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  1. #21
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    Predefinito Re: Situazione italiana: movimenti/partiti comunisti e anticapitalisti

    Citazione Originariamente Scritto da Kavalerists Visualizza Messaggio
    C'è anche una Quinta Internazionale bolivariana, non so se realizzata o rimasta in fase embrionale.
    https://it.wikipedia.org/wiki/Quinta...nale#Venezuela
    Anche per questo volevo sapere la natura di questa quinta internazionale proprio perchè avevo letto che anche il PSV ovvero il partito di Chavez sostenitore del Socialismo del XXI secolo ne faceva parte.
    PATRIA E SOCIALISMO

  2. #22
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    Predefinito Re: Situazione italiana: movimenti/partiti comunisti e anticapitalisti

    Citazione Originariamente Scritto da Italicvs Visualizza Messaggio
    Da quello che hai detto l'hoxaismo sembrerebbe essere una forma radicale (o estremista) di marxismo-leninismo, invece la quinta internazionale sembrerebbe essere il ritrovo di ex/post-trozkisti, giusto?
    Sì, il Partito del Lavoro d'Albania, dopo il distacco da Pechino del 1977-78, accusava l'URSS di "socialimperialismo" e la Cina di "socialfascismo"...
    La Quinta Internazionale, quella più o meno ufficiale, così come la Quarta, E' un covo di trozkisti.
    "L'odio per la propria Nazione è l'internazionalismo degli imbecilli"- Lenin
    "Solo i ricchi possono permettersi il lusso di non avere Patria."- Ledesma Ramos
    "O siamo un Popolo rivoluzionario o cesseremo di essere un popolo libero" - Niekisch

  3. #23
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    Predefinito Re: Situazione italiana: movimenti/partiti comunisti e anticapitalisti

    Citazione Originariamente Scritto da Kavalerists Visualizza Messaggio
    C'è anche una Quinta Internazionale bolivariana, non so se realizzata o rimasta in fase embrionale.
    https://it.wikipedia.org/wiki/Quinta...nale#Venezuela
    Ci capisco meno di prima
    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

  4. #24
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    Predefinito Re: Situazione italiana: movimenti/partiti comunisti e anticapitalisti

    Citazione Originariamente Scritto da LupoSciolto° Visualizza Messaggio
    Ci capisco meno di prima
    Infatti mi sembra molto strano che il PSV ovvero il partito che ha applicato il Socialismo del XXI secolo faccia parte di un raggruppamento di ex/post trozkisti. Bisognerebbe approfondire l'argomento comunque prima di esprimere giudizi definitivi.
    PATRIA E SOCIALISMO

  5. #25
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: Situazione italiana: movimenti/partiti comunisti e anticapitalisti

    Citazione Originariamente Scritto da Italicvs Visualizza Messaggio
    Infatti mi sembra molto strano che il PSV ovvero il partito che ha applicato il Socialismo del XXI secolo faccia parte di un raggruppamento di ex/post trozkisti. Bisognerebbe approfondire l'argomento comunque prima di esprimere giudizi definitivi.
    Beh tieni conto che il trotskismo non è un blocco monolitico. Ci sono almeno tre internazionali che si richiamano a Trotsky.
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  6. #26
    Ghibellino
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    Predefinito Re: Situazione italiana: movimenti/partiti comunisti e anticapitalisti

    La quinta internazionale bolivariana non ha nulla a che vedere con il trotzkismo e la sua quinta internazionale ma è stato il tentativo di dare vita ad una nuova aggregazione socialista del XXI secolo sotto la guida di Chavez. Ne parlo al passato perché mi pare che dopo la morte di Chavez e alla crisi dello stato bolivariano in Venezuela anche questo tentativo appartenga oramai, ahimè, alla lunga serie dei falliti tentativi internazionalisti socialisti. Peccato perché sarebbe stato un valido tentativo di rigenerazione dell'internazionalismo socialista. Purtroppo la prematura morte di Chavez è stata una autentica sciagura non solo per il Venezuela, non solo per tutta l'America indio latina, ma anche per tutti noi.
    Se guardi troppo a lungo nell'abisso, poi l'abisso vorrà guardare dentro di te. (F. Nietzsche)

