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    Predefinito seminario economico di Sinistra Italiana

    giro il link del seminario economico tenuto da sinistra italiana, un po' lungo ma interessante
    http://sinistraitaliana.camera/wp-co...-Seminario.pdf

  2. #2
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    Predefinito Re: seminario economico di Sinistra Italiana

    SEMINARIO DI SINISTRA ITALIANAECONOMIA E POLITICA IN EUROPA.VINCOLI, CONTRADDIZIONI, CONFLITTISi presentano di seguito i materiali del primo seminario organizzato da Sinistra Italianasul tema Economia e politica in Europa. Vincoli, contraddizioni, conflitti, che si è tenuto a Romail 4 dicembre 2015. La trascrizione tratta dalle registrazioni salvo dove diversamente indicato èstata riveduta dagli autori.

    pag 1 Arturo Scotto
    pag 2 Carlo Galli
    pag 7 Massimo D'Antoni
    pag 13 Emiliano Brancaccio
    pag 15 Alberto Bagnai
    pag 18 Geminello Pretirossi
    pag 20 Sergio Cesaratto
    pag 22 Angelo Marano
    pag 23 Fabio Vander
    pag 25 Roberto Valle
    pag 28 Piergiorgio Gawronski
    pag 30 Paolo Borioni
    pag 31 Andrea Staiti
    pag 33 Alfredo D'Attorre
    pag 36 Davide Tarizzo
    pag 37 Stefano Fassina
    pag 39 Claudio Bazzocchi
    pag 41 Antonio Rinaldis
    pag 43 Francesco Prota
    pag 44 Luciano Barra Caracciolo
    pag 47 Salvatore Cingari
    pag 49 Marco Marzano

  3. #3
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    Predefinito Re: seminario economico di Sinistra Italiana

    Brancaccio
    Condivido l’opinione di Galli secondo cui, se si vuol scongiurare il rischio imbarazzantedi fare solo del “giornalismo”, occorre cercare di analizzare il presente andando un po’ indietrocon la memoria. Accolgo quindi la sua esortazione a storicizzare i problemi di fronte aiquali ci troviamo.Prendo spunto dai recenti, tragici avvenimenti in Francia. L’attacco terroristico alla redazionedi Charlie Hebdo avvenuto all’inizio dell’anno e i più recenti attentati verificatisi invarie zone di Parigi, hanno rafforzato una tendenza che viene da lontano, e che da diversi annivede la geopolitica francese fortemente orientata verso una logica di interventismo militare.Oggi, dopo la barbarie terroristica, il governo socialista sembra adattarsi all’interventismo intermini del tutto acritici, per certi versi persino entusiastici. Questo fenomeno, beninteso, nonriguarda solo i socialisti francesi e non è affatto inedito. Per certi versi, esso richiama alla memorialo spettro della Seconda Internazionale, le istanze belliciste che la attraversarono e checondussero l’Europa intera verso l’abisso della guerra.Pur con tutti i suoi evidenti limiti, l’analogia storica che qui suggerisco mi sembra utileper chiarire un punto che reputo decisivo. Beninteso, io sono soltanto un distratto osservatoreesterno della politica corrente e qui sono un mero ospite. Ciò nonostante, vorrei sottoporrealla vostra attenzione un convincimento: tutte le formazioni che coltivino oggi il propositoambizioso di costruire una credibile ipotesi politica “di sinistra” dovrebbero considerare il ripudiocostituzionale della guerra come un caposaldo logico della loro azione. Scontata fino aqualche tempo fa, questa precisazione oggi risulta purtroppo non del tutto ovvia e quindi tantopiù doverosa.Se su questo punto si è tutti d’accordo, allora penso sia interessante sollevare un interrogativoche oserei definire “scientifico”: è possibile fondare il ripudio della guerra anche subasi analitiche? È possibile cioè supportare una posizione pacifista con argomenti ulteriori rispettoa quelli etico-morali, tipici dei movimenti per la pace? Per rispondere a questa domandavorrei suggerire una possibile linea di collegamento interdisciplinare tra gli stimolanti contributidi D’Antoni e di Galli a questa discussione. Penso, a tale riguardo, che sarebbe opportunoun lavoro collettivo finalizzato a evidenziare l’esistenza di una relazione empirica tra quelliche gli economisti chiamano gli squilibri di bilancia dei pagamenti verso l’estero da un lato, aiquali ha accennato D’Antoni, e quelle che potremmo definire le dinamiche dell’imperialismodall’altro, su cui si è soffermato Galli. Oggi si tende ad analizzare le due problematiche in terminiseparati l’una dall’altra. Eppure gli esempi dell’esistenza di connessioni tra di esse esistono.Basterebbe ricordare i problemi strutturali di bilancia dei pagamenti che contraddi-stinguevano la ex Jugoslavia e le dinamiche che segnarono il suo andamento dopo la fine dellaguerra fredda e l’inizio della guerra nei Balcani. Oppure, più di recente, potremmo ricordare lasituazione di bilancia dei pagamenti che caratterizzava l’Ucraina alla vigilia della crisi geopoliticache oggi la vede protagonista. Ancora più indietro, potremmo citare lo stato delle bilancedei pagamenti e degli squilibri esterni alla vigilia della Prima guerra mondiale, peraltro sottogold standard, un sistema per più di un verso simile all’attuale eurozona. Infine, potremmo citarei nessi tra i vari tentativi di ritorno al gold standard e la deflazione che contribuì a crearecondizioni favorevoli allo scoppio del Secondo conflitto mondiale.Questo studio collettivo, che personalmente auspico, aiuterebbe anche a disvelare unadelle tante mistificazioni che contraddistinguono il dibattito politico corrente, purtropposempre più basso e volgare. Mi riferisco alla mistificazione secondo cui, per esempio, l’uscitadall’euro in sé sarebbe produttrice di guerra. La definisco una mistificazione non perchéescluda che un cedimento dell’attuale eurozona possa inscriversi lungo un sentiero di crescenticonflitti tra nazioni, ma perché essa rimuove un’evidenza documentata che rende ilproblema delle determinanti della guerra ben più complesso. Basti notare, come abbiamo accennato,che i regimi monetari ispirati al gold standard sono storicamente risultati essi stessiforieri di guerra. Letta in quest’ottica, la sopravvivenza dell’eurozona e la deflazione che neconsegue potrebbero in realtà favorire le tendenze al bellicismo, anziché contrastarle.Naturalmente, come ha osservato pure D’Antoni, se in una sede politica si discute dellaeventualità di implosione dell’attuale assetto dell’area euro, si pone inevitabilmente il problemadi definire l’arco di tempo in cui possa effettivamente verificarsi un esaurimentodell’Unione monetaria. Non è facile dare una risposta scientifica rigorosa a questo difficile interrogativo.Date le migliori conoscenze attualmente disponibili, gli economisti sono capaci diindividuare la direzione di certi processi, mentre appaiono molto più in difficoltà nel precisarela velocità dei medesimi. Io sono tra coloro i quali hanno affermato che le attuali istituzionidell’Unione non sono in grado di affrontare il problema della insostenibilità degli assetti bancari,e che questa inadeguatezza potrebbe rivelarsi fatale per la sopravvivenza dell’attuale eurozona[1]. Aggiungere però rilievi sul momento preciso in cui i nodi di tale insostenibilitàgiungeranno al pettine è più complicato: diciamo che potrebbero arrivare molto prima diquanto si immagini in seno alle istituzioni.Ad ogni modo, io credo che la questione più importante, in una sede come questa, consistanel domandarsi in quali condizioni politiche arriveremo all’appuntamento della prossimacrisi bancaria ed economica. Come arriveremo a quell’appuntamento? Da questo punto divista, dobbiamo ancora una volta riconoscere che sussiste un drammatico ritardo delle sinistreeuropee. Io insisto nel ritenere che, nel momento in cui sopraggiungesse una nuova crisidell’euro, la soluzione egemone potrebbe esser quella contenuta nei documentidell’eurogruppo, che è stata talvolta definita “piano Schäuble”. Per farla breve, quella diSchäuble è la soluzione ideale per i creditori. Essa ammette un sostegno finanziario, al limitepersino una ristrutturazione dei debiti, a favore dei Paesi che eventualmente decidessero diuscire dall’euro e che avessero bisogno di coprire il proprio disavanzo estero. La condizioneposta da Schäuble per il sostegno, però, è che tali Paesi dovranno rinunciare a ridenominare iloro debiti in valuta nazionale deprezzata. Questa ipotesi, messa a verbale nei documentidell’eurogruppo ai tempi della crisi greca, rischia di diventare il nuovo mainstream per tutti iPaesi in difficoltà nel momento in cui la situazione dovesse precipitare. Sarebbe una catastrofe.Il “piano Schäuble” non è tuttavia l’unico in campo. In competizione con esso per laconquista dell’egemonia politica vi è l’ipotesi delle destre estreme, che fanno della lotta agliimmigrati la ricetta contro tutti i mali e che portano avanti una linea generale che si può racchiuderenello slogan «usciamo dall’euro ed entriamo in guerra santa». Infine, ancora peggio,potremmo ritrovarci di fronte a una sintesi perversa di queste due opzioni: una sorta di xeno-fobia liberista, così potremmo definirla. Sarebbe un’eventualità funesta, di cui già oggi avvertiamoalcuni segni premonitori. Credo sia responsabilità delle sinistre se si rischia di giungereall’appuntamento della prossima crisi in queste condizioni politiche.Incunearsi in questa consolidata lotta per l’egemonia con proposte progressiste èun’impresa ardua, a questo punto forse disperata. Eppure un potenziale spazio politico esiste.Coltivare quello spazio significa, a mio avviso, affrontare alcune palesi contraddizioni interneall’assetto dell’Unione, che si palesano dinanzi ai nostri occhi ma che risultano ad oggi largamentetrascurate. Per indagare su di esse, credo che occorra partire da alcuni interrogativicruciali. Per esempio: è possibile immaginare una piena libertà di movimento dei capitali eduna liberalizzazione commerciale senza freni da e verso Paesi che accumulano surplus versol’estero a colpi di deflazione, in particolare di deflazione salariale? Io dico di no. [2] Penso chequesta sia una questione chiave, intorno alla quale si avverte l’esigenza di un lavoro collettivo.Tutte le forze progressiste, in Italia e in Europa, se intendono recuperare i loro ritardi farebberobene ad aprire una riflessione in merito.

