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    Predefinito La distinzione tra pubblico e privato; ormai vetusta

    Scritto da Gianfranco La Grassa, 07.03.2016


    Ancora una volta, si sono volute confondere le acque (in tal caso proprio in senso letterale) tra pubblico e privato. Il pubblico è ciò che, nella sola forma, appartiene allo Stato o a Enti che da questo traggono la qualifica di agenti dell’interesse generale, collettivo. Lo Stato riguarda una collettività nazionale, gli altri Enti quelle “locali”: regionali, comunali, ecc. Il privato riguarda singoli individui (o gruppi di individui stretti in quelle che vengono dette società, la cui proprietà spetta per quote, azionarie o d’altro tipo, ai singoli individui). Tutto sembra chiaro, perché il diritto è sempre molto chiaro, salvo poi consentire a schiere sempre più vaste di legulei di “vivere” (lavorando, per carità, magari dieci ore al giorno) a spese delle continue controversie che esso provoca, sia quando è diritto privato sia quando è pubblico.
    Abbandoniamo il diritto al suo destino. Le imprese – questi organismi cui è affidata la produzione di “beni” e “servizi” – vengono, siano pubbliche o private, gestite e controllate da gruppi di individui, i manager, che devono dirigere i processi produttivi secondo un’organizzazione e coordinamento di gruppi di lavoro, più o meno numerosi, differenziati in varie mansioni di più o meno alta qualifica, cui corrispondono retribuzioni più o meno elevate. Salvo il fatto che, sia nel pubblico che nel privato, non sempre, anzi quasi mai, le differenze nei livelli delle retribuzioni rispondono a criteri strettamente legati alla reale valutazione di quanto i diversi gradi di qualifica apportano alla produzione. Anche perché l’apporto dipende pur sempre dal coordinamento. Chi sta in alto si sentirà sempre artefice della produttività (l’apporto in questione così si chiama) dei sottostanti da lui coordinati. Questi ultimi si lamenteranno perché le differenze di retribuzione, nei vari gradini di un lavoro comunque “combinato” (in cui non possono mancare le differenti articolazioni anche disposte in verticale), sono eccessive.
    L’economia tradizionale se la cava facendo ricorso al concetto di scarsità; quanto più è alto il gradino gerarchico (che si presuppone maggiormente qualificato e capace) tanto più aumenta, ed in modo esponenziale, la scarsità di offerta di quel “fattore”, e tanto più esso deve perciò essere pagato. Quando però scoppiano crisi, del tipo dell’ultima, si scopre che vi erano dirigenti di banche pagati eccessivamente, pur avendo dimostrato incapacità. Naturalmente, l’incapacità (e non sempre reale, spesso presunta per coloro che hanno meno appoggi di altri) viene alla luce solo a causa della crisi sistemica; e poiché quest’ultima appare più chiaramente, ed in prima istanza, nel sistema finanziario, è qui che vengono lamentati gli “eccessi” di retribuzione. Tuttavia, gli stessi “eccessi” esistono in realtà anche nel sistema industriale.
