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  1. #211
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    Citazione Originariamente Scritto da Lord Attilio Visualizza Messaggio
    Per le ultime tre è facile. Sono tutte forme politiche che rifiutano la rivoluzione e la dittatura del proletariato. Invece mi pare che il socialismo libertario si rifaccia a certo luxembourghismo e accetta la rivoluzione ma rifiuta la dittatura del proletariato e la conquista dello Stato, cercando di far sorgere il socialismo "dal basso" attraverso la democrazia dei consigli o in ogni caso rifiutando di "reprimere l'individuo". Ciò è contrario in realtà alla concezione dello Stato di Marx, Engels e Lenin, secondo cui lo Stato è sempre dittatura di una classe sull'altra e per fare la rivoluzione è necessaria appunto la dittatura del proletariato, che progressivamente e non subito con la "democrazia dal basso" abolisce tutti le classi e realizza il comunismo. Gian_Maria sul nostro forum un esempio, lui però rifiuta la rivoluzione e vuole realizzare il socialismo attraverso la partecipazione alle elezioni borghesi.
    Diciamo che tutti rifiutano la dittatura del proletariato. Anche il socialismo libertario, come tu stesso hai scritto, pretende di salvaguardare i c.d. "diritti individuali".
    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

  2. #212
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    Ovviamente estendo l'invito anche @RibelleInEsilio e a chiunque voglia partecipare seriamente al dibattito.
    Ultima modifica di LupoSciolto°; 21-01-19 alle 15:54
    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

  3. #213
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    Citazione Originariamente Scritto da LupoSciolto° Visualizza Messaggio
    Volevo sapere cosa , nei fatti, differenzia un comunista da un VERO socialista . Intendiamoci subito: non parlo del PSE né dell'IS (Internazionale Schiavista). So che agli occhi esterni simili discorsi potranno sembrare questioni di lana caprina, ma bisogna avere ben chiaro di cosa stiamo parlando.

    Tralasciando i riformisti, i socialisti possono essere raggruppati nelle seguenti correnti

    Socialismo Libertario: vicino all'anarchismo anche se, talvolta, non d'accordo con la pratica dell'astensionismo elettorale o con l'idea che lo stato vada abolito del tutto. Carlo Cafiero, Francesco Saverio Merlino e l'ultimo Camillo Berneri sono stati i suoi più importanti esponenti.

    Socialismo Massimalista: prima dell'avvento del fascismo, era la corrente guidata da Giacinto Menotti Serrati. Dopo la Seconda Guera Mondiale, rappresentava la sinistra del PSI capeggiata da Lelio Basso. La sua eredità è stata raccolta da Riccardo Lombardi e da piccoli partiti come il PSIUP (1964) e il PDUP. I massimalisti , per quanto siano stati storicamente un gruppo eterogeneo, non sostengono la necessità di una rivoluzione bolscevica quanto, invece, le ben note "riforme strutturali".

    Socialismo Terzista: è una forma di socialismo che non si richiama a Marx o lo fa in maniera del tutto diversa dagli occidentali. Il baath'ismo (fazione siriana) e il nasserismo, possono essere considerati esempi paradigmatici. Nazionalizzazione dei punti cardine dell'economia e potenziamento dello stato sociale , sono i tratti distintivi di questa corrente. Nazionalismo e paternalismo anche.

    Socialismo del XXI Secolo: nasce dalle teorizzazioni di Heinz Dieterich e trova concretizzazione nell'operato dei governi Venezuelani (Chavez e Maduro) e in quello Boliviano (Evo Morales). Il socialismo del XXI secolo , si colloca a metà strada tra comunsimo castrista e socialdemocrazia.
    Per ogni categoria che hai elencato ci sono comunque microcorrenti all'interno, ad ogni modo la più grande differenza resta come già detto da Lord Attilio il ruolo del proletariato inserito nel contesto rivoluzionario, quand'esso è presente, e l'importanza del ruolo istituzionale del partito.

    In questi termini direi che genericamente si può far riferimento ad socialismi di tipo spontaneista (con in testa il socialismo libertario), istituzionale e rivoluzionario.

    Tra l'altro nell'ultima categoria rientra poi la questione della rivoluzione nello Stato o rivoluzione mondiale, che ha ovviamente a che fare col supporto dell'internazionalismo o meno.

    Tornando alla differenza coi comunisti puri, io direi che la grande differenza sta nella concezione del partito che è assoluta, dove il partito nel comunismo diventa appunto istituzione garante al di sopra dello Stato, nessun nazionalismo - anche se c'è chi obietta che comunque il comunismo storico ne abbia assunto comunque molti caratteri - e la visione di fondo della democrazia. Il comunismo storico pone sé stesso come super-partes non accettando altri partiti nemici dell'interesse proletario e imponendo di fatto il partito nella vita sociopolitica del paese. Spesso i socialisti ritengono opportuno, invece, arrivare al socialismo tramite rivoluzioni che siano comunque accompagnate dal supporto popolare ed istituzionale in primo luogo; probabilmente viene da pensare ai modelli sudamericani dove sicuramente la fine dell'URSS ha inciso nell'elaborazione delle strategie politiche.

    In conclusione, un comunista autentico è sempre socialista, non il contrario.
    TIOCFAIDH ÁR LÁ
    ╾━╤デ╦︻

    革命无罪,造反有理

  4. #214
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    Citazione Originariamente Scritto da RibelleInEsilio Visualizza Messaggio

    In conclusione, un comunista autentico è sempre socialista, non il contrario.
    Concordo.
    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

  5. #215
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    EUGENIO SCALFARI, «L’ESPRESSO» E «LA REPUBBLICA»: I ‘GRILLI PARLANTI’ LIBERAL E LA ‘DEMARXISTIZZAZIONE’ DEL PSI



    di Matteo Luca Andriola

    Chi si occupa in veste storiografica della storia della sinistra italiana nel secondo dopoguerra, non può non soffermarsi sul ruolo deleterio e ‘castrante’ dell’ex Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A. (oggi GEDI Gruppo Editoriale) del suo tentativo di normalizzare, demarxistizzandola e avvicinandola sempre di più alla liberal-democrazia, tutta la sinistra italiana con il settimanale «L’Espresso» e quotidiano «la Repubblica», periodici vicini all’area della sinistra laica e riformista, dettandovi legge con l’intento di farle da ‘grillo parlante’ in senso liberal. Ma facciamo un po' di storia generale servendoci dell’autobiografia di Eugenio Scalfari ‘La sera andavamo in Via Veneto. Storia di un gruppo dal Mondo alla Repubblica’ (Mondadori, 1986), da leggere ovviamente con giusti filtri. Quella di Scalfari è la storia di un’area politico-culturale, la liberal-radicale, che dal dopoguerra s’è fatta apertamente rappresentante in Italia degli interessi dell’establishment atlantista, l’asse Londra-New York, che fin dal 1948 aveva spinto Washington all’intesa con la DC, forzata però, perché il partito era sì liberale, ma con forti venature terzomondiste, filoarabe, stataliste e non in totale sintonia con certe aperture laiche quali il libero mercato (a vantaggio invece di un’economia mista e di un “compromesso socialdemocratico” atto alla creazione di una forte industria di Stato e di un welfare state) e un modello valoriale progressista (divorzio, aborto, ecc.). Possiamo dire che il disegno di tale establishment è stato quello di insinuarsi entro la sinistra italiana, demarxistizzando gradualmente prima il PSI e infine il PCI, spostandolo lentamente verso valori “atlantici e liberali”, operazione inziata nel 1955 con la scissione da sinistra del PLI di Malagodi, che favorì la nascita del piccolo Partito Radicale, e conclusasi con la svolta della Bolognina, passando per l’abbandono del marxismo da parte di Craxi, operazione che avvenne sulle pagine del periodico «L’Espresso».



    BREVE STORIA DI UNA LOBBY LIBERAL E ATLANTISTA



    In questo lungo corso c’è sempre il ruolo decisivo di Eugenio Scalfari, a cui va addebitata la parternità dei radicali, dell’«Espresso» e del quotidiano-partito «la Repubblica», un giornale capace di indirizzare (oggi con difficoltà) il lettore in senso atlantico-sionista in politica estera e libdem in campo ideologico.

    Il milieu economico-finanziario-culturale nasce attorno a personalità di area laica democratico-azionista (leggi massonica) come Ferruccio Parri, Ugo La Malfa, Oronzo Reale, Bruno Visentini e l’ex comunista ed europeista Altiero Spinelli – mito dei liberal nostrani, si pensi ai ridicoli supporter ‘millennials’ di +Europa e del PD militanti del “Comitato Ventotene” –, esponenti del mondo finanziario come Raffaele Mattioli, Enrico Cuccia, Donato Manichella, Guido Carli, del grande capitalismo nostrano come Vittorio Valletta, Adriano Olivetti e Cesare Merzagora ed esponenti del “Congresso per la libertà della cultura” – che alcuni brutalmente definiranno al soldo del duo CIA-M16 – come Benedetto Croce, Mario Pannunzio, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Alberto Moravia, Nicola Carandini ecc. tutti in contatto con il giovane Scalfari, rampollo di una famiglia benestante inserito in tali ambienti che nel 1950 sposa Simonetta De Benedetti, figlia di Giulio, storico direttore de «La Stampa» di Torino.