  7. #27
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    SULLA QUESTIONE DI STALIN E SULLA QUESTIONE DELLA NATURA SOCIALE DELLA CINA DI OGGI

    ott 1st, 2011 | Di Costanzo Preve | Categoria: Dibattito Politicodi Costanzo Preve
    Lettera aperta a Domenico Losurdo

    1. Venerdì 23 settembre 2011 nella mitica “Sezione Trentanove” di Torino, luogo storico del comunismo critico torinese, Domenico Losurdo ha presentato e discusso il suo saggio su Stalin (Cfr. Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008). Avrei voluto essere presente, ma non lo ero per (leggeri) motivi di salute. Un amico fraterno ma ha dettagliatamente riportato il giorno dopo l’esposizione e la discussione, e mi ha detto che Losurdo ha fatto ripetutamente il mio nome, chiarendo le nostre differenze di valutazione, particolarmente su due punti cruciali, la questione di Stalin e la questione della connotazione della natura sociale della Cina del 2011. Tutto questo merita un chiarimento ed un approfondimento, soprattutto per i lettori estranei alla disputa, che hanno però il diritto a precisazioni.
    2. A suo tempo, ho letto con estrema attenzione il saggio di Losurdo, e anche saggi in qualche modo favorevoli alla figura di Stalin (Cfr. Gianni Rocca, Stalin, Mondadori, Milano 1988, ma soprattutto Ludo Martens, Stalin. Un altro punto di vista, Zambon, Bologna 2005). Colgo l’occasione per comunicare urbi et orbi che da almeno vent’anni (da quando è sciaguratamente crollata l’URSS, il cui ruolo geopolitico era provvidenziale – ed ora cominciano ad accorgersene persino coloro che non sono mai stati “comunisti”) ho modificato il mio punto di vista su Stalin.
    In gioventù ho sostanzialmente condiviso la teoria trotzkista e trotzkisteggiante di Stalin non solo come dittatore sanguinario, ma anche come seppellitore della rivoluzione d’Ottobre e capo di una banda di burocrati corrotti, teoria che si univa a una interpretazione della rivoluzione culturale cinese (1966-1968) come casino anarcoide antiburocratico e libertario. Sciocchezze, è vero, ma purtroppo sciocchezze condivise da una parte importante della mia sventurata generazione. Ora però ho cambiato opinione. Meglio tardi che mai. Se Losurdo mi confonde con gli antistaliniani isterici, tipo la signora Rossanda o il signor Bertinotti, ebbene si sbaglia, ed è mio diritto chiarire le cose.
    3. Mi spiace auto citarmi, ma sono costretto a farlo. Mi sono ampiamente occupato in passato della questione di Stalin (Cfr. Stalin tra comunismo e geopolitica, in “Eurasia”, 2/2005, pp. 117-137) e della questione dell’eredità politica di Mao in Cina (Cfr. Ritorno a Confucio?, in “Eurasia”, 1/2006, pp. 113-131).
    Sono pressoché sicuro che Losurdo non conosce questi testi, perché la sinistra, in base a un pensiero “magico” (Kolakowski), silenzia, diffama ed esorcizza tutto quanto proviene da fonti non del tutto politicamente corrette. Del resto Losurdo è anche lui stato vittima di questo silenziamento magico-totemico-sciamanico, perché ci sono stati individui che hanno protestato per il semplice fatto che del suo libro si fosse “parlato”, sia pure criticamente, sul “Manifesto” e su “Liberazione”. Figuriamoci allora la rivista “Eurasia”!
    Rimandando Losurdo alla lettura diretta di questi testi, mi trovo costretto a riassumerli “per difendere il mio onore”. Mi si critichi pure, ma mi si critichi per quanto ho detto, non in base al “sentito dire” caratteristico della sub-cultura pettegola e settaria di “sinistra”.
