di Giovanni Spadolini - “La Voce Repubblicana”, 22-23 luglio 1987



Maggio 1881. La sinistra è al potere da appena cinque anni, la riforma elettorale batte alle porte (su un paese di oltre trenta milioni di abitanti, allargherà il diritto di voto ad appena due milioni: allenterà solo le maglie del regime censitario ed oligarchico).
Francesco Crispi, il futuro primo ministro della monarchia e di Adua, lancia una proposta clamorosa, un po’ spettacolare: costruire in Roma un solo grande edificio del Parlamento, tale da superare la dicotomia fra Montecitorio e Palazzo Madama, fra Camera Bassa e Camera Alta.
C’è un fremito giacobino in quella proposta: l’eco dell’Assemblea nazionale francese. Qualche anno dopo, Crispi proporrà anche la trasformazione del Senato: attraverso il ricorso all’elezione popolare, sia pure differenziata da quella in atto per la Camera dei deputati.
Il Senato non è stato mai amato dalla generazione mazziniana e garibaldina, di cui Crispi è superstite, sia pure nel suo trapasso, ormai incondizionato, alla monarchia.
Ha costituito per decenni il simbolo dell’intransigenza conservatrice, il fortilizio delle posizioni moderate.
Evoca, per gli uomini che hanno partecipato alle congiure di Mazzini o alle spedizioni di Garibaldi, il diritto divino malconciliato col diritto popolare: quel Vittorio Emanuele II, “per grazia di Dio e volontà della nazione Re d’Italia” (e proprio Crispi, agli inizi dell’unità, aveva proposto al sovrano di numerarsi primo, di rompere con la genealogia dinastica di casa Savoia), quelle caratteristiche di assemblea vitalizia e regia, sottratta a ogni controllo o condizionamento popolare, quel titolo di legittimità per l’accesso alla Camera Alta identificato nei privilegi di sangue, di censo, di gerarchia civile, perfino di gerarchia ecclesiastica (e dopo la ventata laicizzatrice dello Stato), quel collocarsi fin dai tempi di Cavour, sempre sulla destra, sempre sul versante moderato, contro ogni fremito democratico, contro ogni impazienza o intemperanza di sinistra.
La proposta di Crispi non resterà senza un’eco profonda nella pubblica opinione. Si creerà una commissione reale di studio, si elaboreranno progetti su progetti. A un certo punto la nascente Via Nazionale sembrerà il punto più adatto della capitale per la sede unificata del Parlamento, principio tendenziale di “mono-cameralismo” secondo la direttrice della sinistra italiana (allora come sempre); press’a poco dove oggi sorge la Banca d’Italia.
Ma poi lo status quo finirà col prevalere; Crispi, diventato presidente del Consiglio, non darà alcun seguito alla proposta del vecchio leader dell’opposizione a Depretis; il Senato, conservatore e un po’ misoneista, si trasformerà nella roccaforte della politica crispina di restaurazione all’interno e di avventura all’estero, nel punto di maggiore sostegno dello statista siciliano di fronte all’offensiva morale lanciata da Cavallotti alla Camera.
Perfino il presidente del Senato, Domenico Farini, il figlio del sanguigno patriota del Risorgimento dittatore di Modena, sosterrà la linea di Crispi a oltranza, arriverà ad introdurre l’uso di una carrozza, la “cittadina”, incaricata di andare a prendere i senatori assenti se nelle sedute si andava sotto il numero legale (un suggerimento ancora oggi attuale).
Il Senato regio non era come l’attuale Senato della Repubblica, non godeva della perfetta parità con la Camera. Rifletteva quella forma di “bicameralismo attenuato” su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro: nel solco del costituzionalismo britannico o meglio ancora francese, orleanista, alla Guizot.
Arieggiava la “Camera dei lords” inglese o la “Camera dei pari” francese. Costituiva un’assemblea di riflessione, di raffreddamento. Ma le attribuzioni legislative differivano da quelle della Camera su un solo punto: per le leggi relative all’imposizione di tributi o di approvazione dei bilanci era stabilito un ordine di precedenza a favore dell’altra Camera.
In realtà il grande limite della Camera vitalizia nei confronti di quella elettiva era connaturato alla logica interna al sistema molto più che agli articoli, via via appannati, dello Statuto Albertino.