    L’esordio di tale scalata in seno alla sinistra inizia il 19 febbraio 1949 con la nascita del settimanale «Il Mondo», giornale “laico e anticlericale”, diretto da Mario Pannunzio che, spiega Scalfari, voleva creare «una terza forza politica che bilanciasse i due super-partiti DC e PCI», e che porterà nel 1955 alla nascita del Partito Radicale, dominato dall’ala anglofila del settimanale, quale Pannunzio, Scalfari e Paggi, il tutto con lo scopo, evocando il radicalismo democratico di inizio ‘900 di Felice Cavallotti, di emulare l’esperimento francese di Pierre Mendès France, erodendo la spazio a sinistra occupato dal PCI di Togliatti, all’epoca filorusso, marxista-leninista e patriottico, cercando di far leva non sui diritti sociali, ma solo su quelli civili, individualistici. Sempre nel 1955 esce «L’Espresso», ideato sempre da Scalfari e dall’allora direttore de «L’Europeo» col benestare di Raffaele Mattioli, allora direttore del Comit ed esponente della “finanza laica”, e foraggiato, spiega lo stesso Scalfari, dal magnate dell’Ivrea Adriano Olivetti, vicino all’azionista Ferruccio Parri e, dai tempi della guerra (nome in codice “Brown”), all’intelligence britannico, e sostenitore dell’euro-federalismo di Altiero Spinelli, membro del Movimento Federalista Europeo. Insomma, un’esponente dell’alta borghesia liberale, laica e anglofila, che fornirà fondi per creare una rivista rivolta, a differenza dell’elitario «Mondo» vicina ai circoli filoradicali, alle masse, sensibilizzandole sempre sulle tematiche care a certo radicalismo liberale. Olivetti cederà il 60% delle quote a Carlo Caracciolo (rampollo della nobiltà partenopea in odor di massoneria), il 5% a Scalfari e un altro 5% ad Arrigo Benedetti. Con Caracciolo proprietario di maggioranza, oltre ai temi laici, inizierà un’offensiva che, parallelamente agli scoop a destra pubblicati da «Il Borghese» di Mario Tedeschi, colpirà l’ENI di Enrico Mattei (“L’inquinamento dei partiti comincia da lui”, scrive Scalfari), Eugenio Cefis, l’ala ‘statalista’ della DC (Aldo Moro in primis) e il PCI di Togliatti, in nome di un capitalismo anglosassone ‘etico’, onesto, pena le manette. Il ruolo del gruppo nel referendum radicale del 1974 a favore del divorzio è indiscutibile.

    E’ questa la spinta che porta il gruppo, nel 1976, a creare «la Repubblica», per traghettare poco a poco tutta la sinistra – dato che il quotidiano, appena nato, ondeggia fra la sinistra extraparlamentare e quella riformista, spiegano Valerio Castronovo e Nicola Tranfaglia ne ‘La stampa italiana nell’età della TV’ (Laterza, 1994, p. 9) – e Botteghe Oscure da Mosca verso Washington, creando quello che inizialmente, nel mondo del PCI, sarà il secondo quotidiano dopo «l’Unità» e «Paese-Sera», due dei quotidiani più letti nell’Italia di quegli anni, un giornale ‘giovanilista’ inizialmente, che strizza l’occhio, nel suo accattivante formato berlinese, al pubblico della sinistra extraparlamentare che legge periodici come «Lotta Continua», «Potere Operaio», «Il manifesto», ecc. dando voce al movimento giovanile nelle università e puntando sull’approfondimento, ovviamente schierato. I fondi per «la Repubblica» (5miliardi di lire) verranno trovati associandosi a Mario Formenton, socio della Mondadori e proprietario di «Panorama», all’epoca non diverso dall’«Espresso». Si unirà Pier Leone Mignanego, cioè Piero Ottone, esponente del giornalismo anglofilo, collaboratore della PWB, la Psychological Warfare Division nel 1945 ed ex direttore nel 1972 – incaricato da Giulia Maria Crespi – del «Corriere della Sera», a cui darà un taglio liberal e progressista che determinerà l’uscita dell’ala conservatrice guidata da Indro Montanelli, che nel 1974 creerà «il Giornale».



    L’EVOLUZIONE ANTROPOLOGICA DEL PSI E SCALFARI



    Non mi soffermerò sul caso PCI, noto ai più, ma su quello più subdolo attuato col PSI di Bettino Craxi, contro cui però verrà scatenata un’offensiva appoggiando l’ala euro-federalista della DC. La svolta del Midas, avvenuta lo stesso anno della nascita de «la Repubblica», porterà il PSI, guidato da Craxi, ad un progressivo distacco da quel PCI che, nel bene e nel male, rimaneva ancora “marxista”. Tutto nasce in corrispondeva della “guerra fra le sinistre” contro il PCI berlingueriano, che avviene subito dopo l’ascesa di Craxi alla segreteria socialista e che portò il PSI all’abbandono di ogni riferimento al marxismo e all’approdo al “liberalsocialismo”, che passa da una querelle durata tutto il 1977 in corrispondenza del 60° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre che porta gradualmente il PSI – usando lo staff di «Mondo Operaio», lo storico Massimo L. Salvadori in primis – ad attaccare Lenin rivalutando prima il riformista Kautsky e l’antileninista Rosa Luxemburg, e che culminerà l’anno successivo, prima col convegno internazionale organizzato a marzo dall’Istituto socialista di studi storici dal titolo ‘Rivoluzione e reazione in Europa’, che ruotava attorno alla tesi secondo cui la Rivoluzione bolscevica interrompeva il processo di nazionalizzazione delle masse proletarie portato avanti dai partiti della II Internazionale dalla fine dell’800, provocando le reazioni degli storici comunisti, e nell’estate, con l’intervista concessa nientemeno che da Craxi direttamente ad Eugenio Scalfari per «L’Espresso» del 27 agosto 1978 intitolata ‘Per noi Lenin non è un dogma’, i cui contenuti furono ulteriormente sviluppati nel libro intitolato il ‘Vangelo socialista’, scritto da Craxi insieme allo storico Luciano Pellicani, e sitetizzati dallo stesso Craxi in un articolo apparso su «Mondo Operaio» nel mese di settembre con il titolo ‘Leninismo e socialismo’, che portò Craxi a scrivere che Lenin teorizzerebbe «il diritto-dovere degli intellettuali guidati dalla “scienza marxista” di sottoporre la classe operaia alla loro direzione», per questo il ‘Che fare?’ è «una aggressiva ripresa del progetto di Robespierre, che già molte scuole socialiste avevano definito come una sorta di dispotismo pseudo-socialista».

    «Con il successo storico-politico del leninismo, la logica giacobina, con tutte le sue componenti vecchie e nuove che sfociano nella dittatura rivoluzionaria, prende il sopravvento sulla logica pluralistica e democratica del socialismo e la Russia si incammina sulla strada del collettivismo burocratico-totalitario. […] C’è nel leninismo la convinzione che la natura umana è stata degradata dalla apparizione della proprietà privata, che ha disintegrato la comunità primitiva scatenando la guerra di classe. E c’è soprattutto il desiderio di ricreare l’unità originaria facendo prevalere la volontà collettiva sulle volontà individuali, l’interesse generale sugli interessi particolari. In questo senso il comunismo è organicamente totalitario, nel senso che postula la possibilità di istituire un ordine sociale così armonioso da poter fare a meno dello Stato e dei suoi apparati coercitivi. Questo “totalitarismo del consenso” deve però essere preceduto da un “totalitarismo della coercizione”».



    Come noto, Craxi risale a Marx e, recuperando le critiche rivoltegli dal francese Pierre-Joseph Proudhon, afferma che



    «non si deve confondere il socialismo con il comunismo, la piena libertà estesa a tutti gli uomini con la cosiddetta libertà collettiva, il superamento storico del liberalismo con la sua distruzione. Il carattere autoritario di ciò che viene chiamato il “socialismo reale maturo” non è una deviazione rispetto alla dottrina, una degenerazione frutto di una somma di errori, bensì la concretizzazione delle implicazioni logiche dell’impostazione rigidamente collettivistica originariamente adottata. L’esame dei fondamenti del leninismo non può che confermare tale tesi».