    4. A mio avviso, Stalin si è trovato di fronte a dei compiti immani di costruzione di un sistema sociale alternativo al capitalismo, con una teoria (il marxismo non solo di Kautsky, ma anche di Lenin) assolutamente inapplicabile, e che si trattava allora non tanto di “applicare”, ma di “neutralizzare”, sia pure nella forma del dogmatismo pubblico e della abrogazione silenziosa.
    Il “marxismo” si basava infatti su di una premessa del tutto mitica e inapplicabile, la teoria della capacità strategica di autogoverno politico “consiliare” e di autogestione economica “gestionale” diretta da parte della classe operaia e proletaria. Epistemologicamente parlando, si tratta di una teoria meno fondata scientificamente dello Spirito Santo. Stalin ha preso atto tacitamente di questa palese e manifesta incapacità “consiliare”, ed è allora passato “ad una neutralizzazione del marxismo, in quanto l’escatologia neoclassista del marxismo originario era incompatibile con la costruzione di un dispotismo egualitario del lavoro e con la costruzione di un impero territoriale eurasiatico ad un tempo ideologico e geopolitico.
    La cosiddetta “sistematizzazione” scolastica del marxismo di Stalin (materialismo dialettico come metafisica atea della materia basata sul principio gnoseologico neokantiano del rispecchiamento, e materialismo storico come successione obbligata di cinque stadi della storia universale) è in realtà una indispensabile neutralizzazione. Si tratta di un punto teorico fondamentale che in genere sfugge sia agli staliniani che agli anti-staliniani, invischiati in un impossibile tentativo, di segno opposto ma convergente, di calcolare la vicinanza o la lontananza di Stalin da Marx (Cfr. “Eurasia”, 2/2005, p. 125).
    5. Il mio giudizio storico su Stalin prescinde quindi completamente dal solito approccio della vicinanza a Marx (staliniani) o della lontananza da Marx (trotzkisti, luxemburghiani, bordighiani, comunisti dei consigli). Stalin non poteva applicare concretamente una teoria completamente inapplicabile (perché originariamente concepita da Marx a partire dai punti alti dello sviluppo capitalistico), e l’ha tacitamente abrogata neutralizzandola nella forma religiosa, probabilmente obbligata, della dogmatizzazione sacrale.
    Al contrario, l’esempio del trotzkismo dimostra ad abundantiam che cosa vuol dire erigere la teoria di Marx in una “metafisica parallela” che non incontra mai la storia reale, ma solo la storia virtuale e fantasmatica. I trotzkisti hanno per sessant’anni invocato l’abbattimento dell’orribile burocrazia “staliniana”. Come ho già avuto modo di rilevare ina risposta al senatore Turigliatto , questo modo di vedere assomiglia a quello di chi distrugge le antiestetiche impalcature e i ponteggi che sorreggono un edificio per poterlo “contemplare” meglio, e si accorge troppo tardi che abbattute le impalcature antiestetiche l’intero edificio crolla, perché erano solo queste impalcature che lo tenevano in piedi (si veda la dissoluzione del comunismo storico novecentesco fra il 1985 e il 1992). So bene per esperienza trentennale che mettere un trotzkista di fronte alla fragilità della sua teoria, fondata su presupposti politici indimostrabili (il socialismo armonicamente perfetto senza burocrazia), è assolutamente impossibile. Tanto varrebbe tirare sangue da una rapa. Ma sono costretto a ribadire questa ovvietà.
    6. Un problema interconnesso, ma da tenere ben distinto, è la questione “morale” dello stalinismo e della figura di Stalin. Se qualcuno mi ripeterà che la storia è fatta di ferro e di fuoco, e non c’entra nulla con la morale e con le “anime belle” (Hegel) gli risponderò che come professore di filosofia conosco benissimo almeno dieci versioni di questa teoria, ma mi permetto di non condividerla. Penso, in breve, che la morale sia un elemento “materiale” della riproduzione del consenso e della gramsciana “egemonia”. So bene che i tempi di Stalin furono tempi di ferro e di fuoco, ma da essi non si possono “dedurre” le fosse di Katyn, la pulizia etnica nei tre paesi baltici (poiché nessuna teoria “comunista” giustificava l’annessione alla Russia già zarista), l’annessione di Konigsberg alla Russia con il grottesco nome di Kaliningrad, eccetera.