  4. #4
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    Predefinito Re: seminario economico di Sinistra Italiana

    Bagnai
    Le due relazioni iniziali hanno fugato i miei timori che si fosse ancora a quattro anni fa.Massimo D’Antoni ha esordito dichiarandosi immune da narcisismo. Per differenziarmi, esordiscocon una overdose di narcisismo, ricordando che la lista di errori politici compiuti negliultimi quattro anni, da lui puntualmente elencati, era nei miei scritti degli ultimi anni − comeFassina e D’Attorre sanno. Da Hollande a Tsipras, non c’è stata “svolta” nella quale la sinistracritica abbia riposto speranze della quale non mi sia toccato l’ingrato compito di denunciare inanticipo, e invano, l’inconsistenza e l’inevitabile fallimento. Inevitabile, lo sottolineo, per motivinon soggettivi ma oggettivi (l’ordinamento europeo), e quindi, in quanto tali, accessibili alloscrutinio di tutti e di ciascuno. Mi riempie quindi di amarezza il constatare che si sia persotanto tempo, un tempo prezioso che − come Brancaccio e Cesaratto, fra gli altri, avevano pertempo evidenziato − è stato regalato alla destra.Alla domanda «Che cosa è l’euro?» fatta da Galli, esiste una risposta sintetica e in sintoniacon le radici della sinistra italiana (con le minuscole, per non escludere nessuno): l’euro èun progetto di deflazione salariale, come disse Luciano Barca nel 1978 in una direzione delPci. L’euro quindi non è una cosa intrinsecamente di sinistra.Sul punto sollevato da Galli, quando si chiede perché le tensioni stiano esplodendo quied ora, sono molto lontano dai miei colleghi economisti, caratterizzati da un atteggiamento dipervicace negazione della storia − ovviamente, esclusi i presenti. Da un punto di vista culturalequesto atteggiamento si manifesta nel tentativo di trasformare l’economia da scienza socialee politica in scienza «naturale». Qui siamo tutti consapevoli di questo processo, abbiamoalmeno un’infarinatura di pensiero marxista (come me), quando non profonde radici marxiste,e capiamo quindi che la negazione della dimensione storica e politica delle scienze socialiè, ovviamente, la linea di attacco del liberismo. Ma la sinistra, purtroppo, è spesso stata supinarispetto a questa linea. Dobbiamo allora chiederci con urgenza: perché? Perché studiosi diestrazione marxista, che in quanto tali non dovrebbero sminuire il ruolo dell’economia nelladinamica dei processi storici e politici, sono stati condotti, per una strana eterogenesi dei fini,ad avallare e far proprio un progetto che è intrinsecamente liberista?Sì, la cosiddetta «Europa» (cioè l’ordine sociale delineato dai Trattati europei) è intrinsecamenteliberista, e per rendercene conto basta guardare i suoi due fragili pilastri − Schengene Maastricht. Cosa sono questi Trattati, in termini di struttura economica? Schengen è lalibera mobilità del lavoro, Maastricht è la libera mobilità del capitale, imposte peraltro con attivelleitari e simbolici, senza creare le condizioni effettive per una loro realizzazione ordinata econcreta. Dal punto di vista ideologico, questi due Trattati sono un atto di fiducia sterminatanella capacità autoequilibrante del mercato. Solo chi è intrinsecamente liberista può pensareche un progetto simile si regga in piedi. La sua stabilità poggia logicamente sull’ipotesi che imovimenti di fattori produttivi siano necessariamente riequilibranti. Un’illusione dalla quale,peraltro, Brancaccio − tanto per nominare un collega presente − da anni ci mette in guardia,riferendosi al mercato del lavoro, rispetto al quale delinea il rischio di «mezzogiornificazione».A che cosa si riferisce? Al fatto che i movimenti del fattore lavoro possono essere intrinsecamentedestabilizzanti, e questo per almeno due motivi: il primo è che determinano unaselezione avversa nei riguardi delle aree deboli, dalle quali nell’urgenza della crisi se ne va solochi può andarsene (cioè solo chi è più qualificato); il secondo, connesso al primo, è chel’emigrazione aggrava la crisi di domanda nel Paese debole, perché chi lo abbandona portacon sé la propria busta paga, mentre chi resta, generalmente, ha una busta paga più leggera(essendo meno qualificato).Se l’euro è un progetto liberista, fondato sulla fiducia nel potere allocativo e riequilibrantedel mercato, ed è quindi in re ipsa un progetto negatore della rilevanza e della stessaesistenza del conflitto sociale, cioè della ragion d’essere della sinistra e dei suoi sindacati, perchéla sinistra lo ha accettato? Le risposte a questa domanda sono di ordine sociologico, storico.Non posso darle io. Posso e devo sottolineare però l’urgenza di darle, al fine di ristabilireun rapporto sano fra gli intellettuali di sinistra e le classi sociali delle cui istanze pretendonodi farsi portatori.Fatta chiarezza su questo punto, cioè sulla matrice ideologica liberista del progetto europeo,possiamo tornare alla domanda di Galli: perché le sue contraddizioni esplodono qui eora? Nella ricchissima relazione di Galli è contenuta una riflessione su quale sia la geografiaottimale di un ipotetico spazio politico europeo. Temo che, rivendicando l’euro e l’Europa, lasinistra abbia difeso uno spazio politico che non ha senso, se non come segno lancinante dellasubalternità europea agli interessi atlantici. Rispetto a questi ultimi io non evocherei tanto laNATO (senza disconoscerne l’ovvia rilevanza politica), quanto il TTIP, il cui fulcro è la possibilitàper le multinazionali di chiamare in causa uno Stato sovrano, per piegare la sovranità popolareagli interessi economici. Possiamo quindi scordarci l’ipotesi un po’ onirica di una «Europadei proletari uniti nella lotta contro il capitale transnazionale», insomma, parafrasandoun noto slogan pubblicitario, l’idea che «per lottare contro un grande capitale ci vuole unagrande Europa». La «grande Europa» si sta rivelando giorno dopo giorno per quello che è: uncentro decisionale opaco più facilmente infiltrabile dalle lobbies. Forse potremmo anche cominciarea dire a porte aperte quello che ci siamo detti tante volte a porte chiuse – in particolarecon Fassina: è stato fatto un errore, e adesso giriamo pagina.I punti sollevati sono tanti, ne seleziono alcuni.