell’eguaglianza perché nonostante tutto quello che oggi si dice sull’eccesso di eguaglianza nelle società di massa, e facendo un esempio concreto che ci riguarda tutti, sul livellamento delle retribuzioni che sarebbe stato indotto dalle lotte sindacali degli ultimi anni, il nostro paese è un paese ancora profondamente inegualitario. Non escludo che certe forme esasperate di eguagliamento delle retribuzioni siano da correggere, perché altro è l’ideale dell’eguaglianza, altro l’egualitarismo. Ma è indubbio che una delle grandi molle dell’azione sociale in tutti i tempi e in tutte le società sia la percezione del trattamento diseguale, della discriminazione, in una parola, perché non saprei come altri chiamarla, dell’ingiustizia. Come è altrettanto indubbio che in un paese come il nostro il cammino verso una maggiore eguaglianza è ancora lungo a cominciare dalla più ovvia e più elementare delle eguaglianze, l’eguaglianza di fronte alla legge[1], per passare attraverso all’eguaglianza fiscale e finire all’eguaglianza delle opportunità.

    (...)



    [1] Su questo tema, di solito poco discusso, perché dato per risolto, richiama l’attenzione A. A. Cappiello, Per essere tutti davvero eguali, in “l’Avanti!”, 26 febbraio 1985, supplemento, pp. I-IV.
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  3. #63
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    Predefinito Riformismo, socialismo, uguaglianza (1985)

    Tutto quello che ho detto sin qua mi spinge inesorabilmente alla conclusione che il problema di fronte al quale ci troviamo è di dare una risposta non tanto alla domanda: Quale riformismo? ma alla domanda, su cui si gioca veramente non solo l’identità ma anche il destino della sinistra: Quale socialismo? È mia convinzione, e non solo da oggi, che quel che è in questione in questi ultimi anni dopo la degenerazione dello stato nato della prima rivoluzione della storia condotta in nome del socialismo, e dopo l’attacco alle politiche socialdemocratiche da parte delle correnti neo-liberali, non sia stato tanto il riformismo (anzi, come ho detto, non ci sono mai stati tanti riformisti come ora) quanto il socialismo. Ed è in questione perché, permettetemi di finire con questa perorazione, abbandonando per un momento lo stile analitico seguìto sin qua, sbattuti dal vento impetuoso della crisi delle ideologie abbiamo perso la bussola. No, la stella polare del socialismo esiste sempre, esiste oggi più che mai, soprattutto se si guarda non soltanto ai problemi interni dei paesi sviluppati, ma anche ai rapporti fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo o del tutto sottosviluppati, fra il Nord e il Sud del mondo: questa stella polare si chiama giustizia sociale. Il che vuol dire che un criterio se pure molto generale, da determinare di volta in volta, per distinguere il riformismo socialista da altre forme di riformismo, esiste, anche se oggi si parla spesso, e ne ha parlato anche Claudio Martelli, dal quale potrebbe venirci un chiarimento su questo punto, di equità, più che di giustizia o di eguaglianza.
    Un criterio esiste almeno sino a che vi saranno, e non possiamo negare che vi siano, in Italia e nel mondo, oppressi ed oppressori, prepotenti ed impotenti, i troppo forti e i troppo deboli, i diseguali e i “più eguali” degli altri, i discriminatori e i discriminati, gli affamatori e gli affamati, gli armati sino ai denti e gli inermi, i terrorizzatori (che non sono soltanto i terroristi) e i terrorizzati.
    Un partito socialista ha bisogno per sopravvivere e per guardare con fiducia al proprio avvenire di grandi ideali. Ma non ha bisogno d’inventare nulla. Ha bisogno soltanto di restare fedele alla propria storia.