    Sull’ondata di processi 1936-1938 condivido addirittura la posizione di Ludo Martens: un delirio di estremismo di “estrema sinistra” che solo uno sciocco in buona fede (questa gliela concedo!) come Trotzki poteva pensare essere una svolta “a destra”.
    Il mediocre Kruscev non avrebbe potuto inaugurare la svolta del 1956 (che in definitiva ha portato anche alla delegittimazione del 1991 e all’ubriacone Eltsin) se non ci fosse stata prima la distruzione del clima di libertà di pensiero necessaria come l’aria al socialismo. Nello stesso tempo ribadisco che non voglio essere confuso con i krusceviani in ritardo, con i Bertinotti, con i trotzkisti e con le rossande, che hanno contribuito da “sinistra” alla demonizzazione animistica di Stalin. Il discorso sarebbe appena cominciato, ma chi lo vuole approfondire è invitato a leggere il mio saggio uscito su “Eurasia”, 2/2005.
    7. Passando alla questione della Cina, bisogna subito uscire dalla sfera che Hegel chiamava dell’“opinare”. Che Preve opini che la Cina non sia socialista, e che Losurdo invece opini che lo sia, non è affatto rilevante per una discussione seria. Ciò che conta è esplicitare i criteri in base ai quali si danno questi giudizi, e soprattutto sottoporre questi criteri a una discussione che non può essere puramente “identitaria”, che connota cioè un particolare gruppo di riferimento. Sono scettico sul fatto che questo possa avvenire in un ambiente settario e identitario come quello dell’estrema sinistra, disabituato da decenni a una libera discussione sui principi. Ma si può sempre provare.
    8. Bisogna soprattutto evitare che si abbandoni il terreno dei concetti marxiani di “modo di produzione” e di “formazione economico-sociale” e si adotti il principio pirandelliano del “così è se vi pare”. E’ questo appunto il terreno dell’hegeliano “opinare”. Prendiamo ad esempio un recente testo paradigmatico che difende la teoria della natura socialista della Cina (Cfr. Il ruggito del dragone, a cura di Roberto Sidoli e Massimo Leoni, con prefazione di Domenico Losurdo, Ed. Aurora, Milano 2011). Da esso si ricavano molti dati interessanti, ma nessun elemento teorico che ci possa aiutare a risolvere la questione.
    Si afferma che in Cina è in corso una “lunga marcia verso la prosperità”. Non ne dubito. Sono d’accordo che non importa praticamente che un gatto sia rosso o nero, purché prenda i topi, ma questo saggio detto non contribuisce a chiarire la natura sociale della Cina di oggi. Si parla di diaspora cinese (Casati), di scontro sulle terre rare (Giannuli), della Cina che è oggi al centro del mondo (Ricaldone). Tutto giusto, la sola cosa che manca è una riflessione ispirata alla teoria di Marx. Ora, non dico che essa sia necessaria, anzi forse è fuorviante. Ma allora bisogna dirlo, e non dichiararsi contemporaneamente “comunisti” e ammiratori del “sorpasso” Cina-Stati Uniti. Anche Giovanni Arrighi, nel suo prezioso studio sulla successione dei cicli di accumulazione Genova-Olanda-Inghilterra-USA- Cina (Adam Smith a Pechino), dice cose molto simili, ma non si sogna neppure di parlare di modello socialista che vince contro un modello capitalistico.