    La scelta dell’«Espresso» come luogo d’inizio della svolta liberalsocialista craxiana non è affatto casuale – dato che le svolte del PCI avverranno spesso sulla stampa liberal, dalla scelta dell’“ombrello protettivo della NATO” di Berlinguer esposta su un «Corriere della Sera» ormai liberal e retto dall’anglofilo Ottone, poi sulle pagine di «Repubblica», al tifo esasperato per la svolta della Bolognina fino a De Benedetti tessera n° 1 del PD, scelta tutt’altro che casuale –, e serviva, probabilmente, a portare a termine, cavalcando la rivalità fra PCI e PSI, la trasformazione liberal della sinistra italiana. Era questo l’obiettivo del gruppo editoriale di De Benedetti – cavalcando i legami che si erano costruiti sui temi della laicità coi radicali fin dagli anni ‘50 e che verranno invece a saltare quando Craxi sposerà la linea della fermezza sul tema della droga, caro a Pannella –, e che in parte riuscirà, dato che il PSI toglierà la falce e martello a vantaggio del garofano, a demarxistizzare il partito vedendo i socialisti italiani, come i compagni francesi (si pensi a Mitterand che archivia le riforme di struttura su consiglio dei suoi tecnici per stare dentro ai paramentri monetari del SME e sposare anch’egli il “liberalsocialismo”), aprirsi al mercato (si pensi al decreto di San Valentino sul taglio di quattro punti di contingenza della scala mobile) divenendo essi il referente elettorale della nuova borghesia rampante, gli yuppie, e, in quell’edonistico decennio, creare un modello che non va all’élite tecnocratica che guarda ad un’Italia “normalizzata”, retta da un sano bipolarismo fra un polo progressista e uno moderato, dato che Craxi, nonostante tutto, porterà avanti una politica estera mediterranea ‘sovranista’ in continuità con la vecchia DC e l’ENI di Mattei, non privatizzare l’industria di stato e a opporsi all’ingerenza americana, senza però rompere mai con la NATO, nel caso Sigonella, che vedrà il PCI; nonostante tutto, tifare per colui che si era schierato con la resistenza palestinese.

    Anche se va detto che, per differenziarsi dal PCI, Bettino Craxi, riscoprendo il patriottismo risorgimentale – dato che, tolto Karl Marx, andava ricreato un pantheon a sinistra, fatto di progresso sociale, e nulla meglio dell’epopea risorgimentale poteva servire al politico italiano – nel dare vita a quella stagione del “socialismo tricolore”, porterà il PSI, quasi segno del riflusso di quegli anni, a dar credito a certi settori della cosiddetta “sinistra nazionale” del MSI, come il futuro ideologo della destra sociale di AN Giano Accame e Beppe Niccolai, e addirittura della Nuova Destra di Marco Tarchi, l’intellettuale ex missino vicino al filosofo francese della Nouvelle Droite, Alain de Benoist, con l’apertura della casa editrice socialista SugarCo ad esponenti delle due aree di destra (Marcello Veneziani in testa, che darà alle stampe nel 1987 ‘La rivoluzione conservatrice in Italia. Genesi e sviluppo dell’“ideologia italiana”’, oltre ad opere di autori di destra come Spengler e Jünger) e venendo ricambiata, con pubblici confronti fra intellettuali neocraxiani provenienti dalla “nuova sinistra” sessantottina con la “nuova destra metapolitica” a vocazione egemonica e “gramsciana”, fautori di una logica sincretica et-et (la ‘nuova sintesi’) che sembrava concretizzarsi con un socialismo per l’appunto “tricolore”, che aveva caratteristiche diverse da quelle del vecchio PSI, come l’antimarxismo, apertura al presidenzialismo e spirito decisionista (non scordiamoci che Forattini, su «Repubblica», dipingerà Craxi con fattezze… mussoliniane. Se per i liberal ciò era sconveniente, ai neofascisti e alla nuova destra poteva piacere), incontri come quello documentato da Giampiero Mughini nella rivista «Pagina» nel numero di agosto-settembre del 1982.

    Ma la scelta di quell’asse privilegiato con la destra DC (l’asse Andreotti-Forlani) e con quella che è l’industria di stato, spingerà il gruppo editoriale di De Benedetti ad iniziare un’offensiva contro il politico, che li accuserà di esser parte della “nuova destra tecnocratica”, offensiva che si concluderà con Tangentopoli. Scalfari scrive che «I socialisti del nuovo corso hanno coniato una definizione curiosa: noi saremmo la nuova destra, assieme ad alcuni esponenti dell’imprenditoria (leggi De Benedetti), ad alcuni grandi borghesi (leggi Bruno Visentin), all’ala berlingueriana del PCI. Una nuova destra tecnocratica, giacobina, illuminata, che però non disdegna gli affari corsari e vagheggia governi presidenziali di tipo (pensate un po'!) badogliano».

    L’accusa dei socialisti fa capire che quello che oggi volgarmente definiamo ‘piddismo’ ha origini antiche, e che l’accusa di «vagheggia[re] governi presidenziali di tipo […] badogliano», non può che ricordarci il tifo del Gruppo editoriale e del PD per lo spread fatto nel 2011 e nel 2018, il primo dei quali ci condurrà al governo il tecnico, espressione dell’estrema destra finanziaria, Mario Monti. Insomma, il lupo perde il pelo ma non il vizio… golpista. Solo leggendo la sua storia possiamo capire perché tale giornale è stato in prima linea a sostenere le offensive euro-americane in giro per il mondo, Tangentopoli, la svendita dell’industria di stato, le rivoluzioni colorate, le primavere arabe, il Rubygate (per eliminare Berlusconi, non più credibile per l’establishment, nonostante l’accondiscendenza verso l’imperialismo statunitense) e il caso Regeni, e cioè perché nasce in funzione atlantista.




    Notizia del: 02/02/2019

    https://www.lantidiplomatico.it/dett..._psi/82_26993/
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  6. #216
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    I cubani approvano nelle urne la nuova Costituzione



    Con l’86.85% dei voti espressi a favore del Sì (6,816,169 voti) e solo il 9% per il del No (706,400 voti), la stragrande maggioranza della popolazione cubana ha sostenuto la nuova Costituzione della Repubblica


    Dopo un lungo processo di dibattito partecipativo, la riforma costituzionale è stata approvata questa domenica a Cuba. Lo ha affermato la Commissione elettorale nazionale nel fornire i dati preliminari del voto.

    Con l’86.85% dei voti espressi a favore del Sì (6,816,169 voti) e solo il 9% per il del No (706,400 voti), la stragrande maggioranza della popolazione cubana ha sostenuto la nuova Costituzione della Repubblica. Il 4,15% ha annullato il proprio voto o ha votato in bianco. La partecipazione è stata alta: 84,4%, così che il 73,3% del corpo elettorale ha approvato il contenuto del testo legale più importante del paese. Tuttavia, entrambe le percentuali sarebbero più alte, perché si tratta di dati preliminari.

    "E' stata ratificata la Costituzione della Repubblica di Cuba, con un referendum costituzionale lo scorso 24 febbraio 2019, da parte della maggioranza dei cittadini con diritto di voto”, ha affermato il presidente della Commissione Elettorale Nazionale, Alina Balseiro Gutiérrez .

    "Noi cubani abbiamo dato un sì a Cuba e un sì alla rivoluzione. Una risposta energica agli increduli che da Washington vociferano sulla fine del socialismo, con politiche che hanno oltre 60 anni di comprovato fallimento", ha dichiarato il ministro degli Esteri cubano, Bruno Rodriguez, al conoscere i risultati.

    Il capo dello Stato, Miguel Diaz-Canel ha affermato ai media dopo aver lasciato il seggio elettorale, che si tratta di una costituzione "moderna" che "formula uno Stato socialista di diritto". "Ci consentirà di sbloccare i processi e avanzare in modo più determinato nella costruzione del modello socio-economico", ha aggiunto.Ha poi ricordato che "il 24 febbraio del 1976, Cuba ha approvato la prima Costituzione socialista, già in Rivoluzione”, che ha implicato un "momento di crescita, istituzionale, giuridico e avanzamento costituzionale".


    Miguel Díaz-Canel Bermúdez

    @DiazCanelB
    Ya en familia votamos, dando un #SíPorCuba un #SíPorLaRevolución un Sí por el presente y el futuro de #Cuba���� #SomosCuba #SomosContinuidad

    Cosa prevede la nuova Costituzione?



    Il testo approvato nel referendum di questa domenica comporta una serie di modifiche di vario genere e mantiene diritti consacrati dal modello cubano. Tra gli articoli più importanti ci sono:



    Titolo II: aggiornamento del modello economico e riconoscimento del mercato, della proprietà privata e degli investimenti esteri per far fronte al blocco degli Stati Uniti.



    Articolo 4: viene ribadito che il paese tornerà al capitalismo e sottolinea il carattere "irrevocabile" del sistema socialista.



    Articolo 82: il matrimonio è considerato come una forma di organizzazione familiare “fondato sul libero consenso e la parità di diritti, doveri e capacità giuridica dei coniugi". Viene così modificata la descrizione di unione tra uomo e donna, aprendo la porta alla legalizzazione in futuro del matrimonio paritario.