    A parte questi difettucci, l’economista tradizionale è convinto di evidenziare che, mediamente, i dirigenti (nei loro vari livelli) – e, più in generale, i lavoratori delle varie qualifiche e produttività – sono pagati in base alla maggiore o minore scarsità d’offerta di quelle specifiche capacità, qualora il tutto avvenga in un’impresa privata dove la misura dell’efficienza è data dal profitto d’impresa, che si riflette (molto imperfettamente invero) nei dividendi azionari e negli emolumenti che possono distribuirsi i consiglieri d’amministrazione e i massimi dirigenti. In un’azienda pubblica, ahimè, non sempre vi sono sicuri criteri di efficienza. Inoltre, anche laddove esiste la possibilità di applicarli, si eludono spesso poiché più facilmente vigono scelte politiche decise da organi dell’amministrazione pubblica, dove contano amicizie, protezioni, nepotismo, servilismi di vario genere (fra cui quello di procurare voti al “protettore”), ecc. Le perdite vengono, anche per periodi di tempo lunghissimi, ripianate con denaro raccolto spremendo la “collettività” mediante imposizione, o con emissione di titoli di debito pubblico; o anche stampando moneta che tuttavia, in mancanza di una contropartita in termini di aumento della produzione – ovviamente in un congruo periodo di tempo, che tenga conto degli andamenti del ciclo – può provocare inflazione; quindi, di fatto, ancora una volta è la collettività a dover pagare l’eventuale inefficienza del pubblico e il sovraccarico di costi per personale di scarsa produttività (a tutti i livelli, qualifiche e retribuzioni del lavoro).
    I difensori del pubblico risponderanno che certi beni devono essere forniti comunque da un organo di amministrazione generale degli interessi collettivi, non rispondente a criteri di profittabilità per singoli gruppi (privati) di proprietari di impresa. I dirigenti di imprese pubbliche – e più in generale i lavoratori di vari livelli – che non rispondessero a criteri di efficienza, che dilapidassero denaro pubblico, ecc., sarebbero puniti da coloro che, nella sfera politica dello Stato, sono responsabili verso i cittadini del buon andamento di quelle imprese. E se essi non adempiono al loro dovere di sorveglianza e di assunzione, ma anche di licenziamento, in base a criteri di “sana” gestione, sarebbero poi puniti nelle mitiche “elezioni democratiche”. Ragionamento quanto mai contorto e sovranamente infantile. Appurare dove c’è cattiva gestione, dove si verifica la sottrazione di profitti aziendali per finalità politiche o personali o anche semplicemente nascoste (talvolta persino per ragionevoli motivi), dove si procede all’assunzione di personale eccessivo e/o poco capace per puri motivi clientelari, ecc. è assai difficile; le scuse e gli scaricabarile sono di facile gestione.
    In ogni caso, pretendere che i Governi (nazionali o locali), nominati da una maggioranza di eletti dalla collettività (nazionale o municipale, ecc.), controllino tramite i Ministeri (o assessorati) economici (o uno a ciò specificamente addetto) imprese pubbliche dedite alla produzione di beni o servizi è quanto meno ingenuo. Se ci sono situazioni particolarmente disastrate, è in qualche caso possibile “punire” i colpevoli (per incapacità o corruzione o altro). In generale, però, paga soltanto chi, per ben altri motivi e altri elementi di debolezza, è in discesa presso la sedicente opinione pubblica, ben manovrata in genere da poteri economici e politici in lotta fra loro. Certamente, si può pagare anche per una politica economica carente (è più raro comunque che per altri motivi politici), ma difficilmente per l’andamento, efficiente o meno, delle imprese pubbliche; che lo sono solo giuridicamente ma, come ogni altra impresa, devono essere guidate da più complesse motivazioni d’ordine non solo gestionale e di mera profittabilità (nemmeno nelle private vige il solo criterio del guadagno economico e finanziario).