    Il libro suggerisce che l’elemento principale per connotare la Cina come “nazione sovrana di matrice prevalentemente socialista” sta nella preponderanza macroeconomica della proprietà statale e cooperativa su quella privata. Ma se è così, bisogna avere il coraggio di dire che Lassalle ha avuto ragione contro Marx. Niente in contrario, ma lo si dica. Se il socialismo è l’IRI scritto in ideogrammi cinesi va bene. Nella sua introduzione Losurdo parla di un suo viaggio in Cina (immagino omaggiato come insigne ospite straniero) e parla di benessere ovunque visibile. Ci credo, anche se di tanto in tanto leggiamo di rivolte contadine e operaie, ma anche i visitatori degli USA di un tempo dicevano questo.
    9. Sono imbarazzato nel dire questo, perché io sono un amico quasi incondizionato della Cina e del suo ruolo economico e geopolitico, non sono più un ammiratore della rivoluzione culturale e della “banda dei quattro” (lo sono stato, lo riconosco, ma mi sbagliavo e faccio ammenda), e non condivido per nulla gli indipendentismi uiguro e tibetano supportati dalla CIA. Semplicemente, penso in breve che essere amici della Cina e rispettosi della sua evoluzione sociale interna non abbia nessun bisogno di un inutile e rituale “francobollo” socialista applicatogli sopra. La Cina è già meravigliosa geopoliticamente. Perché aggiungergli anche un francobollo “socialista”, se non per essere ufficialmente “riconosciuti” dai suoi dirigenti?
    10. Sunteggerò ora brevemente il mio impegnato saggio su “Eurasia”, 1/2006. La Cina proviene da un modo di produzione asiatico, e quindi non le sono applicabili le categorie socio-politiche occidentali, che invece si sono sviluppate attraverso il processo schiavismo-feudalesimo-capitalismo fino ad oggi. Ogni sovrapposizione di categorie nate per capire la Grecia, Roma, il medioevo, lo stato assolutistico moderno, l’illuminismo, eccetera, è fuorviante. Filosoficamente parlando (p. 113), l’oggetto storico tradizionale della filosofia cinese non è mai stata la verità (teorica), ma l’armonia (pratica). Platone non è quindi sovrapponibile a Confucio. L’impostazione maoista della teoria della contraddizione (l’uno si divide sempre in due) risale a una bimillenaria tradizione anti-confuciana, prevalentemente legista e taoista. Sono in questo debitore del mio amico sinologo tedesco (orientale) Ralf Moritz. Dopo la morte di Mao, che fu certamente ostile a Confucio (pensiamo alla campagna contro Confucio-Lin Piao), il ritorno a Confucio segnala la messa al primo posto della “ricerca dell’armonia” dopo gli sconvolgimenti del trentennio 1946-1976.
    Personalmente, vedo questo molto di buon occhio. Non ho mai concepito il socialismo alla Sartre (rivoluzione permanente dei gruppi-in-fusione contro il pratico-inerte in preda al parossismo della finalità-progetto), ma l’ho sempre concepito alla Lukacs (stabilizzazione di una vita quotidiana non nel senso di Bakunin, ma di Aristotele e di Hegel). Quindi non ho obiezioni. Ma non vedo perché lo sviluppo capitalistico della Cina, sia pure con la benefica presenza di un controllo statale macroeconomico che i dissidenti filo-americani incoscienti vorrebbero abolire, debba essere tout court connotato come il socialismo del XXI secolo. Se lo si vuol connotare come una benefica correzione di rotta rispetto all’estremismo di tipo staliniano e/o trotzkista sono d’accordo. Ma penso che da noi, in Italia e in Occidente, non abbia più senso ricadere nello “stato-guida”, anche solo simbolico senza più Komintern e Cominform, ma sia molto più utile riprendere una discussione sensata sul socialismo, impossibile finché questa discussione ci sarà “sequestrata” dal jet-set di sinistra tipo “Manifesto”, “Liberazione” e altri giornaletti sedimentati dalla tradizione anarcoide del Sessantotto.
    Ma questa è un’altra storia. La vera storia.