    Poscritto
    Nel discorso conclusivo del convegno Martelli ha ampiamente risposto alla mia richiesta di chiarimento. Cito dall’ “Avanti!” del 3-4 marzo. Dopo aver fatto esempi di provvedimenti egualitari che hanno prodotto effetti inegualitari, conclude parlando dei “paradossi dell’egualitarismo”. Quindi spiega che “l’equità non è un annacquamento dell’eguaglianza. È un concetto diverso. Il concetto di equità è molto più vicino al concetto di giustizia, all’idea di una bilancia, di uno sforzo di equilibrio che, dunque, tiene conto delle condizioni date, tiene conto delle differenze individuali di merito, tiene conto delle diversità, tiene conto della complessa anatomia sociale nella quale oggi viviamo. Il concetto di equità è molto più vicino al concetto di giustizia sociale che non al concetto di eguaglianza. L’equità suppone una bilancia. L’eguaglianza richiama l’idea di un livellamento, di una pianurizzazione dei meriti e dei bisogni. Ora questo livellamento non è più utile e non è più giusto”. Continuando indugia nella critica all’egualitarismo: “L’eguaglianza, non come valore – per ciò stesso assoluto – ma nella sua versione conosciuta in termini di statalismo, assistenzialismo, egualitarismo, è divenuta una fonte di iniquità che penalizza innanzitutto la povera gente e chi sta davvero peggio. Quindi d’accordo sulla stella polare della giustizia sociale, ma attenzione a una sua traduzione regressiva in termini egualitaristici che oggi sarebbero vissuti malamente innanzitutto proprio dai suoi ipotetici beneficiari e destinatari sociali”.
    Ho riportato brani testuali del discorso di Martelli per mostrare che il nostro dissidio è apparente perché il bersaglio di Martelli è l’egualitarismo, cioè l’ideale dell’eguaglianza assoluta, e non la giustizia sociale (o l’equità) della quale soltanto ho io stesso parlato, facendo esempi di provvedimenti che hanno introdotto un’eguaglianza relativa tra diseguali e non un’eguaglianza assoluta[1]. Il termine “eguaglianza” di per se stesso considerato non significa nulla se non si specifica di volta in volta eguaglianza tra chi e rispetto a che cosa. Per fare un esempio, l’estensione del suffragio alle donne significa parificare le donne maggiorenni agli uomini (tra chi) nel diritto di voto (rispetto a che cosa). Tenendo conto di questi due criteri, si può allora definire l’egualitarismo l’ideale dell’eguaglianza assoluta, come la dottrina che si propone di stabilire l’eguaglianza di tutti in tutto (ideale chiaramente velleitario), che né la stragrande maggioranza dei movimenti socialisti (e tanto meno Marx), né io abbiamo mai sostenuto. Per regola o norma egualitaria, di qua probabilmente è nato l’equivoco, s’intende di solito una norma o regola che eliminando una discriminazione introduce un rapporto di eguaglianza là dove prima vi era un rapporto di diseguaglianza. Ma introdurre un’eguaglianza là dove c’era prima una diseguaglianza non significa affatto perseguire l’astratto ideale dell’egualitarismo ma unicamente fare opera di giustizia (o d’equità), se in quel determinato momento storico e in quella determinata società quella determinata diseguaglianza è percepita come odiosa ed è percepita come odiosa perché il criterio che consentiva la diseguaglianza (per esempio il fatto di essere donna rispetto al diritto di voto) è diventato da rilevante a irrilevante[2].


    Norberto Bobbio



    [1] Ho avuto occasione di tornare più volte su questo argomento. Permettetemi di citarmi: Eguaglianza ed egualitarismo, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, LIII, 1976, pp. 321-30; voce Eguaglianza, nella Enciclopedia del Novecento, 1977, vol. II, pp. 355-64; Quale eguaglianza?, in “1999. Italia”, rivista trimestrale del Club dei Club, I, 1983, n. 2, pp. 9-12.

    [2] Per un’analisi di ciò che s’intende per norma egualitaria rinvio a F. E. Oppenheim, Concetti politici, il Mulino, Bologna 1985, pp. 127-61.
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  4. #64
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    Predefinito Re: Norberto Bobbio - Scritti e pensieri sul socialismo

    L’occasione da cogliere (1989)




    “MondOperaio”, a. 42, n. 5, maggio 1989, pp. 4-5. Intervento nel dibattito per la preparazione del XLV Congresso del PSI (Milano, 13-16 maggio 1989).