    2. Gli economisti, gli amministratori, ecc. cercano la scappatoia nello stilare una complessa casistica di beni e servizi che dovrebbero – per intima natura, per le caratteristiche della “cosa stessa”, insomma per la loro utilità generale, cioè per il soddisfacimento di bisogni ritenuti collettivi e non distinguibili interindividualmente – essere assegnati alla gestione pubblica; mentre altri beni potrebbero più utilmente, e con efficienza (il criterio del minimo costo o massimo prodotto), essere esitati da imprese gestite privatamente. Per i primi, sarebbe semplicemente “immorale” pensare che li si produca perseguendo il profitto, di cui godono singoli gruppi di individui; mentre per i secondi una produzione da parte di chi è interessato a guadagnarci potrebbe favorire l’economia dei mezzi impiegati, il miglioramento delle attrezzature e impianti fissi, una maggiore celerità del servizio, ecc.
    Molti sono i dubbi circa questa possibilità di cercare la divisione tra pubblico e privato in una sorta di “cosa in sé” relativa a beni e servizi. Istruzione, sanità, trasporti, ecc. dovrebbero essere “in sé” di natura pubblica. Difficile capire perché le Università anglosassoni (in particolare americane) siano, non tutte è vero, ad un livello superiore di quelle scassate italiane. Però, si obietta, costano moltissimo agli utenti, che pagano tasse elevate. Alla fin fine, si ripiega sull’indicazione che almeno l’istruzione di base deve essere fornita a bassi costi dallo Stato. Tuttavia, ormai è noto a quali bassissimi livelli sia arrivata tale istruzione in tutti i paesi detti avanzati. Anche per l’istruzione sembra doversi dire ciò che è ormai dimostrato per il movimento operaio: quest’ultimo ha mostrato la sua “efficienza” (cioè una radicalità di lotta che ha ingannato i marxisti e ha fatto credere che si trattasse della “classe” affossatrice del capitalismo) quando era nella fase della prima industrializzazione, del passaggio dalla prevalenza contadina a quella operaia. Passata tale fase, la “classe” è sparita, inghiottita dal livellamento della riproduzione dei rapporti capitalistici, pur essi modificatisi rispetto alle prime fasi di sviluppo di tale modo di produzione, quando dalla borghesia mercantile siamo passati a quella industriale, ecc.
    In realtà, infatti, nell’epoca in cui l’accumulazione capitalistica era ancora promossa da un grandissimo numero di “punti” (imprese), ognuna delle quali non aveva capitali giganteschi per approntare certe infrastrutture (trasporto, energia elettrica, sistema di strade, porti, ecc.), era evidente che lo Stato – organo considerato dal marxismo, abbastanza correttamente a quell’epoca, quale semplice strumento della borghesia capitalistica (proprietaria privata) – sopperiva a simile tipo di investimento. E’ a quell’epoca che si è formata l’ideologia della differenza tra privato (solo basato su interessi particolari) e pubblico (fondato su quelli generali della collettività, mentre era solo utile alla riproduzione dei rapporti del capitalismo borghese, detto della “libera concorrenza” tra imprese di dimensioni oggi considerate al massimo medie). Una ideologia non particolarmente marxista, ma che è stata assorbita pure dai marxisti delle ultime generazioni ormai degradati a corifei delle ideologie dominanti del tipo più arretrato, quelle ancora ottocentesche, oggi quindi propriamente reazionarie, quelle che un tempo si potevano definire piccolo-borghesi.
    Ora non è più possibile tale definizione. La piccola borghesia era una classe residuale che pian piano scomparve sotto i colpi dell’accumulazione dei grandi capitali e della trasformazione della mera classe proprietaria in gruppi manageriali o ancor più di tipo strategico/imprenditoriale (con proprietà o meno, non era più questo il criterio principale, ma solo sussidiario). Il mantenimento e recupero delle ideologie “piccolo-borghesi” ha quindi attualmente tutt’altro significato, prettamente reazionario e di supporto alla grande modernizzazione capitalistica; fa da controcanto a quest’ultima e serve mirabilmente quei gruppi grande/capitalistici che, essendo cresciuti sulla base delle passate fasi dell’industrializzazione e opponendosi al rafforzamento dei gruppi delle nuove e più avanzate fasi, si alleano con gruppi di un diverso paese predominante, garantendo così i propri interessi al servizio però del predominio del suddetto paese (chi ha orecchi per intendere di chi stiamo parlando in Italia, intenda).
    Riprenderemo questo discorso, interessante per capire come oggi i più reazionari sono quelli che ancora si fregiano della prassi (conflitto capitale/lavoro) e della teoria (marxismo) che ebbero tutt’altro significato quando appunto l’accumulazione capitalistica era quella borghese (classe dei proprietari privati). L’importante è capire che tutto è mutato quando le grandi concentrazioni dette monopolistiche – confondendo la grande dimensione delle unità capitalistiche fra loro in conflitto strategico con una semplice forma di mercato; ecco il degrado del marxismo ad economicismo, cui poi si oppone, in solidarietà antitetico-polare, l’altrettanto becera degenerazione del falso marxismo in “religiosa” filosofia dell’Uomo – diventano capaci di mettere in piedi le gigantesche infrastrutture (di servizio, trasporto, ecc.) tipiche del pubblico. I grandi aeroporti non sono più soltanto pubblici. Non lo sono più grandi società di servizio energetico (apparentemente pubbliche, ma che scelgono la forma della società per azioni per attirare anche capitali privati).
    Nella Sanità si continua a dire che certe attrezzature costose sono solo alla portata del “pubblico”, ma questo è sempre meno vero; ormai grosse società che mettono in piedi centri privati di medicina si stanno dotando delle migliori attrezzature. Resta il costo (prezzo) del servizio per il cittadino a livelli non alti di reddito, ma che rivolgendosi al “pubblico” si deve allora accontentare di un servizio di cui è evidente il degrado, i ritardi, ecc. Per quanto riguarda esami, accertamenti diagnostici, visite specialistiche, ecc. fino a certi livelli di prezzo (livelli via via più elevati ogni anno che passa), si è notato un costante incremento del ricorso ai centri privati sempre meglio dotati di attrezzature e personale medico e paramedico.
    Mi dispiace, ma sempre più è evidente, salvo che in un paese di popolazione particolarmente arretrata quanto a cultura moderna come il nostro, che la distinzione pubblico/privato è ormai una questione di lana caprina; non tiene proprio più ed è bene escogitare altre distinzioni e differenziazioni.