    Articoli 126 e 127: si crea la carica di presidente del paese che avrà un mandato di cinque anni con un'opzione per una singola rielezione per un periodo di tempo simile. Inoltre, l'età minima richiesta per candidarsi a questa posizione sarà di 35 anni e l'età massima di 60 anni al momento della presentazione per la prima volta.



    Articolo 15: la natura secolare dello Stato è resa esplicita e viene mantenuta la libertà di credo e l'eguale rispetto per tutti i credenti.



    L'articolo 55 afferma che "i media fondamentali di comunicazione sociale” in qualsiasi forma e supporto sono proprietà socialista e "non possono essere oggetto di altri tipo di proprietà”.



    Articolo 42: tutte le persone riceveranno "parità di retribuzione per lo stesso lavoro, senza alcuna discriminazione".



    Articoli 72 e 73: sia la salute che l'istruzione saranno garantite dallo Stato a titolo gratuito.



    Articolo 86: si riconoscono bambini, bambine ed adolescenti come soggetti di pieno diritto per assicurare "uno sviluppo armonioso e completo" tenendo conto “dei loro interessi nelle decisioni e le azioni che li riguardano."



    Secondo l’agenzia Prensa Latina, quasi 9 milioni di cubani, circa 11.500.000 di abitanti, hanno partecipato a 133.000 incontri di discussione svoltisi in quartieri, centri di lavoro e centri di studio. Da lì sono sorte circa 783.000 proposte di modifica, aggiunta o cancellazione di articoli.

    Fonte: America XXI/RT/Prensa LatinaNotizia del: 26/02/2019

    https://www.lantidiplomatico.it/dett...ione/82_27340/
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  7. #217
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    VIDEO. Mosca. Milioni di persone partecipano alla marcia del 'Reggimento Immortale' per celebrare la vittoria contro il nazismo





    Milioni di persone, oggi 9 maggio, sono scese per le strade di varie città russe e di altri paesi con ritratti di coloro che hanno combattuto per sconfiggere la Germania nazista.


    A Mosca, un milione di persone è stato stimato per onorare i caduti e i veterani della Grande Guerra Patriottica.


    Inoltre, l'evento si svolge in altre città in tutta la Russia in corrispondenza della parata che commemora la capitolazione della Germania nazista nel 1945.

    Come è tradizione, i partecipanti alla marcia portano i ritratti dei loro parenti caduti e veterani che hanno combattuto per la pace delle generazioni successive.

    La Marcia del Reggimento Immortale si svolge anche in città di Stati Uniti, Argentina, Brasile, Australia, Polonia, Giappone, Cina e Germania.

    Come è nato il Reggimento immortale?

    L'iniziativa di onorare coloro che hanno combattuto nella Grande Guerra Patriottica, un periodo drammatico della seconda guerra mondiale, è sorto in Russia nel 2007.

    Dopo la sua nascita, il Reggimento Immortale ha guadagnato popolarità nei paesi dell'ex Unione Sovietica.

    Negli ultimi anni, questa commemorazione si è diffusa in tutto il mondo.

    La Grande Guerra Patriottica, la più sanguinosa guerra della storia, è costata la vita a decine di milioni di persone e ha cambiato per sempre il corso dell'umanità.

    Così, ogni 9 maggio i numerosi partecipanti all'evento dimostrano che nessuno sarà dimenticato.

    Fonte: RtNotizia del: 09/05/2019

    https://www.lantidiplomatico.it/dett...ismo/82_28344/
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  8. #218
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    1° OTTOBRE 1949: A 70 ANNI DALLA NASCITA DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE IL RUOLO DELLA CINA OGGI



    Il primo ottobre del 1949 Mao Zedong dichiarò la fondazione della Repubblica Popolare Cinese. A 70 anni da quella storica Dichiarazione pubblichiamo le conclusioni che Fosco Giannini ha svolto ad un dibattito su “La Cina della Nuova Era” lo scorso venerdì 13 settembre presso il Circolo ARCI “La Cricca” di Torino



    di Fosco Giannini *
    *direzione Nazionale PCI

    Care compagne e cari compagni, care cittadine e cari cittadini di Torino,

    in prossimità del 70° anniversario della Dichiarazione di Mao Zedong per la fondazione della Repubblica Popolare Cinese (1° ottobre 1949) il PCI di Torino ha voluto, a partire dalla presentazione del libro “La Cina della Nuova Era” (curato da chi parla e da Francesco Maringiò ed edito da “La Città del Sole) avviare un dibattito sul ruolo della Cina oggi.

    Vorrei intanto ringraziare il folto pubblico che questa sera ha voluto essere presente e ringraziare i militanti del PCI di Torino che hanno organizzato così bene questo importante evento.

    Prima di addentrarci nel dibattito sulla Cina oggi e nella presentazione diretta del libro, che affronta i temi del 19° Congresso del Partito Comunista Cinese, svoltosi nell’ottobre del 2017, vorrei innanzitutto ricordare, rimarcare, il carattere di massa e democratico di questo stesso Congresso, che – come avevano fatto gran parte dei media occidentali – il quotidiano italiano “La Repubblica”, aveva invece presentato come “la discussione chiusa di una cerchia esoterica”. Bene: il 19° Congresso del PC Cinese si è invece svolto esattamente al contrario: i circa 90 milioni di iscritti al PC Cinese hanno partecipato al dibattito in tutti i territori e hanno eletto i 2.880 membri dell’Assise a Pechino. Il punto è che in Occidente permane una visione colonialista ed imperialista dell’Oriente, una visione che parte dal senso di superiorità della cultura occidentale e rende impossibile, per l’Occidente, la comprensione del nuovo Oriente, la comprensione dello stesso sviluppo economico, sociale e democratico cinese.

    Come introduzione alle questioni poste dal libro e relative alla discussione sulla Cina oggi, credo sarebbe opportuno misurare il livello del titanico sviluppo economico cinese degli ultimi 30 anni attraverso due questioni:
    -primo, i circa 800 milioni di uomini e donne cinesi che lo stesso sviluppo ha tratto fuori dalla povertà;

    -secondo, il potentissimo impatto politico e geo-politico della Cina Socialista sull’ultima fase storica mondiale.

    Per ciò che riguarda il primo punto: la guerra di posizione condotta dalla classe dirigente del PC Cinese ha visto negli ultimi 40 anni di Riforme e Apertura 800 milioni di cinesi affrancarsi dalla povertà, un fenomeno che è stato definito dalla Banca Mondiale come uno dei più grandi racconti della storia dell’umanità. Di questi 800 milioni, 60 sono usciti dalla condizione di povertà soltanto negli ultimi 6 anni. Il dato è enorme, d’importanza epocale. Tuttavia l’Occidente capitalistico tende a trascurare questo dato, a non attribuirgli l’immensa portata storica che ha. E pensare che nell’Occidente capitalistico, specie nell’area dell’Unione Europea, sta avvenendo esattamente il contrario di quanto è accaduto in Cina: in questa parte capitalistica del mondo, infatti, sempre più vaste sono le aree della povertà e del disagio sociale, come conseguenza della disoccupazione e della precarizzazione di massa, della specifica inoccupazione, precarizzazione e disoccupazione giovanile (in Italia oltre il 50% dei giovani sono senza lavoro), della distruzione del welfare e della sottosalarizzazione di massa.

    Secondo punto: il ruolo dello sviluppo cinese nel nuovo quadro internazionale.

    Il 26 dicembre del 1991 la gloriosa bandiera sovietica viene ammainata dalla cupola del Cremlino. Scompare l’URSS e cambia radicalmente la Storia. Fukujama decreta “la Fine della Storia”. Con la scomparsa dell’URSS si liberano immediatamente gli spiriti animali dell’imperialismo e del capitalismo mondiale. Il nuovo e intero mondo viene da essi percepito come un totale e smisurato mercato da conquistare, con le buone o con le cattive, con la penetrazione economica o con la guerra. La stessa concezione liberale, idealistica e anti dialettica de «la fine della Storia», già messa a fuoco da studiosi del campo conservatore, viene eletta a categoria assoluta e chiave di lettura della fase presente e del divenire. Con la sconfitta dell’URSS si afferma, da parte dell’euforico fronte imperialista e capitalista mondiale, che «la storia è conclusa» e «il socialismo si mostra ai popoli per quello che è: un’illusione irrealizzabile»; per il fronte imperialista e per il pensiero borghese la scomparsa dell’Unione Sovietica «ratifica» formalmente, anche sul piano filosofico, che «il capitalismo è natura, eterno e immodificabile».