«Se ci fosse una strada politica per l’uscita dall’euro, i vantaggi supererebbero i costi» −dice D’Antoni. Concordo, ma d’altra parte rilevo che forse non è chiaro cosa determinil’urgenza dell’uscita, ovvero il fatto che, come la Grecia dimostra, dentro l’euro non c’è spazioper la politica – dato, questo, ben chiaro a Fassina.Il problema della posizione secondo cui «l’euro è sbagliato, ma ce lo teniamo» è che essa,come è stato detto, è intrinsecamente debole, in particolare quando sostenuta da sinistra.Come ho sentito dire spesso a D’Attorre, con cui concordo totalmente, questo atteggiamentorischia di far apparire la sinistra come la parte che, dopo aver difeso una cosa che sapeva essereerrata, si candida con inusitata arroganza a gestire per una sorta di diritto divino il «dopo»,avendo con conclamata incompetenza e malafede fallito nel gestire il «prima». Questoespone la sinistra alle bordate delle varie Leghe e dei vari Fronti nazionali.Il modello sociale europeo − evocato da D’Antoni − esiste: è l’ordoliberismo. Ma, attenzione,l’ordoliberismo non è un modello di controllo dei prezzi: è un modello di compressionedei salari. Si torna al punto dal quale siamo partiti, e, se interessa, segnalo che in Germaniaormai c’è piena consapevolezza di questi aspetti, una consapevolezza trasversale, che va dalcollegio degli esperti della Merkel (valga il recente intervento di Peter Bofinger su voxeu.org),agli economisti legati alla Linke (suggerisco di vedere l’intervento di Heiner Flassbeck al convegnoEuro, mercati, democrazia 2015, disponibile sul sito di asimmetrie.org).Poi c’è un grande classico: «Senza Germania e USA dove si va?». Faccio una riflessionefulminea, accettando il rischio che sia riduttiva, – diciamo da economista, per far contenti icolleghi di altri settori. Sfugge a molti una contraddizione messa in evidenza già nel Tramontodell’euro. La trazione tedesca del progetto europeo ci sta portando in rotta di collisione con gliUSA. Perché? Perché nonostante l’Eurozona sia oggi la più grande potenza esportatrice mondiale,essa, per tenere insieme i cocci di un’area valutaria disfunzionale, è costretta a svalutare,mettendo in difficoltà economiche la potenza militare egemone. Senza QE e svalutazionedell’euro, si argomenta, le tensioni fra Nord e Sud dell’Eurozona si sarebbero acuite. Non sonodel tutto d’accordo con questa rappresentazione dei fatti, ma la dinamica che essa evidenziaperò è oggettiva e chiara: l’euro, che doveva prevenire guerre valutarie fra noi europei, sta diventandolo strumento con il quale facciamo la guerra valutaria a una potenza che sarebbemeglio non infastidire. È un totale assurdo politico.Ottimo D’Antoni nella sua riflessione sulle dimensioni ottimali di uno Stato. Una riflessioneperaltro trasversale: già Alesina nel 1997 evidenziava come nel mondo della globalizzazionele piccole dimensioni premiassero rispetto alle grandi. Qui a Roma dovremmo sapereche gli imperi sono fatti per cadere, e l’attualità ci offre anche esempi del contrario. Uno fratutti l’Islanda, che è riuscita a gestire una crisi debitoria di proporzioni notevoli grazie a flessibilità(nei rapporti economici e politici esterni) e unità decisionale (nei rapporti politici interni).Due cose per le quali le piccole dimensioni aiutano. Alesina ovviamente ragionava inuna prospettiva liberista: la globalizzazione fa del mondo il mercato di riferimento, quindiviene meno l’esigenza di creare un grande mercato interno. Ma conclusioni simili si raggiungonoanche in una prospettiva marxista: già Lenin aveva notato come un progetto di Stati Unitid’Europa si sarebbe risolto naturaliter in una egemonia del capitale. Insomma, l’impero europeoche una certa sinistra ha difeso fa acqua da qualsiasi parte lo si consideri. C’è da chiedersiallora perché ancora ce lo teniamo, ma qui, ovviamente, entrano in campo le competenzedegli storici, che ci illustrano i rapporti di forza concretamente in atto.Vengo alle osservazioni di D’Antoni sulla capacità di governo, sulla governance, comeoggi si dice, dello spazio europeo, e sulle relazioni di questa col progetto federale. Sappiamocome Hayek veda esplicitamente nel progetto di Stato federale uno strumento per la distruzionedella sovranità (distruzione che, non occorre dirlo, lui vede come obiettivo positivo). Alconvegno che ricordavo poc’anzi, Luciano Canfora ha citato una frase scritta da Lenin nel1915: «In regime capitalistico, gli Stati Uniti d'Europa equivalgono ad un accordo per la spartizionedelle colonie». Vladimiro Giacché specifica, maliziosamente, «delle colonie interne».Questo è ciò cui stiamo assistendo. Scusate: a me sembra strano che dopo quanto è successoin Grecia per parlare di euro si chiamino degli economisti. In Grecia l’euro è stato usato comearma per conculcare la sovranità di un Paese − come osservava Galli. Ciò trascende la dimensioneeconomica. Quando si parla di esercito europeo, di intelligence europea (una volta si dicevapolizia segreta), e delle economie di scala che da ciò deriverebbero, grazie a una più intensacooperazione, faccio notare due cose. Primo: l’esercito europeo e l’OVRA europea sa-rebbero usate esattamente come è stata usata la BCE, cioè per conculcare e reprimere la sovranitàpopolare dei Paesi membri. Secondo: per quanto attiene al cooperare, osservo che senoi cooperassimo non saremmo in crisi. Un «altro euro» è possibile? Forse, cooperando. Ma ildato politico è che noi siamo in crisi perché non cooperiamo. Partendo dal dato, qual è il contributospecifico della moneta unica? Quello di togliere la possibilità di svalutazioni difensive aglianelli deboli di una catena guidata da un Paese deflazionista − come già nel 1957 il laburistaMeade aveva chiaramente espresso. Come concludo nel Tramonto dell’euro, «quando chi è aggreditoha un’arma per difendersi, è più facile che emergano soluzioni cooperative». L’euroostacola prospettive di cooperazione.Quanto alla fantomatica «omogeneità endogena» fra Paesi appartenenti a un’area monetaria,ovvero all’idea che una volta entrati, l’intendance suivrà, cioè i flussi commerciali sincronizzerannoi cicli dei vari Paesi, mi limito a osservare che quest’idea, mai egemone in letteratura,oggi è del tutto superata. Krugman, fra i più illustri, aveva chiarito come le unioni monetarieesaltino le differenze strutturali fra Paesi (e quindi la fragilità del sistema). Ciò accadeper un motivo semplice: quanto più il capitale è libero di circolare, tanto più i singoli Paesi sispecializzano nei propri vantaggi comparati, il che li espone a shock idiosincratici.Ultimo punto: ci attende allora un Reich solo economico? Ma un Reich economico è in reipsa un Reich politico − vedi alla voce: BCE indipendente da tutti tranne che da Frau Merkel;vedi alla voce: Grecia schiacciata −. Quindi siamo già in un «quarto Reich». Dove andiamo se neusciamo? Attualmente siamo un vaso di coccio fra Germania e USA, in un contesto in cui laGermania vive la sua subalternità agli Stati Uniti con insofferenza e colpi di coda (quanto accadein Ucraina credo vada letto anche in questa chiave). Ho la sensazione che fuori staremmomeglio, ma in ogni caso − e qui chiudo − provo una crescente insofferenza verso chi nega iproblemi causati dall’appartenenza alla moneta unica. Dato che le prospettive storiche, comequella delineata da Galli, indicano chiaramente che esiste una elevata probabilità che questaesperienza termini, l’unico atteggiamento intellettualmente onesto da parte di un economista,di un tecnico, è quello di adoperarsi a capire come ridurre i danni di un evento molto probabilese non ineluttabile, come farci il minor male possibile, anziché abolire la ricerca e il dibattitosulla base del presupposto che “sarebbe un disastro”. Constato con piacere che questo mioatteggiamento in questa sede appare abbastanza condiviso.