    FONTE: SULLA QUESTIONE DI STALIN E SULLA QUESTIONE DELLA NATURA SOCIALE DELLA CINA DI OGGI - Comunismo e Comunità



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  8. #28
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: Situazione italiana: movimenti/partiti comunisti e anticapitalisti

    Tornando alla Quinta Internazionale: pare che ognuno voglia creare la propria. Personalmente non mi fido dei trotskisti (neo o post), perché hanno SEMPRE dimostrato di essere personaggi settari, frazionisti, litigiosi e privi, soprattutto in Italia, di un vero e proprio appoggio delle masse lavoratrici. Se i socialisti bolivaristi hanno intenzione di creare una Quinta Internazionale basata sui principi del socialismo del XXI secolo (Heinz Dieterich, Ugo Chavez ecc...) sarò ben lieto di sostenerla. Nessuna apertura, però, ai summenzionati trotskisti, a eventuali "sinistri internazionalisti" o luxemburghiani. Questa gente non è storicamente né politicamente credibile
    Ultima modifica di LupoSciolto°; 13-05-16 alle 19:17
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  9. #29
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: Situazione italiana: movimenti/partiti comunisti e anticapitalisti

    L’originalità economica del socialismo autogestionario jugoslavo

    Articoli 2 settembre 2015 0

    Progetto di ricerca CeSEM, FOCUS – Balcani, la storia in movimento: quali conseguenze per l’Europa?
    Risulta ancora oggi interessante ricordare la specificità del modello socialista jugoslavo che, sia pure ormai archiviato da un ventennio sullo “scaffale della storia”, per oltre quattro decenni del secolo scorso ha caratterizzato l’economia e l’inquadramento geopolitico di una importante nazione ai nostri confini. Rispetto al campo dei paesi socialisti del Novecento, la Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia ha infatti detenuto il primato (meritevole o deplorevole, a seconda dei diversi e legittimi punti di vista) di essersi posta come prima “eresia” dei paesi del cosiddetto “socialismo reale”.
    Per comprendere le grandi e frequenti trasformazioni subite dal sistema economico jugoslavo basato sull’autogestione, e scoprirne le origini, è necessario risalire nel tempo almeno fino alla rottura con l’Unione Sovietica. Non è questa la sede per esaminare particolareggiatamente le circostanze che portarono alla decisione presa dal Cominform nel giugno del 1948; tuttavia dobbiamo accennare brevemente ad alcune cause dei contrasti che si erano venuti formando tra i due paesi. Tali cause si possono far risalire al 1937 durante l’esilio a Mosca dei comunisti jugoslavi, nel periodo delle cosiddette “purghe” staliniane. Da alcuni discorsi di Tito traspare una forte volontà autonomistica già radicata nel gruppo dirigente del PCJ negli anni precedenti la guerra di liberazione popolare, per quanto quest’ultima sia stata condotta in nome di un internazionalismo che riconosceva ancora la guida dell’Unione Sovietica e s’impegnava a difenderla, come unico paese socialista, contro gli attacchi dell’imperialismo. Tuttavia i primi veri dissensi nacquero durante la guerra di liberazione, si accentuarono durante l’entrata dell’Armata Rossa in territorio jugoslavo e, immediatamente dopo la guerra, in occasione dell’organizzazione della polizia segreta. Vennero poi le polemiche sulla federazione con la Bulgaria (possibile centro socialista balcanico alternativo a Mosca) , sull’autenticità della rivoluzione jugoslava e sul modello di costruzione del socialismo. Nel giugno del 1949 il Komunist, organo del Partito comunista jugoslavo per la teoria e la prassi marxista, pubblicò un articolo di Milentije Popovic, uno dei principali esponenti della direzione ideologica del paese, intitolato Dei rapporti economici tra i paesi socialisti, che forse ci permette di scoprire la ragione decisiva della rottura tra la Jugoslavia e i paesi cominformisti. L’articolo denuncia lo sfruttamento economico compiuto dall’Unione Sovietica e dagli altri paesi dell’Europa orientale a spese della Jugoslavia attraverso il commercio internazionale. Già nel novembre del I948, in un discorso tenuto a Lubiana, Tito aveva affermato che «i rapporti economici tra i paesi socialisti ancora oggi si fondano sui principi dello scambio capitalistico di merci», e su questa premessa Popovic basò la sua analisi, sostenendo che esisterebbe un tasso di profitto medio mondiale che, nello scambio internazionale, regola la distribuzione del profitto favorendo i paesi più sviluppati, i quali posseggono una composizione organica del capitale superiore alla media mondiale. Nei paesi arretrati il livello della produttività e dell’intensità del lavoro è inferiore a quello medio mondiale; e inoltre, poiché privi di una industria competitiva, essi sono costretti a entrare nel mercato internazionale mediante prodotti agricoli e dell’industria estrattiva, cioè con merci prodotte dai settori generalmente meno produttivi, peggiorando così ulteriormente le loro condizioni di scambio. La Jugoslavia che, secondo i dati forniti da Popovic, era il paese meno sviluppato del blocco comunista in quasi tutti i settori produttivi, si rifiutò di accettare la struttura degli scambi, i prezzi e le società miste che le venivano imposti, appellandosi a principi di solidarietà e di aiuto del mondo socialista.