    In questa stessa fase temporale nella Repubblica Popolare Cinese è in atto un duro scontro tra la corrente «riformista» del Partito Comunista Cinese, guidata da Hu Yaobang e la maggioranza del Partito, guidato da Deng Xiaoping. Hu Yaobang ha messo in moto un movimento («doppio cento») che si richiama (inopinatamente) a quello dei «cento fiori», del 1956; che tende a mobilitare di nuovo quel movimento, che chiede una maggiore separazione tra Partito e Stato ma che, nella stessa dinamica politica, sociale e ideologica messa in campo nella battaglia contro il Partito, sfocia nella sfera politico-culturale liberista, nella negazione dei prodromi del progetto «denghista» dell’«economia socialista di mercato», finendo per inclinare in senso antisocialista e filo americano. Una doppia inclinazione che porta il movimento «doppio cento» a cercare apertamente, nel 1989, il sostegno di Gorbaciov, già perdutosi, in questa fase, nel caos distruttivo dell’Unione Sovietica e dell’intero campo socialista e dunque osannato dai «doppiocentisti» durante la sua visita in Cina; sorretto, il movimento «doppiocentista», soprattutto da una parte del movimento studentesco di Pechino, sfociato e culminato – tra il 16 e il 17 maggio 1989, in piazza Tienanmen– nella richiesta di una democrazia borghese di stampo nordamericano, che se conquistata avrebbe decretato la morte del «socialismo dai caratteri cinesi» ancora in evoluzione. Come avrebbe fatto mancare (in relazione a ciò che lo sviluppo pieno del progetto «denghista» avrebbe, nei decenni successivi, positivamente rappresentato sia per il popolo cinese che per i popoli in via di liberazione nel mondo) il pilastro fondamentale per la ricostruzione di quel fronte mondiale antimperialista che, invece, in poco più di un quindicennio, si sarebbe ripresentato sulle scene internazionali.

    Lo scontro tra il movimento di Hu Yaobang e la sua degenerazione liberale e la linea di Deng Xiaoping è fortunatamente vinto da quest’ultimo e dalla maggioranza del Partito Comunista Cinese. Con la sconfitta del movimento «doppio cento» e la sconfitta della Piazza Tienanmen, la svolta politica ed economica cinese diretta ad un’«economia socialista di mercato» s’invola. Prima con Deng, poi con Jang Zemin, Hu Jintao e Xi Jinping alla guida del Partito Comunista Cinese, lo sviluppo economico porta la Cina – da un’arretratezza delle forze produttive ancora segnata, alla fine dell’era maoista, persino da alcuni caratteri feudali, specie nel lavoro dei campi, nella produzione agricola, ma non solo – a conseguire, «la posizione di seconda più grande economia del mondo, contribuendo per più del 30 per cento alla crescita economica globale».

    Gli 800 milioni di uomini e donne cinesi che nella nuova fase di sviluppo economico sono tratti fuori dalla miseria e dalla fame, dicono solo una parte della grande crescita cinese, che cambia positivamente il mondo mutandone i rapporti di forza tra poli e Stati imperialisti e poli e Stati dal carattere socialista, antimperialista e in via di liberazione anticolonialista. Uno sviluppo, quello cinese, che, incredibilmente, prende corpo in un contesto terribilmente ostile per ogni esperienza e progetto socialista e che la dice lunga sulla lungimiranza, sul senso rivoluzionario, sulla determinazione e sullo sguardo lungo dei gruppi dirigenti del Partito Comunista Cinese; un contesto segnato dalla controrivoluzione «gorbacioviana» e dalla conseguente scomparsa dell’URSS e del campo socialista; dalla scomparsa del Comecon (l’area di scambio mercantile socialista); dalla nuova aggressività economica e militare imperialista e dal fronte interno guidato da Hu Yaobang e da Piazza Tienanmen, un fronte ben visto dagli USA e dall’occidente capitalistico e obiettivamente diretto a destabilizzare il socialismo e il Partito Comunista Cinese.

    A posteriori, aiutati dallo stato presente delle cose, è facile dirlo: ma se il Partito Comunista Cinese non avesse scelto e intrapreso la via del pieno sviluppo delle forze produttive, attraverso il coraggioso lancio di quel progetto autonomo, indipendente dai poli imperialisti e capitalisti mondiali chiamato «economia socialista di mercato» e avesse invece mutuato le scelte «gorbacioviane», la Cina (invece di dotarsi di una propria, possente, autonomia) sarebbe stata, con ogni probabilità, preda, nella fase mondiale iperliberista successiva alla caduta dell’URSS, delle forze imperialiste; sarebbe stata penetrata da queste forze e avrebbe corso il forte rischio di una propria polverizzazione interna, di una propria implosione, a partire dall’immediata autonomia del Tibet, possibile primo mattone a cedere di un’intera struttura.

    Oggi possiamo più agevolmente affermare, alla luce dei fatti compiuti, che le vittorie «denghiste» su Piazza Tienanmen e sul movimento di Hu Yaobang (con il conseguente pieno avvio di quello che sarebbe stato il più grande sviluppo economico e sociale della storia dell’umanità, lo sviluppo cinese attraverso «l’economia socialista di mercato») si sarebbero offerte quali decisive basi materiali per giungere – da lì a pochi anni e in una fase storica così difficile per il movimento comunista, rivoluzionario e operaio mondiale da consentire alle forze imperialiste di credere davvero nella «fine della storia» – alla costituzione di un fronte antimperialista, e comunque libero dall’egemonia imperialista, in grado di cambiare i rapporti di forza mondiali a sfavore degli USA e delle altre potenze imperialiste.

    Parliamo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) che a soli 18 anni (un lampo, nella storia!) dalla caduta dell’URSS si uniscono – tra il 2009 e il 2010- al fine di sviluppare una politica non subordinata alle forze imperialiste e invece solidale con i popoli e gli Stati in via di liberazione. Un’unione, quella dei BRICS, che non è stata un fatto isolato, ma ha prodotto, attorno al cardine cinese, sempre più vasti campi di alleanze politiche ed economiche tra Paesi – dell’America Latina, dell’Africa, dell’Asia - in via di liberazione dall’egemonia imperialista. Costruendo un grande campo interattivo in espansione che è la vera e positiva novità storica di questa fase.

    Ora, nuove contraddizioni attraversano i BRICS, tuttavia è del tutto evidente come l’immenso sviluppo economico (e dunque politico e geopolitico) cinese sia stato il massimo collante di questa unione, di questo nuovo campo tendente a «spuntare le unghie all’imperialismo».

    Il tempo che ci separa dal 26 dicembre 1991 (autoscioglimento dell’URSS) ad oggi possiamo dividerlo – seppur rozzamente, ma per far «ordine» nel quadro internazionale – in tre grandi fasi: la prima, quella segnata dall’euforia imperialista successiva alla caduta dell’URSS e del campo socialista; la seconda, quella delle grandi lotte a carattere antimperialista e socialista che si alzano (raggelando il fronte che aveva «deciso» la «fine della storia») in tutta la loro evidenza in America Latina, che si allargano in Africa, che prendono forme antimperialiste diverse nella Russia di Putin, in India, che si consolidano in Vietnam e in altre aree dell’Asia. Tutte forme socialiste e antimperialiste che trovano nella Repubblica Popolare Cinese e nel suo sviluppo la loro prima e massima sponda, il primo alleato, il centro di gravità.

    La terza fase che possiamo mettere a fuoco, in questo lasso di tempo che ci separa dal fallimento «gorbacioviano» e dalle sue catastrofiche conseguenze, è quella che oggi viviamo: la fase caratterizzata dalla risposta violenta, militare dell’imperialismo a guida USA e NATO all’«insurrezione» antimperialista internazionale” e al rafforzamento del fronte antimperialista mondiale che trova nella Cina Socialista il proprio cardine.
    Come rispondono gli USA e la NATO alla ripresa di questo nuovo fronte antimperialista? Rispondono in due modi: con una nuova escalation militare sul piano mondiale ed un nuovo e vastissimo processo di militarizzazione internazionale da una parte; con un’acutizzazione dei processi di mondializzazione economica imperialista e con un neo-nazionalismo ed un neo-protezionismo – guidato da Trump - dall’altra.
    Sia la nuova espansione militare USA e NATO che le nuove politiche economiche segnata dal neo-nazionalismo che dal neo-protezionismo contengono in sé – recuperando la volontà di guerra di quell’ imperialismo che volle la Prima Guerra Mondiale- tutti i prodromi della guerra.

    Come risponde a questa nuova, attuale, politica economico-militare USA e NATO? La Cina Socialista risponde proponendo all’intero mondo una nuova politica economica caratterizzata da relazioni economiche e scambi commerciali vicendevolmente proficui tra Stati e Stati, tra popoli e popoli, risponde con un titanico progetto internazionale segnato dalla filosofia win-win e dalla Nuova Via della Seta.

    Ed è del tutto evidente che, mentre le nuove politiche imperialiste USA caratterizzate dalla centralità del rilancio dell’industria bellica e dall’aggressività neo-nazionalista e neo-protezionista sono grondanti di guerra, è del tutto evidente come, al contrario, la politica economica cinese segnata dalla filosofia win-win e dalla Nuova Via della Seta abbia assolutamente bisogno, per svilupparsi, della pace sul piano mondiale.