    3. Nel socialismo (parlo di quello detto poi “reale”, cioè quello dei paesi in cui noi abbiamo pensato per molto tempo che fosse in essere la “costruzione del socialismo”) non si fecero affatto distinzioni “di natura” fra i beni e servizi prodotti. Guardando ai rapporti fra classi sociali, si superò il semplice concetto dello scopo della produzione: per il profitto di gruppi particolari nel caso del privato, o per il sedicente interesse collettivo, generale, nel caso del pubblico. Ripeto che questa differenza rimane tuttora per la reazionaria sinistra odierna, tributaria a volte di un marxismo totalmente degradato, umanitario, intriso di morale cristianeggiante; nell’ambito del quale alcuni, per fregiarsi dell’aureola scientifica, recuperano uno statalismo – della spesa appunto pubblica, sempre quindi ponendosi dal punto di vista della domanda e del consumo – di impronta keynesiana. Per quanto riguarda Keynes, siano gli studiosi seri di quest’ultimo a giudicare quanto di keynesiano vi sia in certi “sinistri” odierni; per quanto riguarda Marx ci penso io ad emettere un giudizio totalmente sprezzante sui falsi, degenerati, disonesti, marxisti che lo “maltrattano”.
    I veri marxisti e leninisti sapevano che la produzione è appropriazione della natura per strappare ad essa quanto necessario a vivere in forme (dei rapporti) sociali, che hanno conosciuto una plurimillenaria storia evolutiva. Chi prende le mosse dal consumo (quindi dalla domanda) è lo “scienziato” (ideologo) della sedicente economica, il cui asse centrale, pur quando tratta di quantità aggregate (macroeconomiche) secondo l’impostazione keynesiana, è rappresentato dal rapporto tra individuo e cose (scarse) necessarie a soddisfare i suoi molteplici bisogni, ordinati in una gerarchia – spesso troppo rigida, quindi sempre bisognosa di continui aggiornamenti – che li distingue in primari, secondari, ecc. Per il marxismo, ogni appropriazione della natura non può mai avvenire se non nell’ambito di forme, storicamente mutevoli, dei rapporti sociali. Per una ricerca scientifica intorno ai problemi della produzione, dunque, la premessa d’obbligo è l’individuazione di tali forme. La supposizione di un “singolo soggetto” (magari anche “collettivo”, come ad esempio un’impresa o addirittura lo Stato nella sua indistinta rappresentazione di organo della collettività nazionale) in rapporto con il mondo (delle cose da domandare perché necessarie alla sua esistenza) ha al massimo utilità per una teoria delle scelte nell’ambito di una forma sociale già storicamente data, accettata per quello che è e non indagata nella sua dinamica evolutiva, con i vari conflitti tra gruppi sociali (classi) da cui quest’ultima deriva.
    Poiché, per il marxismo, sono di fondamentale rilevanza gli strumenti (i mezzi) con cui la società strappa alla natura i mezzi del suo sostentamento (in evoluzione storica), viene posta come cruciale, per l’indagine relativa alle forme sociali nel cui ambito si produce, la proprietà di questi mezzi di produzione. Le forme giuridiche, del resto sviluppate solo nel capitalismo, sarebbero soltanto la codificazione a posteriori (e sempre in ritardo) di un potere reale di controllo sui mezzi di produzione. Contano quindi le condizioni storico-sociali di questo potere reale; il mutamento d’esse implica il passaggio attraverso grandi epoche della produzione (appropriazione della natura attraverso la società), caratterizzate dunque da diverse formazioni sociali; l’una nasce dall’altra attraverso formazioni di transizione, di carattere turbolento e spesso indefinito, caratterizzate da rivoluzioni o altri fenomeni di intenso “travaglio” della società (dei rapporti tra i vari raggruppamenti sociali; rapporti e raggruppamenti che vengono entrambi trasformati fino a nuove relative stabilizzazioni).
    Il problema del pubblico e del privato, per il marxismo, si deve porre quindi in relazione a questo potere reale di controllo dei mezzi produttivi; perché chi li controlla ha pure il controllo della produzione sociale e della sua destinazione. Non ha alcuna rilevanza la “cosa in sé” dei beni e servizi prodotti; anzi non si distingue tra beni e servizi, si parla di prodotto e basta. Chi controlla la produzione? Chi ha il controllo dei mezzi di produzione, qualsiasi cosa produca. Ben si sa che nelle società dette socialiste si pensò alla proprietà statale del mezzi produttivi (immaginando all’inizio uno Stato di struttura particolare, pienamente in possesso del proletariato divenuto classe dominante) quale proprietà della società; da ciò discendeva la completa disponibilità collettiva della produzione e delle sue molteplici destinazioni, compresa l’accumulazione per incrementarla. Il tutto senza più profitto individuale, bensì vantaggio collettivo.