    Confesso di non trovarmi molto a mio agio nel dover rispondere all’invito di “MondOperaio” che mi è stato rivolto a dire brevemente che cosa mi aspetto dal prossimo Congresso del partito. Prima di tutto perché ho scarsissima familiarità con questo genere di riunioni. L’unico Congresso politico cui ho partecipato in vita mia è quello del PSI a Torino, più di dieci anni fa, ma non ho preso la parola. In secondo luogo, lo spettacolo che hanno dato i recenti Congressi, a cominciare da quello della Democrazia cristiana, svoltosi tra fischi e applausi, con troppi primi attori per recitare su di una trama prestabilita, non sono stati molto entusiasmanti. Il Congresso è il luogo dove di solito viene eccitato ed esasperato il patriottismo di partito, cioè lo spirito di unità, spesso fittizia, all’interno, e viene nello stesso tempo fomentato lo spirito di divisione all’esterno. Un bell’esempio di questo spirito di corpo è stato il Congresso socialdemocratico: unirsi a tutti i costi al di dentro per distinguersi a tutti i costi al di fuori. Non dico che lo spettacolo che danno altri Congressi in altri paesi sia molto diverso: penso alle bandierine sventolanti, alle magliette con le scritte, ai palloncini che salgono in cielo, dei Congressi americani. Ma dove i partiti sono due o tre, tale spettacolo, per quanto monotono, è ancora sopportabile. Dove sono, come in Italia, una dozzina, finisce, specie se ripetuto come sta accadendo quest’anno a brevi intervalli, di essere un po’ noioso, e per chi sta a guardare e non è toccato dal contagio della partecipazione diretta, anche un po’ deprimente. Si tenga presente che gli spettatori sono di gran lunga più numerosi degli attori.
    Non faccio questa osservazione a caso. In realtà esprimo un mio desiderio. In un paese come il nostro in cui ci si trova di fronte a una situazione senza eguali, assurda per non dire grottesca, della coesistenza di due partiti socialisti riformisti, cui si aggiunge la presenza imponente di un Partito comunista che da anni si dichiara anch’esso riformista e si comporta praticamente come tale, spetta al Partito socialista sia per la sua storia sia per la sua collocazione nel sistema politico sia per la sua forza elettorale in crescita, il grande compito di ricomporre le membra sparse del corpo lacerato da un secolo di guerre fratricide e da una rivoluzione che ha diviso il mondo in due blocchi contrapposti. Un compito difficile ma meritevole di essere perseguito con tenacia, con intelligenza, con lungimiranza. Mi è piaciuta la proposta di guardare al traguardo del 1992, quando si compirà un secolo dalla fondazione del Partito socialista italiano, come a un’occasione che ci permette di tornare al punto di partenza unitario, per fare una riflessione storica complessiva al di là di tutte le divisioni storiche che hanno ormai fatto il loro tempo. Come non ricordare che il Partito socialista, rimasto unito per tanti anni, ebbe la maggioranza relativa, per la prima volta nella storia, dopo la prima guerra mondiale, e che, se fosse stato ancora unito, l’avrebbe avuta anche dopo la seconda? Capisco benissimo che le analogie storiche sono pericolose e che la storia non si ripete. Ma quale lezione ci hanno impartito i fatti, i nudi fatti, se fossimo stati capaci di ascoltarla? Ma dovremo pure ascoltarla una buona volta se dobbiamo affrontare con maggior forza la sfida di coloro che vorrebbero cancellare ogni vestigia del passato. E come non riflettere sul fatto che la forza della Democrazia cristiana è la conseguenza, e potrà esserlo ancora nel futuro, della nostra debolezza?
    Il Partito socialista può svolgere questo compito di rappacificazione e quindi di ricomposizione, compito che è principalmente suo, mi pare, ad una condizione: che abbia tanta saggezza da orientare il dibattito su quello che ci unisce, ed è molto, moltissimo, starei per dire che non è mai stato grande come oggi, più che su quello che ci ha diviso. Il patriottismo di partito, d’accordo. Ma con giudizio. Non ho fatto un mistero in questi ultimi tempi di essere in totale disaccordo rispetto alle requisitorie antistaliniane, antitogliattiane, antisovietiche in genere, alle recriminazioni, alle proscrizioni, ai reiterati processi in effigie, alle condanne di una storia terribile, da cui siamo peraltro usciti vittoriosi. Posso anche capire che non riesca a resistere alla vista della danza macabra di quegli ossi chi assiste ogni giorno divertendosi ai nostri minuetti quotidiani. Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra. Posso dire in coscienza di non essere mai stato stalinista. Permettetemi la civetteria di ricordare il lungo articolo che scrissi per “Nuovi Argomenti” subito dopo il famoso discorso di Krusciov, dove raffiguravo Stalin come la reincarnazione del tiranno nel senso classico della parola. Ma non mi è mai passato per la mente di scagliare anche il più piccolo sassolino quando fosse destinato non a formulare un giudizio storico ma ad alimentare una rissa politica.