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    Predefinito Re: seminario economico di Sinistra Italiana

    Gawronski
    Credo che i temi fondamentali per questa nuova forza politica nascente siano tre:l’Europa e l’economia; la Costituzione; e la partecipazione democratica nel nuovo soggetto politico,perché nel mondo di oggi la gente vuole partecipare. Ma mi limiterò ad interveniresull’argomento odierno: l’euro e l’Europa. Mi limiterò a qualche considerazione strategica.L’euro: bisogna riformarlo o bisogna uscirne (come)? D’Antoni, nel suo intervento, sichiedeva se è possibile uscire dall’euro in maniera democratica, decidendo insiemeall’elettorato. Il problema è noto: in un Paese democratico il tempo della discussione noncoincide con quello della decisione. Ed una discussione del genere provocherebbe catastrofi,per le probabili reazioni sia dei mercati sia delle istituzioni europee − come abbiamo visto nelcaso della Grecia.Credo però che una via, molto stretta, c’è. Bisogna lanciare una battaglia politica e mediaticaper la riforma dell’euro. Essa può aiutare poi anche, se necessario, ad uscire dall’euro.Il modo per uscire dall’euro non è quello di dire «voglio uscire dall’Euro» con un comunicatostampa sui giornali. Ma è quello di dire: «io voglio difendere il mio elettorato restando se possibiledentro l’euro, e a questo fine voglio porre dei punti fondamentali, di “sicurezza economica”.Per far ciò abbiamo bisogno di regole diverse da quelle attuali». Nel momento in cui iovado a chiedere in Europa regole veramente diverse, so perfettamente che, forse, non me ledaranno; oppure chissà − non si possono mai mettere limiti alla Provvidenza −; ma se non mele dessero (o se me le dessero solo in parte) il mio popolo sarebbe coinvolto sull’idea chel’euro così com’è non funziona. Quindi nel momento in cui ci dovessero essere le condizioniper uscire, già abbiamo spiegato il perché.Ma se per caso si riuscisse a migliorare, anche in parte, la governance dell’euro… Io capiscoche qualcuno pensa «rischi poi di tenerti una cosa che funziona a metà, invece il tantopeggio è tanto meglio!», che «un euro che funziona malissimo ha più probabilità di crollare».Ma siamo sicuri? Secondo me non è vero. Perché per uscire dall’euro bisogna affrontare unatransizione molto pericolosa: e non possiamo farlo finché siamo troppo indeboliti, se le banchedei nostri Paesi sono troppo indebolite. Meglio dunque tentare di “aggiustare l’Euro” e deciderepoi se possiamo restarci o meno. Credo che bisogna iniziare presentandosi alle elezionidicendo: «noi siamo quelli che l’euro lo vogliono radicalmente cambiare».Per quanto riguarda l’Europa, ci sono dei beni pubblici globali o internazionaliestremamente importanti che vanno prodotti a livello europeo. Ma qual è il problema di rafforzarel’Europa in questa situazione di affidare per esempio all’Europa delle regolesull’immigrazione o non affidarle? È il rischio reale della dittatura della maggioranza. Nelmomento in cui affidiamo la sovranità a un ente sovrastatale e spesso si dice: «però dobbiamodare all’Europa istituzioni democratiche» ci limitiamo a pensare che sui tecnocrati ci deve essereun controllo degli elettori. Che non c’è. Ma se anche ci fosse, questa è una concezione della“democrazia” che è la stessa di quella autoritaria di Kaczynski in Polonia o di Orban in Ungheria.Sappiamo benissimo che la democrazia è fatta anche di diritti delle minoranze, dirittidegli individui, che sono inviolabili da parte delle maggioranze; ed è fatta di pesi e contrappesiche garantiscono questi diritti.La democrazia come si intende in epoca moderna è la democrazia liberale, ovvero costituzionale.Che in Europa non c’è, perché non c’è una Costituzione. Quindi l’impegno nostrodovrebbe essere quello di favorire una visione costituzionale dell’Europa nel senso di individuarequesti diritti da tutelare nei Trattati, che – sull’economia sono spesso anche moltotecnici. Per esempio: in Italia c’è democrazia perché chi vince anche se prende il 60 per centonon può espropriare gli avversari politici, non può chiudere le sue banche. Parimenti, la BancaCentrale Europea dovrebbe avere il dovere non qualificato (senza se e senza ma) di salvare lebanche di un Paese membro sotto attacco speculativo, se quelle banche sono solvibili al nettodell’attacco speculativo. Se poi il Primo Ministro di quel Paese si chiama Tsipras e fa delle politichemolto antipatiche alla maggioranza dei Paesi europei: quel signore non perde il diritto dichiedere alla Banca centrale di difendere le sue banche (e la BCE invece non l’ha fatto nel giugno2015). Questo è fondamentale, altrimenti perdiamo tutto compresa la dignità. In altre paroleci vuole una Costituzione o di nome, o di fatto, con diritti costituzionali economici e monetari.Questa visione dell’Europa dovremmo promuoverla.Sulla guerra e sulle migrazioni. Le migrazioni fondate su motivazioni economichesono da sempre parte della Storia dell’umanità quando c’è una zona più ricca e una zona piùpovera − insomma dai tempi dell’Impero romano −. È una cosa che però si può gestire abbastanzafacilmente con politiche restrittive dell’accesso e fortemente integrative per quelli cheentrano. Si gestiscono perché non sono mai ondate improvvise e massicce, quindi si ha il tempodi adattarsi, reagire, fare politiche, ecc. La migrazione diventa pericolosa quando nasce dauno shock politico molto forte all’estero − per esempio quando gli Unni piombano sull’Europacentrale e i popoli germanici fuggono verso Ovest e entrano tutti insieme nell’Impero romano.Noi oggi siamo un’area ricca e sicura, che ha interesse a una situazione tranquilla intorno allesue frontiere: dobbiamo perciò intervenire là fuori, dove c’è lo shock politico. Qua nasce unanuova visione della sicurezza. Non è questione di fare muri: prima o poi verranno travolti! Sitratta di andare lì a fare delle politiche di difesa di quella popolazione. Significa anche chequando i siriani fuggono, noi siamo qui per accoglierli fraternamente ed aiutarli a rientrarequando possibile nel loro Paese. C’è un internazionalismo della sicurezza. Dovremmo dire alnostro Paese: c’è un grande lavoro di sicurezza e solidarietà da fare anche all’estero, in coordinamentocon l’Europa.

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    Predefinito Re: seminario economico di Sinistra Italiana