    La «legge» di Marx («il socialismo è lo sviluppo delle forze produttive») trova nell’attuale potenza internazionale cinese e del Partito Comunista Cinese, la sua probante conferma. Ed è, dunque, tale, rivoluzionario, sviluppo delle forze produttive che dobbiamo indagare, mettere a fuoco. Anche per rafforzare l’attuale pensiero politico-teorico comunista generale.

    Nell’affrontare «la questione cinese» e, in particolare, la relazione tra la NEP di Lenin e la «NEP» cinese, credo sia utile affidarsi ad una disciplina teorica, la massima disciplina teorica, quella secondo la quale è dalla base materiale dello sviluppo delle forze produttive e dallo sviluppo sociale generale che trovano possibilità di sviluppo le stesse «idee» e, più precisamente, le innovazioni – antidogmatiche, dunque, per la loro stessa natura di «forme» innovative – sui terreni dell’economia, della politica, della teoria, del pensiero e della prassi della trasformazione sociale, della transizione al socialismo.
    Ed è indubbio che il titanico sviluppo economico e sociale intrapreso e conquistato dalla Repubblica Popolare Cinese e dal Partito Comunista Cinese, dalla fase delle «Quattro Modernizzazioni» del compagno Deng Xiaoping e dalla via al «socialismo con caratteri cinesi», si sia offerto quale immensa e solida base materiale per lo stesso sviluppo di un nuovo pensiero rivoluzionario generale, di un nuovo e denso pensiero per la trasformazione sociale e la transizione al socialismo.
    È questo – la relazione tra sviluppo della materialità delle cose e lo sviluppo teorico-filosofico in senso rivoluzionario – uno degli aspetti, dei «prodotti», della storica crescita materiale cinese, un aspetto, forse, non considerato ancora pienamente, nella sua importanza, all’interno del movimento comunista e rivoluzionario mondiale.

    Ma un aspetto che, invece, occorrerebbe assumere pienamente, come formidabile arricchimento del bagaglio teorico e pratico del processo rivoluzionario, specie in questa fase storica segnata – oltre che da un avanzamento del fronte antimperialista trainato proprio dallo sviluppo cinese – anche da processi involutivi e di indebolimento del pensiero e della prassi comunista sul piano internazionale. Specie in Europa, ove con ogni evidenza l’«eurocomunismo» ha seminato i suoi danni. È anche da qui, dunque, dal contributo che lo sviluppo delle forze produttive cinesi, dal contributo che la «NEP» cinese ha fornito allo sviluppo dell’attuale pensiero rivoluzionario, che si può iniziare a tratteggiare un’analisi comparata tra NEP leninista, rimozione della stessa NEP leninista e «NEP» cinese, anticipando – in modo sintetico – una valutazione: come la conquista dell’obiettivo dello sviluppo delle forze produttive ha potuto darsi – in Cina – come base materiale dello sviluppo del pensiero rivoluzionario, così la troppo lunga stagnazione sovietica si è data – infine – come base materiale della cristallizzazione e dell’involuzione del pensiero e della prassi del socialismo in Unione Sovietica.

    Quali sono le «categorie» centrali che, come proiezioni della propria, nuova, poderosa, forza materiale, la Cina socialista ha potuto mettere in campo?

    Sinteticamente: il pieno ripristino dell’azione soggettiva e antipositivista nel processo storico (Lenin, Gramsci) e ciò in rapporto al rovesciamento del dogma secondo il quale la contrapposizione sarebbe secca: o socialismo o mercato; il superamento, nella prassi, dell’artificiosa dicotomia relativa alla «neutralità» o non «neutralità» delle forze produttive, dicotomia risolta, nell’esperienza del «socialismo con caratteri cinesi», dal controllo del Partito Comunista sulle stesse forze produttive (esigenza già richiesta, dal Lenin della NEP, nella proposta del «controllo dalle alture strategiche»), forze produttive ridotte a pure «funzioni» del progetto del «socialismo di mercato » a guida comunista; conseguentemente a ciò, una concezione del mercato come spazio economico e politico anch’esso funzionale al progetto di necessaria accumulazione originaria, imprescindibile per la transizione al socialismo, un mercato – dunque – pienamente assunto, nella prassi e nel pensiero, come forma storica non perenne ma dialettica, cavallo di Troia materiale per il socialismo. E altre categorie: come l’internazionalismo oggettivo (e soggettivo) che scaturisce dalla stessa potenza economica, in grado di mettere in campo relazioni e grandi e positive sfere d’influenza sul piano mondiale, capaci di mutare i rapporti di forza internazionali in senso antimperialista; e, ancora, la vera e propria cancellazione della «cultura» piccolo borghese (ma tanto funzionale alla critica imperialista alla Cina socialista) tendente a mitizzare le fasi preindustriali e contadine, demonizzando lo sviluppo economico.

    Sia Flaubert che Marx ed Engels avevano già fustigato tale untuosa tendenza piccolo borghese: Flaubert nel romanzo «Bouvard e Pècuchet», dove è descritto il «desiderio» della piccola borghesia di «tornare alla terra in un mondo senza più l’orrore dell’industria», un desiderio che dura il tempo di conoscere la fatica bestiale dei campi, per poi celermente scomparire; Marx ed Engels nel «Manifesto del Partito Comunista», quando scrivono dell’«idiozia di una vita rurale racchiusa nella miseria e nell’ignoranza bruta».

    Il punto è che per l’ideologia piccolo borghese, anche «di sinistra», nulla è contato l’aver tratto fuori dalla miseria, come ha fatto il socialismo dai caratteri cinesi, quasi un miliardo di persone dall’orrore della fame e della morte per inedia.

    Come nulla è contato, per questa stessa ideologia, anche «di sinistra», il fatto che lo sviluppo cinese abbia innestato un nuovo e potente motore nel camion dell’antimperialismo mondiale.

    Marx ed Engels, per ragioni storiche, oggettive, non sono mai stati di fronte ai problemi pratici della costruzione del socialismo. E mai hanno potuto sviluppare un’analisi scientifica rispetto al rapporto tra economia di mercato e socialismo. È stato Lenin – a dimostrazione della propria inclinazione antidogmatica, la stessa che lo portò alla concezione dell’«anello debole della catena» – il primo comunista ad interessarsi alla questione. Naturalmente, il Lenin della presa del potere, dell’Ottobre, non metteva in discussione la concezione dell’incompatibilità tra socialismo e mercato. Una posizione rafforzatasi nella fase terribile della guerra contro gli undici eserciti stranieri e della controrivoluzione in atto.

    per proseguire: https://www.lantidiplomatico.it/dett...gi/5871_30912/
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  9. #219
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    A 30 anni dalla caduta del muro




    di Antonio Di Siena

    Mancano due giorni alle solenni celebrazioni per il trentennale della caduta del Muro di Berlino, e siamo già tutti pronti a sentirci raccontare come gli eventi che presero il via il 9 novembre 1989 cambiarono per sempre la storia del continente europeo.

    Ma la narrazione dell'informazione dominante ci racconterà del crollo non di un semplice muro, ma di un intero Paese comunista con un sistema economicamente al collasso, la Repubblica democratica tedesca (DDR - meglio conosciuta come Germania Est), che fu magnanimamente soccorso da un altro Paese, generoso e democratico.

    Di come un popolo oppresso e affamato da un sistema totalitario, che scappava a gambe levate in direzione ovest, sia stato liberato dal giogo del socialismo reale e accolto nella moderna, florida e democratica Repubblica federale tedesca. Quella Germania Ovest che, con grande generosità, tese la mano ai suoi fratelli più sfortunati e, grazie ad una imponente politica di investimenti pubblici, riuscì a ricostruire e integrare un paese distrutto da mezzo secolo di economia socialista, portando a compimento il processo di riunificazione delle due Germanie.

    Ma dopo trent'anni è passata abbastanza acqua sotto i ponti della storia per poter guardare a quell'evento epocale con uno sguardo lucido e disincantato, potendosi rendere facilmente conto che le cose non sono andate proprio così. E soprattutto che fra la vicende dei tedeschi dell'est e la moderna storia dell'Unione europea si possono tracciare importanti parallelismi.