    Tuttavia, immediatamente dopo la rottura, gli jugoslavi cercarono di riacquistare l’amicizia dei fratelli socialisti, pur riaffermando la loro indipendenza, e «il V Congresso del PCJ [svoltosi nell’ottobre del 1948] constata che, nonostante le ingiuste accuse e le divergenze […] la direzione del PCJ e il PCJ sono rimasti del tutto fedeli ai principi della solidarietà proletaria internazionale e dell’unità del fronte democratico antimperialista». Furono ribadite soltanto le condizioni specifiche in cui si trovava il paese e che condizionavano la forma di edificazione del socialismo. Uno dei punti più controversi della polemica ufficiale tra il PCUS e il PCJ era il problema contadino. Nelle famose lettere scambiate dai comitati centrali dei due partiti nel 1948, i comunisti jugoslavi erano definiti un partito di kulakí e Kidriš si difese contro questa accusa dicendo: «Il corso della nostra rivoluzione non soltanto permetteva, ma esigeva – e seppe realizzare – un’alleanza continua con il contadino medio, nonostante le sue varie esitazioni, mentre nella rivoluzione russa, durante la lotta contro il potere borghese, chi esitava e si opponeva maggiormente era proprio il contadino medio e perciò a quel tempo si rese necessaria una politica di alleanza col contadino povero e di neutralizzazione del contadino medio».
    La tensione con l’Unione Sovietica crebbe rapidamente, e il congresso del 1952 fu il congresso della rottura definitiva. Gli oratori del gruppo dirigente jugoslavo scesero in campo con parole di fuoco contro Stalin. L’emotivo e mediterraneo Djilas, in un intervento memorabile, interpretò lo spirito generale del momento: il crollo delle illusioni. Dalla polemica con l’Unione Sovietica si passò alla critica della società sovietica e quindi alla critica del modello che la stessa Jugoslavia aveva adottato: un paese che conduceva una tale politica estera doveva contenere all’interno del proprio sistema le cause di tale comportamento considerato come neo-imperialista. Questo fu il momento “eroico” del socialismo jugoslavo, che cercava di rompere gli schemi in cui si era fossilizzata la società socialista. Alla luce di una reinterpretazione del marxismo, gli jugoslavi compirono un’analisi del sistema sovietico che definirono una forma di capitalismo di stato, denunciarono la forma statale di proprietà dei mezzi di produzione, l’espropriazione compiuta dalla classe burocratica a spese della classe operaia, il pesante dirigismo dello stato. I punti fondamentali della critica al vecchio modello e della nuova via socialista jugoslave si possono descrivere nelle loro linee generali secondo i seguenti punti. I cambiamenti nella forma di proprietà dei mezzi di produzione non comportano cambiamenti nelle condizioni materiali produttive e nell’organizzazione sociale del lavoro. Sulla base delle forze produttive esistenti, ereditate dal precedente modo capitalistico di produzione, si è creata una determinata struttura di divisione sociale del lavoro che si traduce nell’esistenza di un gran numero di imprese che svolgono diverse attività economiche. Questa base produttiva non si può trasformare con una decisione amministrativa. In realtà cambia soltanto il ruolo e la posizione delle unità produttive: le imprese relativamente autonome si trasformano in organizzazioni tecnico-produttive, che entrano in rapporto tra loro attraverso forme naturali di collegamento economico (piano, forme di calcolo tecnico-naturali, distribuzione amministrativa ecc.). Mediante questa organizzazione della produzione si spinge il sistema verso un tipo di sviluppo che ha per obiettivo il raggiungimento dei paesi capitalistici tecnologicamente sviluppati. Si afferma inoltre che il socialismo amministrativo è la forma naturale dell’accesso al potere da parte della classe operaia, necessario per l’organizzazione della nuova società, ma deve essere un periodo transitorio di breve durata. L’alternativa deve consistere nella ricerca di una soluzione capace di garantire uno sviluppo economico rapido ed equilibrato, ma subordinatamente ai seguenti principi: 1) la classe operaia rappresenta la forza sociale fondamentale che costruisce il socialismo; 2) i rapporti socialisti si sviluppano mediante l’autogestione dei lavoratori; 3) lo Stato gradualmente si estingue.