    D'Attorre
    Mi associo anch’io al ringraziamento ai relatori per la ricchezza e la lucidità degli spuntiche ci hanno fornito. Credo che costituiscano un’ottima base per il nostro lavoro, anche nellaloro formula felicemente interdisciplinare, un tratto da mantenere e valorizzare. E ringraziotutti gli studiosi intervenuti, per la presenza di oggi e, spero, per la disponibilità futura a contribuirea questo lavoro di ricerca politico-culturale, nelle forme che riterranno opportune.Mi concentro su alcuni nodi essenziali che ci aspettano al varco nei prossimi mesi. Neindividuo almeno quattro: il tema dell’Europa e dell’euro; un nuovo paradigma della politicaeconomica e sociale; il ripensamento della politica estera di fronte alle questioni di nuovo incombentidella guerra e del terrorismo. Inoltre, c’è una questione che oggi non è emersa, mache è davanti a noi e che non riusciremo ad affrontare senza il concorso anche di un lavoro intellettuale come si costruisce oggi, in termini non nostalgici, non ingenuamente passatisti, maneppure totalmente destrutturati, una nuova forma democratica e partecipativa?Il nostro obiettivo è ricostruire un partito. Diamo spesso per scontato questo che siapossibile, anche nelle condizioni di oggi. In realtà, si tratta di un’assunzione tutt’altro chescontata. Quindi credo che la riflessione attorno a questo nodo come si costruisce un nuovonesso tra partecipazione e decisione democratica all’interno di un corpo collettivo dovrà interrogarein profondità il lavoro intellettuale che metteremo in campo, e che questo lavorodovrà poi incrociarsi con le decisioni politiche che assumeremo nei prossimi mesi.Qualcuno ha detto, anche in una chiave giustamente critica, che noi rappresentiamol’aspirazione a un partito, però non siamo ancora un partito, ma solo un gruppo parlamentare.Tuttavia, il nostro tentativo non mira a costruire un cartello elettorale o una soluzione transitoriadi qui alle prossime elezioni, ma una formazione politica stabile, strutturata, che possadurare per i prossimi decenni. L’orizzonte non è il 2017 o il 2018; l’obiettivo è di più lunga gittata.Naturalmente per vivere il progetto avrà bisogno di superare indenne la strettoia delleprossime elezioni, ma non è quello il traguardo a cui miriamo.Per fare questo occorre un lavoro duro e impegnativo. Partiamo da una condizione disostanziale dissesto della cultura politica della sinistra in Italia in tutte le sue diverse declinazioni,a partire dalle forze politiche da cui provengono le persone che danno vita al progetto diSinistra Italiana, anzitutto PD e SEL, oltre ad altri spezzoni della sinistra. Se guardiamo a questidue percorsi negli anni scorsi, PD e SEL, è bene che ci diciamo subito per quanto io non vogliascoraggiare nessuno che la formazione politica che stiamo costruendo non nasce con unpersonale politico che è sintonizzato con le cose che hanno detto questa mattina i professoriGalli e D’Antoni. Quindi ahimè non è la posizione del gruppo dirigente di Sinistra Italiana, siaperché questo gruppo dirigente ancora non c’è, sia perché il complesso del personale politicoche in una prima fase andrà a costituire questa esperienza viene da percorsi che sul piano dellacultura politica sono stati segnati da limiti molto seri.Certo, alcuni di noi hanno iniziato a riflettere sulle ragioni di questa debolezza da diversianni, hanno fatto autocritica, ma il lavoro è molto lungo. Noi abbiamo avuto una sinistrache nelle sue diverse declinazioni, sia in quella più riformista sia in quella più radicale, ha vissutoanzitutto sull’antiberlusconismo. In più si è consolidata l’idea che il confine fondamentalecon la destra consista nell’essere, senza se e senza ma, per i diritti civili, anche nella loro declinazionepiù individualistica, e a favore dell’immigrazione, in tutte le sue forme. Questi sonostati i due principali elementi di caratterizzazione e di riconoscibilità programmatica. La te-matica sociale è stata certo affrontata, ma senza un vero lavoro sulle compatibilità. È chiaroche la sinistra ha parlato di diritti sociali, di lavoro, di Welfare, ma senza un’elaborazione checonsentisse di saggiare il contesto di praticabilità di questo discorso, anzitutto rispetto ai vincolieuropei. Dentro questo orizzonte mettere in discussione il mantra «più Europa» cioèl’idea che occorra comunque essere a favore di ogni forma di integrazione europea, quale chesia la sua natura dal punto di vista sociale e democratico sarà un lavoro gigantesco. Dobbiamosapere che la gran parte del personale politico con cui lavoriamo nella prima fase muove dalconvincimento che l’unica via di uscita dalla crisi attuale sia un rilancio del progetto europeo.A me pare che le introduzioni siano molto utili proprio perché istradano la riflessionesu questo punto fondamentale. Se il quadro della globalizzazione è quello che è stato descrittoe gli esiti dell’Europa reale, non di quella desiderata, sono quelli che ormai conosciamo, il primoproblema che Sinistra Italiana si deve porre è cosa fare per questa Italia, non per un’altraEuropa. E dobbiamo interrogarci su come riassumere la dimensione nazionale come ambitoineludibile per ricostruire il progetto di una sinistra popolare, di una sinistra che torni a rappresentareanche la parte più debole, meno colta e cosmopolita, più svantaggiata della società.Non si tratta di fare nulla di particolarmente nuovo e originale, se minimamente ragioniamoin una prospettiva storica: basta guardare ai primi passi della sinistra nel secondo dopoguerra.A me è capitato di recente forse proprio a un convegno organizzato da Bagnai dicitare un brano del primo discorso tenuto da Togliatti, dopo l’arrivo a Roma, ai quadri comunistial Teatro Brancaccio nel luglio del 1944. Togliatti presenta il progetto del “partito nuovo”come partito innanzitutto nazionale: la scelta di mettere la bandiera italiana sotto la falce emartello nel simbolo è tutt’altro che casuale. La tesi di fondo viene espressa con disarmantechiarezza. Togliatti dice: guardate che sono i ceti dominanti che possono permettersi di essereeuropei e cosmopoliti, anche perché non hanno mai veramente avuto a cuore l’interesse nazionalee lo hanno spesso e volentieri barattato con i loro interessi di classe. Al contrario, nonpossono permettersi di non sentirsi italiane e di non vedere nella comunità nazionale il primoluogo di realizzazione delle loro aspirazioni le classi lavoratrici. Per questo Togliatti dice che ilPCI vuole essere una forza popolare e nazionale. Come si vede, le radici per un riorientamentodi questo tipo ci sono, ma sono radici lontane, dopo una parentesi che è stata lunga e che haprodotto delle conseguenze profonde sul piano della cultura politica.Aggiungo poche osservazioni. Personalmente sono d’accordo sul fatto che la questionedell’euro rappresenti un nodo non aggirabile. È evidente che l’euro è il condensato di ciò che ilprogetto europeo è diventato da un certo momento (Maastricht) in poi, e del modo in cui lasinistra si è piegata a questo progetto, accettando la sovraordinazione del liberoscambismodei Trattati europei rispetto alla matrice lavoristica e solidaristica inscritta nella Costituzionerepubblicana. È un gigantesco nodo economico e democratico. Sono anche d’accordo sul fattoche ci sia un evidente intreccio con la questione del TTIP, felicemente definito come progettodi una NATO economica. Ecco, io sarei per trovare la strategia per contrastare il progetto dellaNATO economica senza mettere in discussione l’appartenenza alla NATO politico-militare, assumendouna posizione che non apra velleitariamente troppi fronti in contemporanea e chepunti a costruire anche un quadro di alleanze internazionali per il superamento dell’attualeordine dell’euro.Possiamo oggi ricostruire una sinistra che parta dalla messa in discussione esplicita eimmediata dell’euro per un ritorno alla moneta nazionale? Probabilmente no, anzitutto perchénon troveremmo subito le forze per una tale impresa. Sicuramente non le forze del cetopolitico e sindacale, ma nemmeno sufficienti forze nella società. Secondo me, c’è, invece, un altrotipo di discorso che si può e si deve fare: un discorso che riparta dai fondamentali, cioè chefaccia emergere progressivamente cosa che non abbiamo fatto negli anni scorsi gli elementidi contraddizione irrisolvibili tra questo assetto europeo e il progetto costituzionale. Tuttociò che l’Europa ci ha chiesto di fare negli ultimi anni e che ci chiederà di fare prossimamenteè intrinsecamente contraddittorio e conflittuale con il disegno della Carta costituzionale: ciòvale per il lavoro, per la scuola, per l’Università, per la sanità, per il ruolo dello Statonell’economia, per la tutela pubblica del risparmio. Noi stiamo andando in una direzione cheprogressivamente smonta, pezzo dopo pezzo, i capisaldi essenziali del disegno di società, economiae democrazia tracciato nella Carta costituzionale.Dovremo provare a riorientare il personale politico di cui disponiamo perché un partitonon si fa partendo dal nulla con una doppia azione: dall’alto e dal basso. Dall’alto, conl’azione di una élite intellettuale che si impegni nella decostruzione dei tabù consolidatisi neltrentennio dell’europeismo ‘a prescindere’ e che muova una battaglia culturale perl’affermazione di un paradigma alternativo all’impianto mercatista dell’euro. Dal basso, lavorandoa una nuova composizione sociale e attirando nuove forze, non solo quelle che si sonoallontanante negli ultimi mesi dal Partito democratico, ma siccome i problemi sono di piùlunga durata quelle con cui il centrosinistra ha progressivamente perso contatto già prima diRenzi.Vi racconto un piccolo aneddoto che, secondo me, spiega in quale direzione dobbiamomuoverci. L’altra sera, tornando a casa dalla stazione dopo un’iniziativa, mi sono imbattuto inun tassista, che mi è parso essere più o meno inconsapevolmente di ispirazione marxista eche mi ha fatto un’analisi che mi ha colpito per la sua lucidità. Sebbene antirenziano, il tassistaera molto critico anche con il centrosinistra prima di Renzi. Mi ha detto: «Solo il PD mi potevaportare a votare la destra. Qui c’è un disegno molto chiaro contro tutto il mondo del lavoro,che punta a distruggere i diritti dei lavoratori dipendenti e a espropriare i lavoratori autonomidei loro mezzi di produzione». Ora, se si guarda alle ‘riforme strutturali’ che in parte sonostate fatte e a quelle che ci vengono chieste per i prossimi anni, si comprende comel’osservazione abbia la sua pertinenza rispetto a una vasta gamma di lavoratori autonomi epiccoli professionisti. Si pensi, ad esempio, a ciò che è stato fatto persino sulle farmacie nel recenteprovvedimento sulla concorrenza, aprendo all’ingresso di grandi società di capitale nelsettore e favorendo processi di concentrazione. Ho chiesto al mio tassista: «Lei vede una spintaa trasformarvi in dipendenti di società di capitale?». Mi ha risposto: «No, magari dipendenti;ci vogliono trasformare in collaboratori a cottimo di queste società».Ho raccontato questo episodio per dire che c’è una platea sociale molto più articolata,rispetto ai soli lavoratori dipendenti, che è colpita dall’offensiva liberista e dalla connessa svalutazionedel lavoro. Con un discorso nuovo, fondato sulla messa in discussione dei capisaldidella politica economica dell’euro, questa platea può essere aggregata. Con Fassina parliamotalvolta di “coalizione della domanda interna”: si può discutere se la formula sia esplicativa oefficace, però almeno in questa sede credo ci intendiamo sul senso.La lucidità del tassista mi ha colpito anche per un altro aspetto, che conferma come ilpopolo in alcuni momenti cruciali sia più saggio e lungimirante del ceto politico. Se voi parlatecon molti dirigenti politici della sinistra, vi sentirete dire che Renzi vincerà a mani basse il referendumcostituzionale, che bisogna essere prudenti su quell’argomento perché non c’è partita.Il mio tassista mi ha detto: «Negli ultimi anni spesso non sono andato a votare, forse nonvoterò neppure alle prossime elezioni politiche, ma anche se quel giorno dovessi avere unamalattia grave, al referendum costituzionale voterò, perché quello è il momento per dare uncolpo a chi ci vuole far stare sempre peggio». Ho citato anche qui il tassista per dire che sonoconvinto che sul referendum costituzionale si possa attivare dal basso una consapevolezza piùdiffusa della posta politica in ballo, che riguarda non solo le regole del gioco, ma lo stesso modelloeconomico e sociale. Credo che Sinistra Italiana debba affrontare con questa impostazionela battaglia referendaria.C’erano altre due temi che avrei toccato se ci fosse stato il tempo. Mi limito a citarne ititoli: in primo luogo, la necessità di un’analisi differenziata del populismo, che rifiuti la riduzionedella dialettica politica al confronto fra forze democratiche e forze antisistema e che ini-zi a ragionare sull’utilità di un populismo progressivo; in secondo luogo, l’urgenza di ricostruireuna connessione tra interesse nazionale e rappresentanza di ceti popolari e mondo dellavoro.