    Nel 1989 la Germania Est era sicuramente un Paese in crisi, politica ed economica, come altri del blocco socialista. I suoi cittadini chiedevano profonde riforme del sistema politico, più libertà e soprattutto la democratizzazione dello Stato. Non di certo una svolta capitalista. Perché, per quanto in difficoltà, il sistema economico della DDR non era sull'orlo del baratro. Non a caso ancora a dicembre del'89 più del 70% dei tedeschi dell'est era favorevole alla sopravvivenza della DDR e al mantenimento della sua sovranità (sondaggio commissionato da “Der Spiegel”). Certo la situazione economica era molto diversa dalla ben più ricca Germania Ovest, rispetto alla quale pesavano l'arretratezza tecnologica e la scarsa produttività. Ma questo stato di cose non era esclusivamente ascrivibile alla diversità di modelli economici e di sviluppo. Una delle principali differenze era legata alle condizioni di partenza delle due Germanie. La DDR infatti onorò sin dall'inizio i debiti di guerra derivanti dal secondo conflitto mondiale per una cifra di 99 miliardi di marchi, importo che contribuì a finanziare la ricostruzione dell'URSS, uscita semidistrutta dal conflitto bellico. La Germania Ovest invece (che a differenza dei cugini orientali beneficiò anche del Piano Marshall) versò soltanto 2 miliardi di risarcimenti. Una sproporzione di 130 a 1 se calcolata in base al numero di abitanti.

    Un economia in crisi quindi, ma ancora in piedi. Non a caso a oriente del muro ancora nel 1989 si lavorava per trasformare la DDR in una “economia di piano orientata al mercato”.

    Quello che scompaginerà rapidamente il quadro geopolitico, spingendo verso la riunificazione, sarà da una parte l'assenso di Gorbaciov all'unificazione tedesca, dall'altra la proposta del governo tedesco-occidentale di Helmut Khol di perseguire il più rapidamente possibile la riunificazione delle due Germanie attraverso l'estensione all’est del marco occidentale. Un progetto a cui la Germania federale lavorava da tempo e su cui faceva grande affidamento. Perché ritenuto il più efficace espediente per esportare, insieme alla moneta, l'intero sistema economico occidentale verso oriente. Innescando un processo irreversibile di assorbimento di un modello di economia pianificata dentro un sistema capitalista, nel fermo convincimento della superiorità, infallibilità e perfezione del modello basato sull'economia di mercato.

    E così fu.

    In un contesto in cui i rapporti di forza fra i due Paesi erano nettamente sbilanciati in favore di quello più prospero, il 1 luglio 1990, venne firmato il Trattato d’unione monetaria con il quale si stabilì che i marchi orientali dovessero essere scambiati in un rapporto di 1 a 1 col marco occidentale.

    Nonostante al cambio reale il valore fosse di circa 4,5 a 1.

    L'estensione a est del marco occidentale ebbe l'impatto di uno tsunami e il primo effetto fu di distruggere istantaneamente l'intera economia della DDR.

    Con un aumento del prezzo delle merci stimato intorno al 350% i beni prodotti in Germania Est andarono letteralmente fuori mercato e l'intero sistema produttivo perse la sua competitività.
    Alle aziende orientali, infatti, veniva precluso in un solo colpo sia il mercato occidentale (dato l'aumento dei prezzi che non rendeva più economicamente conveniente acquistare beni prodotti a est), sia quello interno che fu invaso dalle merci della Germania Ovest. Sia quello degli altri Paesi del blocco socialista, troppo poveri per poter acquistare beni in una valuta “forte” come il marco della Germania federale. La conseguenza fu che, in pochissimo tempo, quasi il 90% delle aziende della DDR si ritrovò sull'orlo del fallimento a causa dei debiti.

    Contestualmente all'adozione della “moneta unica” venne approvata la legge sulla privatizzazione del patrimonio pubblico della DDR. Era il dazio da far pagare ai cittadini orientali per poter far sì che beneficiassero degli “effetti positivi” della moneta occidentale. Presentata come una necessaria opera di “risanamento” e di adeguamento al mercato fu, nei fatti, un'immane saccheggio delle aziende di Stato della Germania Est, il cui patrimonio industriale era stimato in circa 600 miliardi di marchi (ovest) dallo stesso istituto che si occupò di privatizzarlo. Una gigantesca operazione di esproprio, in favore dei privati, di impianti produttivi, imprese del settore energetico, catene di supermercati, alberghi, assicurazioni e, soprattutto, banche. Svendute a prezzi ridicoli con ancora in pancia miliardi di crediti garantiti dallo Stato. Finirà tutto (il 90%) nelle mani dei ricchi imprenditori della Germania occidentale.

    Avendo ceduto la sovranità monetaria (e quindi quella economica), la cessione della sovranità politica fu null'altro che una formalità, che sarà ufficialmente sancita il 3 ottobre 1990. Data di nascita della moderna Germania, uno Stato unitario solo nominalmente visto che la situazione economica non cambiò granché né nel breve né, tanto meno, nel lungo periodo.
    Nel solo biennio 1990-1991, infatti, il Pil della ex Germania Est subì un crollo del 41% mentre il costo della vita aumentò del 93%. Nei due anni seguenti poi, data l'impossibilità di attuare politiche di svalutazione competitiva della moneta, l'export delle aziende dell'est crollò del 55%.

    La parte orientale della nuova Germania unificata si deindustrializzò rapidamente arrivando a perdere l'80% della sua capacità produttiva in pochi anni.

    Molte aziende (nel frattempo privatizzate) furono assorbite da quelle occidentali. Molte furono semplicemente chiuse, altre si trasformarono in satelliti a basso costo delle grandi imprese della Germania Ovest.

    L'ovvia conseguenza fu l'aumento incontrollato della disoccupazione che, da praticamente inesistente ai tempi della DDR, arrivò al 16,5% nel 1992. Nel solo triennio 1989-92 i cittadini della ex Germania Est videro scomparire nel nulla quasi 4 milioni di posti di lavoro a tempo indeterminato.

    Un disastro economico che produrrà una massa enorme di nuovi poveri costretti a emigrare verso ovest, spopolando la parte orientale. La sola città di Magdeburgo perderà 50 mila abitanti in un singolo anno, il 1989. Lipsia (600 mila abitanti) perderà il 17% dei suoi cittadini in dieci anni.

    Un esodo di disperati che andrà a formare quell'esercito di manodopera a basso costo che costituirà la spina dorsale della rinascita economica e produttiva della moderna Germania.
    Ma con la riunificazione non tutti i tedeschi ci persero.

    Non ci perse di certo la “generosa” Germania Ovest che vide aumentare, nel solo biennio 90-91, il suo PIL del 50%. Nello stesso periodo i profitti delle società occidentali registrarono un +75%, accrescendo il loro patrimonio di circa 300 miliardi di marchi. Ad Ovest il numero dei milionari aumentò del 40%, e, più in generale, la ricchezza delle famiglie crebbe a dismisura. Raddoppiarono infatti, sia la ricchezza mobiliare (dai 987 miliardi di marchi dell'88 ai 1.850 del '93), che quella immobiliare (2.894 miliardi nel 1988, 5.312 nel 1993).

    A dimostrazione del fatto che la (presunta) disastrosa condizione dell'economia della DDR non fu causa dell'unificazione, quanto un suo immediato e tangibile effetto.
    E che quella che media e libri di storia ci raccontano come una riunificazione figlia della benevolenza della Germania Federale, altro non fu che un gigantesco “esperimento di ingegneria economico-sociale” finalizzato alla conquista coloniale.

    Una moderna conquista coloniale senza armi e senza soldati. Ma che ha perseguito il medesimo schema d'attuazione. La distruzione dell'intera struttura economico-produttiva del Paese colonizzato; il saccheggio delle sue risorse; la liquidazione delle élites politiche ed intellettuali. La disintegrazione integrale di un intero Stato resa possibile anche grazie alla connivenza della classe dirigente orientale (epurata ad arte dei dissenzienti), e alla speranza dei tedeschi dell'est che, dopo una lunga e truffaldina campagna elettorale, furono convinti a votare per i partiti pro riunificazione inseguendo vanamente il sogno di diventare ricchi come i loro vicini.
    Speranza che, trent'anni dopo, si è trasformata in mera illusione.

    Perché al netto della retorica dei media, a tutto il 2018, le disuguaglianze economiche fra i cittadini orientali e quelli occidentali restano ancora molto marcate.
    Come la differenza di reddito pro-capite che in Baviera è circa 22 mila € e in Sassonia 16 mila €, il 30% in meno.
    Il tasso di disoccupazione che ad ovest è su cifre fisiologiche (3-5%), mentre a est si aggira attorno al 18%.

    E quello di emigrazione, soprattutto giovanile, che continua incessante e a senso unico da est verso ovest (rispetto al 1989 la ex DDR ha perso quasi il 14% della sua popolazione).
    Disuguaglianza, impoverimento, disoccupazione, spopolamento, denatalità, tutti fattori che alimentano una spirale di depressione senza fine. Aziende private e servizi pubblici essenziali, come scuole e ospedali, costretti alla chiusura per mancanza di manodopera e aumento dei costi di gestione (oggi troppo elevati rispetto al numero di abitanti). Grandi aree industriali dismesse e centri abitatati letteralmente svuotati dove interi quartieri vengono rasi al suolo a causa dell'abbandono. E le stime indicano che questo trend si acuirà nei prossimi anni, aumentando ancor più gli effetti di questa crisi drammatica che sta facendo sprofondare nel baratro della depressione economica la ex Germania Est. E contestualmente sta facendo crescere malcontento, rabbia sociale e consenso verso i partiti di estrema destra.