    Non sto certo a riprendere in mano il dibattito svoltosi per decenni in funzione critica di simile credenza, tanto più che oggi pensare all’esistenza dello Stato quale dittatura del proletariato, all’esistenza del socialismo in quanto proprietà collettiva e pianificazione della produzione e delle sue destinazioni (al consumo, all’investimento, il tutto sempre deciso dall’immaginaria collettività dei produttori associati), è esercizio non più compiuto se non da piccole enclaves di zombi. E’ però importante ricordare comunque l’avanzamento teorico che, pur attraverso la speranza delusa della creazione di un controllo collettivo della produzione, è stato compiuto dai fautori del socialismo in quanto formazione di una nuova società retta dalla volontà collettiva. Lo Stato non era più un’entità quasi metafisica, eretta al di sopra della società (poi lo fu, ma perché il socialismo si rivelò il contrario di quello che diceva d’essere) e che avrebbe dovuto dedicarsi ai suoi bisogni generali.
    Lo Stato doveva semmai assicurare il trapasso del controllo reale dei mezzi (strumenti) per ottenere la produzione da gruppi particolari, dediti al proprio guadagno, all’intera collettività. Questo trapasso era però soltanto aiutato, facilitato dall’azione dello Stato; che sarebbe stato una dittatura della maggioranza della società sulla minoranza dei gruppi tesi all’appropriazione privata, ormai espropriati dei mezzi produttivi e quindi impossibilitati a perseguire un simile scopo. Non doveva però trattarsi di una costruzione artificiale ottenuta per pura costrizione, che diventa allora quella promossa, per proprio vantaggio, dai gruppi di potere che controllano l’apparato dello Stato tramite il controllo dell’apparato del partito; il processo si sarebbe svolto mediante la formazione di una maggioranza della società costituita realmente da lavoratori associati. Lavoratori del braccio e della mente, possessori delle potenze mentali della produzione cooperanti con gli esecutori, “l’ingegnere e il manovale” quasi fusi insieme nel gruppo collettivo che produce in stretta cooperazione.
    Si valuti questo passo di Marx (dal “Il carattere di feticcio della merce, ecc.” nel I capitolo de Il Capitale):
    “Immaginiamoci infine, per cambiare, un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale. Qui si ripetono tutte le determinazioni del lavoro di Robinson, però socialmente invece che individualmente. Tutti i prodotti di Robinson erano sua produzione esclusivamente personale, e quindi oggetti d’uso, immediatamente per lui. Il prodotto complessivo dell’associazione è prodotto sociale”.
    In definitiva, secondo Marx, con mezzi di produzione collettivi e non più in mano a gruppi privati – e senza badare alla natura degli elementi che compongono la produzione sociale – si riproporrebbero per la società nel suo complesso le categorie dell’economica dominante: la società produrrebbe i mezzi di consumo e quelli di produzione (in parte per ricostituire quelli consumati e in parte per ulteriore accumulazione) ad essa necessari, utilizzando quanto viene prodotto per riprodurre la sua vita associata in modo consapevole e seguendo criteri di efficienza, cioè secondo il principio del minimo costo o del massimo prodotto.
    Nessuna distinzione tra ciò che per sua natura dovrebbe essere affidato a questa entità astratta, e separata dalla società, chiamata Stato e ciò che potrebbe essere lasciato al guadagno di gruppi privati di cittadini, che usano dei mezzi di produzione per il proprio specifico arricchimento. Lo Stato sarebbe soltanto servito in quanto, e fino a che rimanesse, promotore della fusione del lavoro delle varie specie e mansioni in un lavoratore complessivo formato da una collettività cooperante, che avrebbe usato gli strumenti per produrre senza alcuna prospettiva di appropriarsene al fine di impiegare lavoro salariato (forza lavoro in qualità di merce).