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    Predefinito Re: seminario economico di Sinistra Italiana

    Fassina
    Anch’io ringrazio tutti i presenti, e ovviamente Carlo Galli e Massimo D’Antoni per lepreziose relazioni che oggi ci consentono di fare una discussione utile, e poter così pianificareinsieme un progetto di cultura politica che abbia qualche respiro. Su questo tema, alla fine delmio intervento, dirò rapidamente qualcosa.Do per condivisa l’analisi che ha fatto Massimo sull’euro, quindi non aggiungo nulla.Voglio soltanto ribadire un punto che Massimo ha reso molto chiaro nella sua relazione, anchese, al contempo, ha ragione Alfredo quando afferma che la sua condivisione è molto circoscritta:noi non riusciamo ancora a dire pubblicamente, senza ferire orgogli e storie, che l’euro èstato un errore.Pubblicamente è un’affermazione che suona ancora come una bestemmia, non soltantoin casa PD, ma anche nelle “case” fuori. È impronunciabile. Tuttavia, con la consapevolezza el’accortezza che devono caratterizzare chi prova a raccogliere consenso, il punto è proprioquesto: almeno tra di noi, in questa riunione riservata, possiamo e dobbiamo essere chiari, poivedremo come articolare una discussione pubblica.Sono il primo a sperimentarne le difficoltà, ma almeno tra di noi questo punto deve essereesplicito. E mi piacerebbe, prima o poi, poter leggere una qualche analisi seria su come ilPartito comunista passa dalla consapevolezza di Luciano Barca del 1979 all’appiattimentocompleto dei primi Anni Novanta.C’è stato il crollo del Muro di Berlino tra le due date − non mi sfugge −, però c’è stataanche una disinvoltura e una scioltezza analitica che ha fatto danni enormi: basti pensare a ciòche è avvenuto dopo. In altre parole, Renzi opera su un terreno che era stato largamente seminatoe rispetto al quale non si avvertono le fratture, perché − appunto − c’è stata una lungapreparazione, forse attenuata dalla parentesi della segreteria Bersani, che è stata più un accidente,un’anomalia, che la normalità in quello che può essere il Partito Democratico. Ma chiudo,perché su questo è già stato detto a sufficienza.Voglio sottolineare un punto che − nel momento in cui c’è un processo di elaborazione,anche psicanalitico − rischia di rimanere sullo sfondo: l’euro è stato ed è fattore di aggravamento.Tutti, intorno a questo tavolo, anche quelli che se ne sono andati, sanno bene chel’eliminazione dell’euro non ci riporterebbe alla sovranità degli Anni Cinquanta, o degli anniSessanta e Settanta, quando non c’era il movimento di capitali. Quindi, non è che noi pretenderemmoil controllo della politica monetaria, se anche tornassimo ad avere la moneta nazionale.Avremmo spazi di manovra in più, questo sì, avremmo un’autonomia di bilancio che ogginon abbiamo, però le questioni strutturali rimarrebbero.Nel Regno Unito − è un esempio che faccio frequentemente, proprio perché si tratta diun Paese che non ha aderito al sistema-euro − non è che non ci sia stato lo schiacciamento dellaclasse media e la svalutazione del lavoro. Tutto questo non vuole minimamente attenuare lamia convinzione sull’errore che è stato fatto, però non è nemmeno possibile illudersi che sipossa ritornare alla sovranità del Novecento. Credo che su questo elemento vada mantenutaviva la discussione.A questo punto, faccio un’altra affermazione secca: non c’è consenso per usciredall’euro, indipendentemente da quello che diciamo noi. Ho molto riflettuto sul voto del 20settembre in Grecia, quando non si avrebbero potute avere condizioni migliori per ottenereuna risposta negativa: due mesi e mezzo prima avevano fatto il referendum, avevano subìtouna sofferenza economica e sociale da guerra prolungata, avevano incassato − per ammissionedello stesso Tsipras − un memorandum che probabilmente aveva fattori di peggioramentorispetto a quelli precedenti, perché conteneva una clausola che li obbligava a essere autorizzatidalla Commissione prima di presentare disegni di legge del governo in Parlamento.Quindi − ci dispiace per i nostri amici molto vicini a Tsipras − tecnicamente è stata unacapitolazione. Eppure la risposta ha rappresentato una reazione di consenso a quella linea. Ilpopolo greco ha partecipato un po’ di meno al voto, questo è vero, e poi c’era anche un’offertaalternativa di sinistra, oltre a quella di destra…È stato, quello, un risultato che non possiamo mettere tra parentesi e far finta che nonsia avvenuto. È un dato politico molto rilevante il fatto che le classi medie − colpite, spremute,consapevoli che la prospettiva sarà negativa − alla fine comunque hanno confermato la lineadi Tsipras e accettato il memorandum.Sono convinto, pertanto, che debbano essere valutati anche fattori extra economici.Penso che nel caso greco abbia pesato molto la storia di quel Paese e il fatto che il vincoloesterno, per quanto male ne possiamo dire, debba comunque poi fare i conti con il vero vincolointerno: se il vincolo, il pericolo interno sono i colonnelli, forse quello esterno si relativizza,attenua il suo valore negativo.Non dobbiamo per altro neppure dimenticare il peso che ha avuto, nella conclusionedella trattativa, l’amministrazione americana e la sua posizione rispetto a tutta la vicenda. Anchein termini di costruzione di consenso e di tutto quello che comporta. Poi, ha pesato significativamenteanche un altro fattore importante: la questione dei migranti, che era appenaesplosa. Come è stato già ricordato, pur essendo evidenti tutte le carenze e le difficoltà oggettive,davanti a quella emergenza, istintivamente, l’opinione pubblica di tutti i Paesi s'è chiesta:«E l’Europa che fa?». La questione dei migranti – non dimentichiamolo – s'è trasformata intragedia, e ciò è avvenuto prima delle elezioni.Occorre pertanto prendere in considerazione tutta una serie di fattori e non soltantoquelli economici, che già da soli condannerebbero senza alcuna attenuante lo status quo erenderebbero chiunque abbia un minimo di razionalità (e non agisse invece sulla base di interessio per cecità ideologica) disponibile a percorrere una strada alternativa all’euro. Tuttavia,non c’è consenso e credo che non ce l’abbia neanche la destra, che costruisce il suo consensosu altre questioni che sono quelle che le stanno più a cuore in mezzo alle quali inserisce purel’euro. Non credo infatti che la Le Pen possa vincere perché sostiene che la Francia deve usciredall’euro. Temo che vinca per altre ragioni. Forse mi sbaglio, ma questi elementi non sono secondari.Che fare dunque? Bisogna rassegnarsi al nulla? O aspettare che, prima o poi, l’euro crolli?Ovviamente no, come forza politica non penso che possiamo proporre una “culturadell’attesa del crollo”. Ritengo che ci si debba muovere con intelligenza, tenendo ben presentidue elementi di consapevolezza: l’insostenibilità o, comunque sia, l’incompatibilità tra l’euro eun programma di sinistra, qualunque forma abbia, pur innovativo e moderno, e la necessità diun consenso politico.A quel punto, sono convinto si possa provare a coltivare rapporti con quei pezzi di sinistrafuori dall’Italia che hanno un paradigma diverso. La Linke, per esempio, ha un paradigmaalternativo, o quanto meno ce l’ha una sua parte: Lafontaine certamente, rispetto ad altri.Ci sono poi altri pezzi di sinistra che si collocano fuori dalla famiglia socialista europea,e qualche movimento interessante che si presenta dentro la famiglia socialista europea. Fino aqualche mese fa, per esempio, nessuno avrebbe pensato che il Partito socialista portoghesesarebbe stato disponibile a fare una coalizione con le altre due forze, il Blocco di sinistra e ilPartito comunista, entrambe con un’agenda molto diversa dalla sua.È questa dunque la dimensione che dobbiamo coltivare. In altre parole, dobbiamo sforzarcidi evocare una possibile alternativa a un’agenda dominante, al di là degli aspetti tecnici.Insomma, occorre coltivare queste contraddizioni per provare a farle diventare di una qualcheconsistenza politica ed essere naturalmente in grado di farne una lettura che, in qualchemodo, renda riconoscibile la sinistra come portatrice di una visione alternativa. Una letturache, a mio avviso, deve restare sul piano costituzionale, cioè non deve parlare tanto di moneta,quanto fare riferimento all’incompatibilità costituzionale, alla necessità di affermare i princîpicostituzionali, traducendoli anche attraverso una serie di proposte che però abbiano la radicalitàsufficiente a indicare una prospettiva alternativa.E dobbiamo anche provare ad aprire spazi significativi, non la contrattazione per averelo 0,1 in più di deficit per la prossima legge di stabilità. Occorre posare sul tavolo le vere questionidi fondo, anche in modo provocatorio: mettere in discussione il tabù dell’indipendenzadella Banca centrale − che non significa uscire dall’euro − ma è un messaggio di una politicache si riappropria del primato sull’economia.Perché bisogna aspettare la guerra o gli attacchi terroristici a Parigi per poter dire chela sicurezza s'impone sulla regola del patto di stabilità o del Fiscal compact? Oltre alla sicurezzamilitare, perché non possiamo cominciare a pretendere la sicurezza sociale, come elementoche relativizza e sottopone la regola economica al primato della politica? Possiamo trovareun'analisi economica condivisa, possiamo trovare strategie che ci consentano di proiettare inmodo riconoscibile un pensiero critico fondativo del progetto che vogliamo portare avanti eche ci renda riconoscibili.In questo percorso dobbiamo lavorare anche su un punto che prima ricordava PaoloBorioni e che Alfredo ha ripreso: la forma-partito. Penso che in questi decenni la politica abbiaperso autonomia e autorevolezza, anche perché c’è stata una separazione con le forze intellettuali.Senza una ricongiunzione sistematica tra queste due sfere, non può funzionare. Non sapreidire come deve essere la forma-partito dell’inizio del XXI secolo, ma certamente deveavere determinati ingredienti: prima di tutto una dimensione culturale organizzata e una dimensionesociale di riferimento. Bisogna però tradurre tutto ciò in proposte, bisogna ingegnerizzare.Io sono comunque convinto che la partecipazione delle forze politiche e culturali quipresenti e anche di altre che sono altrove è condizione necessaria per poter provare a costruireun partito che abbia una prospettiva, e che non sia l’avventura elettorale di un ciclodifficile.