E perché? Contro la lettera della carta statutaria del regno di Sardegna (“il Re nomina e revoca i suoi ministri”), la prassi avrebbe ben presto codificato la dipendenza del governo dalla sua maggioranza parlamentare, o meglio dalla maggioranza espressa dall’assemblea elettiva, la sola sensibile alle fluttuazioni, ricomposizioni e dissoluzioni dei partiti.
Nessun dubbio che anche al Senato spettasse un potere di sindacato politico e di censura nei confronti del governo; ma entro quali limiti? La cosiddetta “questione politica o di fiducia” era “una facoltà esclusiva della camera dei deputati”; e come tale lo spartiacque della vita parlamentare, e quindi della sopravvivenza dei governi, si spostava sul Palazzo di Montecitorio.
Nella storia del regno d’Italia, i presidenti del Consiglio senatori si conteranno sulle dita di una mano. Menabrea, dopo Mentana; Pelloux, dopo le giornate del maggio ’98; Saracco, nei mesi intorno al regicidio di Monza (e Saracco costituirà un’eccezione assoluta in tutti i sensi: era talmente di transizione, e sapeva di esserlo, che non lasciò la presidenza di Palazzo Madama, delegò tutto al vicepresidente, ritornò al suo scanno come se nulla fosse; heri dicebamus); ultimo Badoglio, col 25 luglio.
Nel clima della Liberazione, e dopo il referendum istituzionale, non mancarono sintomi di ostracismo verso il Senato. Eppure il bicameralismo prevalse in tutte le fasi della Costituente: nei lavori preparatori non meno che nell’aula. È un elemento che si tende a dimenticare, nel gran polverone delle polemiche istituzionali.
Fu una discussione approfondita, che meriterebbe di esser ristampata nei suoi termini integrali.
Solo un’ala del partito comunista, non l’intero PCI, si pronunciò per il sistema monocamerale. La discussione più rovente riguardò il nome, una volta scelto il principio bicamerale, fondato sull’effettiva parità della due assemblee, sia pure con una complessa articolazione interna: Lussu propose “seconda Camera”, Bozzi “Camera dei senatori”, Cappi “Camera delle regioni”. Non è senza significato che l’espressione attuale, “Senato della Repubblica”, sia stata introdotta in sede costituente, da un emendamento repubblicano, Macrelli-De Vita; da un’iniziativa, cioè, del partito che sentimentalmente e psicologicamente era più lontano dal Senato regio (quando fui eletto, nella primavera del 1972, senatore a Milano, “La Stampa” scrisse: “È il primo senatore repubblicano a Milano nella storia della Repubblica”. “No, corressi io, nello storia dell’Italia unita: non essendo mai esistiti, col Senato regio, senatori repubblicani”).
La preoccupazione principale dei costituenti fu quella di non sottrarre la seconda assemblea alla fonte originaria e insurrogabile del potere, la sovranità popolare.
Caddero, in quel clima, tutte le proposte, da varie parti avanzanti, di rappresentanza degli interessi, organica o non organica, di richiamo alle “competenze”, secondo un cattivo schema corporativo derivato dalla dottrina pubblicistica tedesca (mi torna in mente Gobetti, il nostro Gobetti, quando rispondeva ai primi del ’24 alle suggestioni di un Parlamento tecnico o competente: “La storia recente ha dimostrato in modo inconcusso la superiorità degli incompetenti sui competenti”).
Il Senato conservò il nome, e le glorie, e quel mondo un po’ esclusivo di “club”, e quella capacità di smussare i contrasti, e quel naturale senso di moderazione e di mediazione: ma diventò cosa completamente nuova, inquadrata in un disegno di democrazia integrale e popolare, radicalmente diverso.
Solo i senatori a vita, più gli ex-presidenti della Repubblica: a integrare, con discrezione somma, con misura quasi gelosa, il potere dell’investitura popolare. E un complesso di differenze, calcolate e valutate con attenzione: le diverse età previste per eleggere e per essere eletti, il diverso sistema elettorale, a base regionale e a collegio uninominale, la diversa durata dell’assemblea (sei anni, anziché cinque). È il solo dato che, forse con eccessiva fretta, il legislatore repubblicano ha corretto: in vista di uniformare i turni elettorali. Se io potessi aggiungere una proposta alle tante che invadono il campo, direi semplicemente: ripristinare anche qui integralmente la Costituzione. In un paese che non è riuscito ancora ad esprimere un’alternativa politica è semplicemente assurdo ricercare l’ “alternativa istituzionale”. O peggio ancora attribuire i difetti della classe politica ai difetti del sistema.


Giovanni Spadolini