    4. Nessun dubbio che il socialismo, nelle forme pensate per un secolo da rivoluzionari e riformatori sociali, sia fallito. Non è stata in effetti individuata la strada in grado di condurre alla reale proprietà (potere di disporre) dei mezzi per appropriarsi la natura (quella che chiamiamo produzione) da parte di lavoratori associati (mente e braccio cooperanti non più nello stesso individuo artigiano, ma collettivamente negli opifici di trasformazione di materie prime in prodotti). E’ però errato e fasullo adoperarsi per una cervellotica divisione delle cose (beni e servizi) da produrre – divisione effettuabile a causa della loro specifica natura, soltanto presunta – tra quelle che si possono lasciare alla cura di gruppi tesi al proprio arricchimento particolare e quelle che devono essere invece affidate alla “solerte cura” di quell’entità separata dalla società detta Stato, concepito in modo metafisico come un Soggetto unitario posto al di sopra della collettività e piegato su di essa in qualità di paterno, o cristiano, benefattore.
    E’ del tutto evidente che in società in fase di secolare tendenziale arricchimento complessivo – pur tra altalenanti fasi del ciclo; mai considerato nemmeno esso nella sua natura sociale, ma solo con gli schemini economici di volgari tecnici della sfera produttiva e finanziaria – viene costantemente sfumando la distinzione tra una natura necessariamente pubblica ed una di possibile privatizzazione della produzione delle varie cose, di cui la società va alimentandosi nella sua evoluzione storica. Lo statalismo, cioè l’intendimento di produrre beni e servizi tramite la forma pubblica, resterà alla fine appannaggio di gruppi che combattono le battaglie di temporaneo aggiustamento nelle fasi di crisi e di difficoltà crescenti per vasti gruppi di cittadini. Tali battaglie sono però spesso apertamente reazionarie in quanto necessarie a certi gruppi subdominanti per mascherare la loro subalternità a quelli predominanti stranieri, ingannando quote rilevanti della popolazione con i discorsi di beneficenza per i deboli e diseredati. Lo statalismo è poi in molti casi utile a formare gruppi sociali di sostegno per tali subdominanti; gruppi formati non tanto dai “cittadini” fruitori della spesa pubblica (in particolare di quella effettuata dallo Stato detto sociale, di solito utile e necessaria) quanto invece da quelli impiegati per erogarla, che vengono assunti con metodi del tutto avulsi dalla valutazione sia dell’efficienza in questa “produzione di servizi pubblici” sia della sua effettiva utilità.
    Il “pubblico” diventa allora un ostacolo allo sviluppo produttivo (innovativo) a vantaggio dei subdominanti (asserviti a dei predominanti “esterni”), i quali sono difesi, nel loro parassitismo, dalla costituzione di strati sociali situati in una sfera separata ed estranea a quella produzione che viene effettuata secondo metodi e criteri di efficienza. Si è già considerato che persino Marx accennò a simili criteri quando scrisse di quel “Robinson collettivo” che sarebbe dovuta diventare la società socialista e poi comunista, la società dei produttori associati in insiemi di lavoro, controllori dei mezzi produttivi in reciproca cooperazione. Se il socialismo si è rivelato impossibile, almeno tramite i metodi storicamente posti in opera, non è però il caso di tornare indietro, a concezioni certamente più realistiche e realizzabili, ma in un contesto reazionario che obbliga i produttori a mantenere schiere di parassiti. Affinché non sorgano equivoci, non si individua il parassitismo in base alle solite considerazioni balorde sulla natura dei beni e servizi prodotti. Ci si riferisce semplicemente ad una produzione che ignora qualsiasi principio di produttività ed efficienza e a cui vengono adibite quote eccessive della popolazione per motivi che non riguardano l’utilità e necessità di quanto viene prodotto per via “pubblica”..........segue