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    Predefinito Re: seminario economico di Sinistra Italiana

    Barra Caracciolo
    Vorrei attenermi al tema di partenza e cominciare dal raccontare gli esatti termini dellavicenda greca, perché essa ha un valore altamente emblematico. La questione della Greciasorge esclusivamente dalla impostazione prescelta nell’Unione monetaria per risolvere glisquilibri commerciali, che sono inevitabili e fisiologici, secondo quello che era il progetto ufficiale− cioè nato all’interno dell’Europa in senso istituzionale − iniziale: si tratta del rapportoWerner del 1971, che è stato fedelmente trasposto, senza alcuna variante, nel trattato di Maastrichte che, come il trattato di Maastricht stesso − vorrei ricordarlo per tutti −, vieta i famositrasferimenti, e cioè il governo federale dei trasferimenti.Non è un’opzione su cui si taccia, è una serie di norme fondamentali ed esplicite: articolo123 (Banca centrale indipendente con divieto di acquisto dei titoli sovrani), articolo 124(divieto di agevolazioni finanziarie agli Stati da parte delle istituzioni comunitarie), articolo125 (divieto di passaggi finanziari da Stato a Stato, a titolo di alleggerimento di qualsiasi formadi indebitamento di Stati, enti pubblici, eccetera).Questo sistema esplicito, caratterizzante del trattato, sul piano del divieto di ognistrumento effettivo di solidarietà, sul piano negoziale, era la condizione coessenziale sotto laquale ha aderito la Germania. Quindi, dal punto di vista del trattato, la Germania o c’è quellaserie di clausole (e questo non lo dico io, perché lo interpreto) o loro escono − lo dice pure laloro Corte costituzionale −.È la stessa maniera in cui la stessa Corte tedesca ha fatto tutta una serie di sentenze −tra cui l’ultimo caso più famoso è quello «Lissabon Urteil» −, dove dicono: «Noi − siccome riteniamocontraria ai nostri interessi costituzionali fondamentali qualsiasi forma di contribuzione,chiamiamola, solidaristica (ma loro dicono «prendere i soldi dei contribuenti tedeschi») −ci riserviamo di verificare ogni fonte, dal trattato alle sue misure attuative, che provengadall’Europa, per rifiutarne l’applicazione se queste comportano la violazione degli articoli 123,124, 125; non ci importa che cosa dica la Corte europea, noi ce ne andiamo, o meglio, quellamisura non la rispettiamo».Che cosa è successo sugli Outright monetary transactions di Draghi? Qualcuno pensaper caso che tale meccanismo di acquisto mirato (eventualmente sul debito sovrano di un singoloStato dell’eurozona) sia stato incondizionatamente o meglio prevalentemente accoltodalla sentenza della Corte? No, è esattamente il contrario.Se qualcuno fosse interessato posso dargli l’analisi che ho svolto non sulla base dellemie convinzioni, ma sulla base di quelli che sono i postulati della teoria monetarista che loro, itedeschi (che hanno rimesso alla Corte UE la questione), condividono con la BCE e la Cortestessa. La sentenza della Corte (vi risparmio tutto il ragionamento di premessa) dice alla fineche, in definitiva, non importa se gli strumenti di intervento della BCE e le politiche monetariepossano o meno essere separati dalle politiche economiche in senso stretto (quindi vuol direeconomiche, fiscali, eccetera); quello che conta, alla fine, è che la Commissione possa imporreuna condizionalità quando sia attivato l’Outright monetary transaction.Il che significa che all’Outright monetary transaction, nell’ambito dei poteri di Draghi, èpossibile ricorrere soltanto attivando simultaneamente la Troika. Chiaro? Questo è quello cheha detto la Corte. Quindi l’Outright monetary non esiste più, perché non è mai esistito. È chiaroche è esistito un effetto-annuncio, perché poi non è mai esistito nella pratica nessun intervento− siamo d’accordo su questo −.Allora, ritornando alla questione greca, la controversia fra greci e tedeschi, molto violenta(non possiamo inventarci che c’era “pace” in Europa), è la stessa controversia che si poneoggi fra portoghesi, tedeschi e Commissione, che già ha avuto delle anticipazioni quando laCorte costituzionale portoghese cassò quattro su sette delle misure imposte dalla Troikaall’interno della loro legge finanziaria; e quindi volevano, reagendo duramente, le istituzioniUE (in testa la Commissione) abolire o contestare la legittimazione a esaminare le misure dellaTroika in termini di costituzionalità nazionale della Corte costituzionale portoghese. Questovuole la Commissione. Su questo noi stiamo convivendo con l’Europa tanto bella e democratica,cioè sull’idea che se un Paese si ricorda di avere una Costituzione democratica e prova adattuarla bisogna far fuori la Costituzione democratica o quanto meno i suoi strumenti di attuazione.La Grecia intendeva ripristinare dei limiti alle politiche dettate dall’UEM in modo chenon risultassero recessive; questa era la questione. Ma che cosa c’era di mezzo? C’era di mezzoil memorandum. Il memorandum di prima non era stato adempiuto, ma non da Tsipras, daquelli che lo avevano preceduto, tant’è che Tsipras − che tiene in stallo la situazione persei/sette mesi − riesce a far ricrescere il prodotto interno… (ma solo) perché durante il tempodella trattativa loro non hanno applicato il memorandum.E, infatti, nel primo semestre la Grecia è cresciuta, credo, dello 0,8 per cento − praticamentequello che Renzi vorrebbe realizzare in tutto l’anno, e forse non riuscirà a realizzare −,perché non ha applicato le politiche dettate dalla Troika. Dovunque non si applicano le politichedettate dall’Europa qualsiasi Paese cresce. Dimostrazione lampante di questo? I Paesi chenon stanno dentro l’euro crescono negli ultimi anni − effettuate, da parte di tutti questi Stati“con deroga” (condizione divenuta sempre più uno status stabile), le svalutazioni monetariesenza alcun trauma ed essendo Paesi relativamente piccoli dal punto di vista economico.Tranne qualche problema che hanno qui e lì (su misure di politica fiscale anticicliche e dipromozione dell’attività economica nazionale) e proprio per la occhiuta opposizione dellaCommissione in base alla clausola degli “aiuti di Stato” (naturalmente non sul versante bancario,su cui essa ha, per 6-7 anni, chiuso entrambi gli occhi, anzitutto con Germania e Francia):ma le correzioni sono state fatte e sono fattibili, avendo una moneta a cambio flessibile − purrientrando nel limite del 3% all’anno (caso emblematico dell’Ungheria).Allora, qual era il meccanismo che si era instaurato nella Grecia come paradigma e chenoi troviamo oggi rispetto a tutta l’Europa, compresa l’Italia? Perché noi non abbiamo avuto laTroika poiché siamo così zelanti e così convinti che il problema sia il “debito pubblico” da nonaver bisogno della Troika, e ne applichiamo gli strumenti autonomamente e in via preventiva(lo ha ammesso di recente Monti): siamo l’unico Paese che ha inserito il pareggio di bilancio inCostituzione. Noi non abbiamo bisogno della Troika, perché siamo l’unico Paese che dice «lovuole l’Europa», e attua le misure che vanno oltre quello che persino l’Europa voleva (almenoufficialmente, visto che la lettera BCE dell’estate 2011, non rientra, per i suoi contenuti di dettaglio,tra alcun atto legalmente consentito alla Commissione, al tempo, e meno che mai allaBCE).Allora vediamo un po’ di comprendere.Questi memorandum sono esattamente modellati sulle lettere di intenti del Fondo monetariointernazionale, all’atto della concessione di quei diritti di prelievo che sono “mediati”sulle valute di riserva in sede di attuazione del sistema, ormai completamente fuori orbita rispettoall’epoca in cui fu concepito, che è quello delle istituzioni di Bretton Woods. Obiezioneche include anche la NATO, che non ha più il senso che poteva avere alle sue origini negli anniCinquanta, anche a voler essere realistici sulla sua pragmatica utilità. La NATO, oggi, è in unacrisi profonda. Volere rimanere dentro la NATO è difficilissimo per chiunque; se ne stanno accorgendotutti. La questione della Turchia, oggi, è talmente plateale. Quando qualcosa perdele sue radici e fluttua non si sa per andare