    Patriottismo di partito, ma non settarismo. Amore del proprio partito, ma senza facinorosità, che è sempre indizio di debolezza, senza animosità verso coloro che furono i nostri compagni di ieri (o abbiamo dimenticato la guerra combattuto insieme contro il nemico comune?) e saranno, dovranno essere, se vogliamo guardare lontano, i nostri fratelli di domani, possiamo sperare che negl’interventi del prossimo Congresso si conceda meno spazio alle liti di famiglia, magari rinunciando a un facile applauso, e più alle cose da fare insieme, per dar vita finalmente ad un’alternativa? meno alla scoperta e alla denuncia delle colpe altrui e più al riconoscimento dei nostri errori, al proposito, quanto nobile, magnanimo, degno di una grande tradizione, com’è quella del socialismo europeo, di emendare prima di tutto noi stessi?
    Naturalmente bisogna volare alto, perché soltanto volando alto ci si può accorgere di quanto grande sia il territorio comune. Restando a terra non si riesce a vedere neppure al di là del muro che ci separa dal nostro vicino. Per volare alto bisogna prima di tutto credere nel socialismo. Beninteso, nell’unico socialismo possibile e credibile dopo il fallimento del socialismo senza libertà. Che è il socialismo concepito come naturale sviluppo della tradizione liberale, come la condizione necessaria, secondo quel che ebbe a dire più volte Calamandrei, dell’attuazione degli stessi ideali liberali. Su questo punto non ho nulla da aggiungere a ciò che costituisce, non da ora, ma sempre più chiaramente e coscientemente in questi ultimi anni, l’orientamento attuale del Partito socialista italiano, che ha ripreso il motivo ideale del Partito d’azione, richiamato da Claudio Martelli a conclusione del recente convegno su etica e politica.
    Per volare più alto, lo ripeto ancora una volta a costo di apparire noioso, mi pare che non sia né molto saggio né molto utile presentarsi come il partito della modernizzazione. Non ho nulla contro la modernizzazione del nostro stato se s’intende maggiore efficienza. Ma allora si dica più correttamente che la spaventosa inefficienza dei nostri servizi pubblici, contro cui urta continuamente la povera gente (i “signori” hanno sempre la possibilità di aggirarla), è una fonte inesauribile di vessazioni, di discriminazioni e d’ingiustizie. L’efficienza di un’impresa può produrre maggiore benessere. L’efficienza dei servizi pubblici può correggere lo stato endemico d’ingiustizia pervicace, recidiva, invincibile, che caratterizza in Italia il rapporto fra pubblici poteri e cittadini. La modernizzazione in quanto tale può essere un bel programma per un governo di tecnocrati. Un governo di socialisti combatta le ingiustizie. Si occupi pure di rendere lo stato dei servizi più efficiente. Ma non perché è più moderno, perché è più giusto.
    Volare alto, ho detto, perché più si sale più si allargano gli orizzonti. E più si allargano gli orizzonti, meno ci si rinchiude e ci s’immeschinisce nelle dispute di schieramenti e di confine, che tra l’altro si svolgono di fronte al crescente disinteresse, per non dire al fastidio, del pubblico. Se si guarda al di fuori delle nostre mura, e si spinge lo sguardo verso i problemi del Terzo mondo, ci si rende sempre più conto che, contrariamente a quello che dicono da tempo gli avversari, la storia dell’idea socialista, cioè dello sforzo di rendere giustizia, è appena cominciato. Il che vuol dire che nell’attuale momento storico, in cui i problemi sociali sono diventati i problemi non di questo o quel gruppo all’interno di uno stato, ma di tutti gli uomini, il compito dei socialisti è enorme, anzi non è mai stato grandioso come oggi. Mi auguro che il prossimo Congresso del PSI sia il Congresso dell’apertura verso le grandi mete, non della chiusura dentro gl’interessi di gruppo. Solo così sarebbe finalmente un Congresso diverso da quelli cui abbiamo assistito in questi giorni, e dai quali ho preso lo spunto per rispondere al cortese invito di “MondOperaio”.


    Norberto Bobbio



    https://www.facebook.com/notes/norbe...2467149463358/
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 
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