    Conflitti e Strategie » Blog Archive » La distinzione tra pubblico e provato; ormai vetusta
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  2. #2
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    Predefinito Re: La distinzione tra pubblico e privato; ormai vetusta

    Devo ancora leggere questo scritto di La Grassa.

    Ci sono però un paio di precisazioni da fare:

    1) La Grassa odia la rivista "Comunismo e Comunità" e, probabilmente, odierà anche noi

    2) La Grassa ritiene vetusto il pensiero marxiano, le sue svariate interpretazioni e anche le sue eventuali "attuazioni/concretizzazioni" storiche. Dalla "lotta di classe" (impossibile, a suo dire, a causa di tare presenti nel summenzionato impianto teorico marxiano) è passato ad una sorta di tifo per una delle due potenze oggi duellanti: la Russia avversaria degli USA. Per questo motivo, infatti, GLG non sopporta non solo l'odioso politically correct o "l'antifascismo in assenza di fascismo", ma anche le proteste sociali portate avanti da chi, in un modo o nell'altro, si richiama al filosofo di Treviri. Eppure quelle proteste sono importanti perché, carte alla mano, il capitalismo sta facendo pagare sulla pelle dei ceti meno abienti le sue "crisi".

    Il forum, quindi, assume una posizione diversa rispetto a quella del Professore.

    Bisogna, tuttavia, essere intellettualmente onesti e "dare a Cesare ciò che è di Cesare". Anche la Grassa, come Preve e pochi altri marxisti o post-marxisti, ha compreso l'inattualità, almeno nel mondo occidentale, della dicotomia destra-sinistra. Ha evidenziato con estremo coraggio l'idiozia che ormai pervade la mente dei "compagni", siano essi moderati o presunti comunisti. Ha gettato a mare il "politically correct" senza indugi. Ha saputo utilizzare lo strumento della geopolitica per meglio comprendere i mutamenti in atto nell'attuale fase storica e , aspetto non certo trascurabile, ha sottolineato la centralità dei ceti medi impoveriti che, in assenza di "marxisti" capaci di ascoltarli, si sono gettati nelle fauci della destra più o meno populista.

    Però , ripeto, non possiamo condividere il fatalismo , alle volte "reazionario", che ho descritto all'inizio del post.

    Mio personalissimo quanto opinabile giudizio: interessante, coraggioso ma da prendere a piccole dosi.
    Ultima modifica di LupoSciolto°; 09-03-16 alle 12:09

  3. #3
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    Predefinito Re: La distinzione tra pubblico e privato; ormai vetusta