dove, quando la realtà della comunità internazionale,degli assetti di forza del diritto internazionale, quindi della società internazionale, sonocompletamente diversi da quelli per cui fu fondato un trattato si rientra sempre, invariabilmente,nel principale motivo per cui muoiono i trattati legalmente, che è la clausola rebus sicstantibus. Cioè, se la società muta, gli assetti di forza mutano radicalmente, non è possibilemantenere un trattato per pura forza d’inerzia delle burocrazie che lo governano, esattamentecome sta succedendo oggi in Europa. La tendenza all’autoconservazione di quelle burocrazie èuna cosa straordinaria.La questione della Grecia è l’evidente radiografia del funzionamento di un’area valutariavolutamente disfunzionale da sempre. Disfunzionale perché non c’è il governo dei trasferimentiche è vietato, quindi non si può andare a cambiare. Se quel divieto fosse aggirabile, lacrisi avrebbe potuto essere gestita in modo diverso. Ma il divieto c’è ed è essenziale (condiciosine qua non) per la partecipazione tedesca all’UE-UEM.Tutti quelli che hanno studiato seriamente la vicenda della crisi dell’euro, a partire dallacrisi economica di “primo impatto” proveniente dai mercati finanziari USA, rilevano che lavera crisi nell’eurozona si è verificata in particolare dopo il 2010, quando la maggior parte deiPaesi − lo si può vedere dai dati storici − erano già usciti dall’impatto principale della crisi del2008.Dunque tale crisi, avrebbe potuto essere gestita, in modo (parzialmente beninteso) diverso“se quel divieto fosse stato politicamente, prima che giuridicamente, aggirabile: e Dio saquanto fosse necessario aggirarlo, visto che tutti si rendono conto che la teoria delle aree valutarieottimali, per quanto ci si giri intorno, funziona così (cioè mediante i trasferimenti fiscalidi un governo centrale “federale”): intendiamo, le aree valutarie che nella realtà funzionano,e non funzionano mai bene, attenzione. Perché dove ci sono gli squilibri commerciali tra regioni(politiche) della stessa AVO e ci sono i trasferimenti, i trasferimenti cristallizzano i primi.Il Sud Italia è cristallizzato nella sua debolezza (specie dopo Maastricht che comprime i bilancistatali e che ha praticamente determinato l’abolizione dei trasferimenti in senso politicoeconomicoeffettivo, essendo rimasto solo un fisiologico e ordinario effetto redistributivo, legatoal prelievo tributario sulle differenze di reddito tra le varie regioni italiane: quest’ultimosoccorre a un fisiologia essenziale del funzionamento dello Stato, ma non “compensa” ormaipiù nulla degli squilibri strutturali).È chiaro che non rileva il solo fatto che esistono i trasferimenti in un’area valutaria ottimale.Gli “Stati” deboli, come negli USA l’Oklahoma, ad esempio, sono “cristallizzati” rispettoal Texas, per capirci. Ma anche se si volesse perequare al massimo grado, l’area valutaria nonè mai un grande affare, perché o i Paesi già convergono sui valori di concambio delle rispettivemonete e hanno omogeneità economico-strutturale, e allora è inutile farla, perché − come traSvezia e Norvegia − ci saranno delle oscillazioni minime, e il problema del cambio non c’è; oppurese, invece, i Paesi registrano un grosso reciproco e durevole squilibrio, l’AVO è dannosa,perché sicuramente tenderà a intervenire nel senso appena visto, prolungando e, appunto,cristallizzando, le differenze strutturali fra le aree coinvolte.Però, arrivati a questo punto: perché si è voluto farla? Perché si è voluto aderire a qualcosache non poteva funzionare, specialmente in presenza del divieto di fiscalità federale solidale?E lo ammise Amato che non poteva funzionare.Perché la correzione degli squilibri fatta in questo modo, cioè sui tassi di inflazioneguidati dall’abbassamento dei salari reali (e ora anche nominali), volutamente disfunzionale,chiamata ora «il recupero della competitività», ora «ricerca della stabilità finanziaria», ora«credibilità» − sono tutti ossimori : ma allora si è voluto aderire proprio perché la prevedibilee non aggirabile “correzione” si attua esclusivamente attraverso l’abbassamentodell’inflazione relativa del Paese debitore e la connessa distruzione del suo sistema di Welfare.Questo scopo recondito, ma non troppo, della moneta unica, infatti, presuppone inevitabilmenteil mercato del lavoro-merce.Attenzione: questo è meraviglioso secondo i liberisti, perché io distruggo il Welfare (distruggendole stesse basi imponibili contributive, per svalutazione salariale e alta disoccupazionestrutturale unita alla coeva rincorsa del gettito imposta dai limiti fiscali europei), inquanto instauro un rapporto di lavoro totalmente precario e quindi a compensi costantementesvalutabili per i lavoratori, e ottengo l’inflazione stabile che è scritta nei trattati. Guardateche tutto questo, instaurazione del mercato del lavoro-merce, abbassamento dell’inflazione,stabilità dei prezzi, distruzione obbligata del Welfare, è chiaramente scolpito nei trattati, fin daMaastricht (Guarino, Caffè, Spaventa e persino D’Alema, Carli, Andreatta e Ciampi lo preavvertirono,varie volte, prima dell’inizio del “sogno”): basta volercelo leggere e non raccontareun’altra storia.Ed infatti, non è che la stabilità la faccio su un livello di inflazione a due cifre, che nonesiste, perché è chiaro che non è compatibile con le leggi del mercato fortemente competitivo(tra sistemi-Stato, dunque molto poco “cooperativo”, ai sensi dell’art. 11 Cost.), di cui parla ilresto della clausola fondamentale che è l’articolo 3, paragrafo 3, del trattato. Vi consiglio diandarlo a leggere e di verificare attentamente, per ognuno di questi valori fondamentali cheguidano l’UE quale sia la teoria economica che c’è dietro, che è stata normativizzata, come valoredi vertice, in maniera sfacciata.Allora qual è il problema? È che − detto proprio in sintesi − la condizionalità è lo strumentodi attuazione del vincolo neo-liberista tout-court, ideologicamente e radicalmente alternativoalla solidarietà che è programmaticamente insito nell’UE-UEM.La condizionalità significa che io, oligarchia finanziaria-industriale che esprimel’essenza della governance UE, ti impongo quelle politiche di instaurazione del mercato del lavoro-merce,e deflattive, e distruttive del Welfare, perché so e stigmatizzo che il Welfare contengain sé l’aborrito (e infatti vietato) meccanismo solidale, che rende non flessibile verso ilbasso (di un livello ridotto dei diritti, peraltro, previsti dai principi fondamentali della Costituzione“lavoristica”) la parte debole del mercato del lavoro.Tutto questo “ve le impongo” col concreto meccanismo istituzionale escogitato conl’euro, perché non avrei potuto imporvelo altrimenti: quindi non avrei potuto senza lo stato dinecessità creato dagli squilibri commerciali che (e lo sapevo perfettamente in anticipo) inevitabilmenteavrebbe creato l’euro.Quindi, questa è la posta in gioco. Non si può aggirare il problema dell’euro; non si puòaggirare il problema della democrazia costituzionale che è insito nell’euro. Quindi, io ritengoche − siccome la sinistra dovrebbe essere il contrario del lavoro-merce, nonché tendere allarisoluzione del conflitto sociale con la solidarietà − non c’è modo per cui si possa fare qualsiasiprofessione di politica di sinistra senza affrontare questo problema, che è un problema di democrazia.La nostra alternativa sono le condizionalità: siamo un Paese del Terzo mondo o cisiamo resi come un Paese del Terzo mondo come se fossimo soggetti al Fondo monetario internazionale?Oppure siamo un Paese democratico che ha le sue risorse, la sua cultura, e lasua capacità di recuperare democrazia e soprattutto i suoi principi fondamentalissimi, nonrevisionabili, in una Costituzione? Non c’è un'altra domanda fondamentale da porsi oggi

  9. #9
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    Predefinito Re: seminario economico di Sinistra Italiana

    a voi l'estratto dei discorsi per me più importanti, in particolare quello di Barra Caracciolo. se vi va di leggere e commentare, sono qui

 

 

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