    Sembra un film già visto direte voi. E infatti lo è.

    Perché presenta impressionati similitudini con il processo di integrazione comunitaria, la nascita dell'UE e i problemi legati al suo sviluppo.
    Per dare una plastica rappresentazione di come la storia iniziata con il crollo del muro di Berlino ci appartenga molto più di quel che si crede, è sufficiente fare una semplice operazione. Sostituendo infatti i tedeschi orientali con i greci, i portoghesi, gli italiani.. è facile accorgersi che il meccanismo utilizzato per guidare la riunificazione delle due Germanie è il medesimo applicato al processo di integrazione europea, nella cui evoluzione si contrappongono gli interessi di Stati economicamente forti (o core) e Stati economicamente deboli (o periferici). E la cui dinamica rischia di ingenerare gli stessi effetti nefasti.

    Unione monetaria, apprezzamento delle monete deboli, impossibilità di svalutazioni competitive, taglio dei salari, crollo della domanda interna, perdita di competitività, deficit della bilancia commerciale.
    Crisi economica, mancanza di investimenti, aumento del debito.

    Austerità, tagli, smantellamento del welfare state, privatizzazioni. Delocalizzazioni, fallimento delle piccole e medie imprese, deindustrializzazione, distruzione del tessuto produttivo. Disoccupazione, povertà, emigrazione verso i Paesi più ricchi, spopolamento dei centri abitati.

    Una spirale senza fine che, seppur lentamente, porta alla morte per agonia.
    Una storia drammatica quella della riunificazione tedesca, che è legata a doppio filo alla nascita e all'evoluzione dell' Ue. Non solo perché ne precorre le dinamiche. Non solo perché rappresenta il presupposto che ha consentito alla Germania di riacquistare quel peso egemonico continentale perso dopo la guerra, fondamentale per la nascita dell'Unione europea. Ma sopratutto perché dall'analisi di quei fatti storici è possibile comprendere meglio quanto sta accadendo oggi dentro l'Unione europea, traendone alcuni preziosi insegnamenti:
    1 – che contrariamente alla retorica dei tecnici (e della teoria della supremazia dell'economia sulla politica), i processi di riforme e di adeguamento normativo orientati all'aderenza ai dettami dell'ordoliberismo sono principalmente basati su scelte di natura politica e non rispondono ai princìpi delle leggi economiche, con cui molto spesso sono in insanabile conflitto. E la gestione della crisi greca (con aiuti economici subordinati alla “ristrutturazione” del debito attraverso la riforma del mercato del lavoro e del sistema pensionistico, ai tagli, alle privatizzazioni, allo smantellamento del welfare state) sta lì a dimostrarlo.
    2 – che l'eliminazione dello Stato come attore economico, in favore del privato, costituisce un vantaggio esclusivamente per le aziende del Paese economicamente più forte. Il quale, attraverso l'eliminazione della concorrenza con chiusure, delocalizzazioni o la trasformazione in imprese subordinate, finisce per assorbire integralmente la capacità produttiva del Paese debole, compresa la sua forza lavoro. Rafforzando unicamente la sua economia e il suo potere oligopolistico.
    3 – che un processo di deindustrializzazione su vasta scala è in grado di distruggere completamente uno Stato (non solo sotto il profilo economico-produttivo) trasformandolo, di fatto, in una colonia scarsamente popolata, ed economicamente dipendente dal Paese forte cui fornisce forza lavoro a basso costo.
    4 – che l'adozione di una moneta unica fra Paesi economicamente non omogenei è una misura economico-politica di per sé dotata di forza sufficiente a “innescare processi irreversibili” e inequivocabilmente orientati verso un'unione politica. E che quindi la sola cessione di sovranità monetaria è in grado di spalancare le porte ad una conquista territoriale senza che venga sparato un solo colpo di fucile.
    Non a caso per riunificare la Germania, i tedeschi, come prima cosa si preoccuparono di creare l'unione monetaria. Ben sapendo che l'unità politica sarebbe stata solo una logica e naturale conseguenza.

    Per questa ragione quindi, è fondamentale rileggere criticamente le vicende che portarono alla fine della DDR e alla nascita della Germania riunificata. Sopratutto alla vigilia del trentennale della caduta del Muro di Berlino quando l'anniversario di quello storico accadimento sarà festeggiato con toni trionfalistici, infarciti di retorica europeista.
    Nella speranza che la comprensione dell'evoluzione di quegli eventi contribuisca al risveglio delle coscienze assopite dalla narcotizzante narrazione del pensiero dominante. Alla rinascita di un genuino sentimento patriottico. Nel convincimento che solo attraverso il recupero della sovranità, politica e monetaria, la difesa del lavoro, dell'industria, della capacità produttiva del nostro Paese, è possibile difendere la nostra indipendenza e quindi il futuro e la sopravvivenza della nostra democrazia.

    P.S. Questo breve scritto non riveste alcun carattere di originalità ed esaustività. Molti degli argomenti qui trattati prendono liberamente spunto dal fondamentale lavoro di Vladimiro Giacché “Anschluss” - nuova edizione Diarkos - cui si rimanda per qualunque approfondimento puntuale e rigoroso sul tema.

    Notizia del: 07/11/2019

    https://www.lantidiplomatico.it/dett...o/29278_31590/
    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

  10. #220
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    KEYNES E MARX A CONFRONTO di Moreno Pasquinelli




    Riteniamo utile ripubbicare questo breve saggio apparso su SOLLEVAZIONE nll'ottobre 2012


    La crisi capitalistica cause e soluzioni


    Premessa

    L’attuale crisi sistemica del capitalismo occidentale sta mandando in pezzi la scuola monetarista di Milton Friedmann e con essa l’ortodossia liberista e i suoi due massimi assiomi.
    Il primo è di natura squisitamente filosofica e consiste in questo: ogni uomo, perseguendo egoisticamente la propria felicità contribuirebbe a realizzare quella di tutti. Il secondo, di carattere economico, considera il mercato il sistema che meglio di ogni altri contribuisce alla ricchezza generale e alla sua equa distribuzione.


    Ne hanno preso atto, della crisi del liberismo, la Casa Bianca e la Federal Reserve, che dopo il settembre 2008 (fallimento della Lehman Brothers) vanno seguendo una politica pressoché opposta. L’ortodossia liberista prevale invece nell’Unione europea, i cui organismi oligarchici, la Bce anzitutto, tenacemente perseguono, a monte politiche di rigore monetario e dei bilanci pubblici, a valle, politiche deflattive di contenimento dei prezzi, su tutti quello dei salari.

    Ci si poteva attendere che una crisi di tale portata avrebbe rinvigorito spinte anticapitalistiche di massa e riportato velocemente in auge l’ideale del socialismo. Non è stato così. Troppo fresche le devastanti ferite subite dal movimento rivoluzionario a causa del crollo, catastrofico quanto inglorioso, del “socialismo reale”, troppo profondo il processo di imborghesimento sociale e coscienziale del proletariato occidentale maturato negli ultimi decenni. Questo contesto spiega perché il pensiero di Carlo Marx, il principale studioso del capitalismo e delle sue contraddizioni, nonché il principale assertore della necessità e fattibilità del suo superamento, lungi dal risorgere, resti confinato nell’oblio, con lo sconsolante effetto collaterale per cui gli stessi intellettuali di sinistra, tranne rare eccezioni, quasi si vergognino di dichiararsi marxisti.

    Assistiamo, di converso, ad una prepotente rinascita del pensiero economico di J. M. Keynes a tal punto che è possibile affermare che la maggior parte degli economisti (di quelli seri non per forza di quelli che usufruiscono di una cattedra in qualche blasonata università) si consideri keynesiana.

    Essendo tra quelli che più decisamente insistono sulla centralità assoluta del discorso sulla crisi —di qui la nostra insistenza per lo sganciamento dall’Unione europea e l’abbandono della moneta unica come precondizioni necessarie per venirne fuori—, di questo revival keynesiano, ne sappiamo qualcosa. Dieci economisti keynesiani su dieci condannano senza appello le politiche delle euro-oligarchie e della Bce. Tra questi solo una minoranza, partigiana dell’Unione, ritiene che l’euro sia compatibile con le terapie keynesiane e che la Bce inverta quindi la rotta. La maggioranza di loro sostiene invece che l’euro è comunque condannato a morire e propugna il ritorno alle sovranità monetarie statuali. Avrete capito perché di keynesiani ne sappiamo qualcosa: con i migliori di loro —quelli che non solo invocano astrattamente la fine delle politiche di macelleria sociale ma che sostengono come necessaria la riconquista della sovranità nazionale, politica e monetaria— abbiamo in comune il nemico, e logica vuole che le forze si uniscano.

    Per proseguire: https://sollevazione.blogspot.com/20...di-moreno.html
    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

 

 
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