    Ho letto l'articolo di GLG, molto lungo, lunghissimo e in cui ci si perde facilmente, un po' come tutti gli scritti di La Grassa, condivido quanto ha scritto Lupo, soprattutto dove Lupo scrive: "Però , ripeto, non possiamo condividere il fatalismo , alle volte "reazionario", sono un po' meno critico di Lupo però nel giudicare il pensiero lagrassiano e il blog Conflitti e Strategie, vero che La Grassa, avendo anche un brutto carattere, si è spesso scontrato aspramente con Preve e di conseguenza con Comunismo e Comunità, però abbiamo già specificato come questo forum si chiami Comunismo e Comunità ma che non sia più, se non in termini marginali, corrispondente al laboratorio politico di Neri (alias Muntzer). Non spetta certamente a me difendere la Grassa non fosse altro perché non mi ritrovo completamente sulle sue posizioni, posizioni che vengono giustamente definite da Lupo fatalistiche, un fatalismo che sembra a volte sconfinare nell'inazione, però ritengo molto interessante il ripensamento del pensiero di Marx e il tentativo di una sua attualizzazione. Mi pare che la posizione di CeF non sia propriamente di un superamento del pensiero marxiano ma di un ripensamento e sono due cose diverse. Quanto alla geopolitica non mi pare una cosa per nulla negativa, metterla al centro dell'azione di un laboratorio politico mi pare assolutamente necessario. Finisco ribadendo anche che CeF è stato criticissimo anche sulla formazione di Stato e Potenza da parte di alcuni suoi esponenti, il forumista Stalinator ad esempio, e questo ha causato delle polemiche da ambo le parti molto aspre e francamente non condivisibili tra i due gruppi. Poi in seguito anche Stato e Potenza si è frammentato dando vita a Socialismo patriottico.
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    Predefinito Re: La distinzione tra pubblico e privato; ormai vetusta

    Citazione Originariamente Scritto da Tovarish01 Visualizza Messaggio
    Devo ancora leggere questo scritto di La Grassa.

    Ci sono però un paio di precisazioni da fare:

    1) La Grassa odia la rivista "Comunismo e Comunità" e, probabilmente, odierà anche noi


    2) La Grassa ritiene vetusto il pensiero marxiano, le sue svariate interpretazioni e anche le sue eventuali "attuazioni/concretizzazioni" storiche. Dalla "lotta di classe" (impossibile, a suo dire, a causa di tare presenti nel summenzionato impianto teorico marxiano) è passato ad una sorta di tifo per una delle due potenze oggi duellanti: la Russia avversaria degli USA. Per questo motivo, infatti, GLG non sopporta non solo l'odioso politically correct o "l'antifascismo in assenza di fascismo", ma anche le proteste sociali portate avanti da chi, in un modo o nell'altro, si richiama al filosofo di Treviri. Eppure quelle proteste sono importanti perché, carte alla mano, il capitalismo sta facendo pagare sulla pelle dei ceti meno abienti le sue "crisi".

    Il forum, quindi, assume una posizione diversa rispetto a quella del Professore.

    Bisogna, tuttavia, essere intellettualmente onesti e "dare a Cesare ciò che è di Cesare". Anche la Grassa, come Preve e pochi altri marxisti o post-marxisti, ha compreso l'inattualità, almeno nel mondo occidentale, della dicotomia destra-sinistra. Ha evidenziato con estremo coraggio l'idiozia che ormai pervade la mente dei "compagni", siano essi moderati o presunti comunisti. Ha gettato a mare il "politically correct" senza indugi. Ha saputo utilizzare lo strumento della geopolitica per meglio comprendere i mutamenti in atto nell'attuale fase storica e , aspetto non certo trascurabile, ha sottolineato la centralità dei ceti medi impoveriti che, in assenza di "marxisti" capaci di ascoltarli, si sono gettati nelle fauci della destra più o meno populista.

    Però , ripeto, non possiamo condividere il fatalismo , alle volte "reazionario", che ho descritto all'inizio del post.

    Mio personalissimo quanto opinabile giudizio: interessante, coraggioso ma da prendere a piccole dosi.
    Personalmente la cosa non mi tange, nè mi impedisce di poter apprezzare eventualmente le posizioni che La Grassa esprime su alcuni particolari argomenti. Non ho mai creduto che si possa nè si debba seguire in toto, in ogni sua parola, pensiero, ed espressione qualsiasi pensatore/filosofo ecc. antico, moderno, o contemporaneo che sia, con il quale si possa sentire affinità di pensieri ed ideali, pena scadere spesso e volentieri nel dogmatismo e nel fideismo. Con alcune cose concorderò e altre invece le rifiuterò, senza farmene alcun problema.
    "L'odio per la propria Nazione è l'internazionalismo degli imbecilli"- Lenin
    "Solo i ricchi possono permettersi il lusso di non avere Patria."- Ledesma Ramos
    "O siamo un Popolo rivoluzionario o cesseremo di essere un popolo libero" - Niekisch

 

 

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