Morire da terremotati in un container

La storia di Giuseppe Scannavini di Mirandola, che col sisma del 2012 in Emilia aveva perso la casa. Ha lottato quattro anni contro la burocrazia. La vedova: «Si è ammalato per il dolore»di Valentina Corsini
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13 gennaio 2016







MIRANDOLA. Morire in una baracca, in un container, dopo avere combattuto inutilmente per anni con la burocrazia, per poter riavere la propria casa terremotata.
La situazione. Nel nostro viaggio attraverso le campagne della Bassa modenese colpita dal sisma del 2012, sono ancora troppe le famiglie che vivono all’interno di qualche struttura provvisoria, di una roulotte, di un camper o di altre sistemazioni di fortuna, impossibilitate a rientrare nelle loro case. E capita che tra le molte voci che chiedono di essere ascoltate, tra tanta indifferenza, si raccolgano storie. Storie inaccettabili, fatte di un vizio di forma che nega per sempre la possibilità ad un uomo di rimettere piede nella sua casa, costruita con i sacrifici di una vita.
Vittime della burocrazia. Storie drammatiche, come quella di Giuseppe Scannavini, pensionato 83enne originario di Mortizzuolo di Mirandola. Dopo 4 anni di attesa, di promesse mancate e cavilli burocratici, un cancro fulminante se l’è portato via qualche settimana fa, togliendogli così il più normale dei sogni di un terremotato dell’ormai lontano 2012: “riabbracciare” casa sua. A difendere quel sogno oggi restano la moglie 71enne Ivana e il figlio 42enne Mauro.
Il racconto. Ma morire non basta, evidentemente: ad oggi, l’abitazione dei coniugi Scannavini in via Cazzuola, è prigioniera di una pratica denominata in gergo tecnico "Mude" da 72mila euro, che il Comune non riesce proprio a sbloccare. «Papà si è ammalato per i tanti dispiaceri dovuti ad un’attesa così lunga – si sfoga sconsolato il figlio Mauro - il suo unico desiderio era rientrare in casa insieme a mia madre, invece la malattia ce l’ha portato via in poco più di un mese. I miei genitori hanno fatto gli agricoltori per una vita, ma una volta andati in pensione, avevano chiuso la partita iva. Cosa che però in Comune non risulta, così per un cavillo ci viene negato di usufruire dei 72mila euro a cui avremmo diritto per sistemare in parte la casa. Una cifra che comunque non risolverebbe il problema, perché l’abitazione è di più di 300 metri quadri e per i danni che ha subito, servirebbero in tutto 130mila euro. E con uno stipendio da operaio come il mio, aggiungiamo pure i 400 euro al mese di pensione di mia madre, ma non riusciamo ad ottenere nemmeno quei 72mila euro che ci spettano, come facciamo anche solo a pensare di rientrare in casa nostra? Ormai siamo rassegnati».
Dolore, lacrime e rabbia. Una rassegnazione quella della famiglia Scannavini, che va avanti da quel maggio, e che costringe ancora oggi Ivana, vedova di Giuseppe, a vivere tra un container e uno stabile adibito a lavanderia, riadattato giocoforza in questi anni ad abitazione di fortuna. «I primi mesi dopo il terremoto, io e mio marito li abbiamo passati tra tenda e roulotte – afferma Ivana - poi abbiamo riadattato la lavanderia a cucina, e il container, arrivato nel 2013 grazie all’Associazione agricoltori, a camera da letto e bagno. Dopo 4 anni, il dolore per non essere rientrati in casa nostra, ha fatto ammalare e infine morire mio marito. Perchè il dolore, le preoccupazioni, a una certa età hanno un peso essenziale. E come se non bastasse, pochi giorni dopo il suo funerale, i ladri mi hanno saccheggiato il


container». Già, gli sciacalli che in più di una occasione, anche di recente a San Biagio e Mirandola capoluogo, hanno preso di mira i terremotati. «Ma quello che fa più male in assoluto, è essere derubata della speranza di riavere casa mia», chiude Ivana, mentre il dolore le bagna gli occhi.Tags

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e questa è l'italia. un paese in cui si regalano le case agli zingari.