    La riforma economica del 1965 fu preceduta da una discussione politico-economica ininterrotta dal 1961 al 1965, in cui intervennero sia economisti di professione sia responsabili politici come Vukmanovic-Tempo, allora responsabile dei sindacati e fautore della riforma. Essa non si svolse poi bruscamente, ma fu preceduta da misure diverse che vi erano state inserite. Una di esse fu la soppressione, nel 1963, dei fondi sociali d’investimento, le cui risorse furono trasferite alle banche che avrebbero dovuto gestire i loro fondi secondo criteri di economicità. La Federazione poteva ormai istituire solo fondi specifici, ad esempio quello per l’aiuto alle regioni meno sviluppate che cominciò a funzionare nel 1965. Lo smantellamento di tali fondi, fra i quali il fondo generale d’investimento, trasformò la pianificazione in un semplice indirizzo, mentre gli investimenti si realizzavano solo nelle imprese e attraverso il sistema bancario. Parallelamente a tale soppressione dei fondi d’investimento furono introdotti l’alleggerimento della fiscalità e la trasformazione del sistema bancario, che caratterizzarono la riforma sul piano strettamente economico. Furono soppresse o diminuite varie imposte gravanti sulle imprese: la tassa sui redditi delle imprese venne del tutto abolita, quella sulla cifra complessiva del giro d’affari trasferita dalla produzione al commercio in dettaglio, associata a una tassa sui prezzi dei servizi. Il tasso d’interesse sui fondi fissi delle imprese passò dal 6 al 4%; la quota di valore aggiunto, che era affidata alla responsabilità delle imprese, progredì da una media del 47% alla fine del periodo 1960-1963 a una del 58% alla fine degli anni Sessanta. La trasformazione del ruolo delle banche fu ancor più significativa. Fino al 1965, le banche erano istituzioni destinate a gestire i fondi sociali sotto il controllo delle “comunità socio-politiche” secondo le direttive generali del piano. I consigli d’impresa erano dominati da uomini politici. La riforma distinse le banche per specializzazioni secondo una logica non priva di analogie con quella francese (e italiana) degli anni Sessanta: banche d’affari per investimenti a lungo termine e banche per il credito al consumo. Le banche potevano essere fondate da imprese o da “comunità socio-politiche” le quali in linea di principio non potevano possedere più del 20% del capitale. Gli impiegati non avevano alcun diritto di controllo sulla politica creditizia della loro banca nemmeno attraverso il loro consiglio operaio. I consigli d’amministrazione avrebbero dovuto essere dominati dalle imprese, nessuna delle quali doveva superare la quota del 10% del capitale. Ma gli osservatori del sistema concordano nell’osservare che l’osmosi fra i direttori delle imprese, quelli delle banche e le collettività locali fu assai spinta. D’altra parte, nell’ambito del funzionamento di un nuovo fondo di credito, i fondatori della banca potevano ricavare degli introiti provenienti dai profitti della banca in proporzione al loro apporto iniziale, delle specie di dividendi che potevano essere impiegati solo per aumentare i fondi d’investimento dell’impresa. Questa legge era la prima che permettesse ad un’impresa di percepire un reddito proveniente da un investimento di un’altra.
    La riforma non poteva che riverberarsi sui prezzi e sul commercio estero. I prezzi interni furono ritoccati tenendo conto dei prezzi mondiali, e ciò si tradusse in un consistente aumento (nel 1970 i 2/3 dei prezzi erano liberi). A ciò si accompagnò una forte svalutazione del dinaro (il cambio con il dollaro era passato da 7,5 a 12,50 dinari). Le tariffe doganali si abbassarono: fra il 1965 e il 1971 la media dei diritti doganali percepiti sul totale delle importazioni passò dal 14 al 12%, quella sulle attrezzature dal 24 al 18%. Le restrizioni quantitative si attenuarono; alla fine del 1971 le quote e le licenze interessavano ormai solo 1/5 delle importazioni di attrezzature e il 37% delle importazioni di beni di consumo. Le divise teoricamente erano disponibili solo per le imprese che ne guadagnavano o potevano prenderne a prestito. Una delle innovazioni più significative fu l’apertura delle frontiere ai capitali stranieri. Nel 1967 fu autorizzata la formazione di joint-ventures che dovevano comprendere il 51% di capitali jugoslavi. Ma le altre limitazioni (imposta del 33% sui guadagni, obbligo di reinvestirne il 20% sul posto) resero tali investimenti non particolarmente attraenti per i capitali stranieri. Le conseguenze socio-economiche della riforma si fecero sentire ben presto, già a partire dal 1965: rallentamento della crescita economica e degli investimenti, aumento della disoccupazione e dell’emigrazione che le autorità non cercarono più di frenare. Nel 1971 furono censiti più di 300.000 disoccupati e 700.000 lavoratori emigrati, soprattutto in Germania. In altri termini, possiamo dire che la produttività del lavoro fra il 1961 e il 1971 aumentò dell’80%. Altre due conseguenze evidenti furono l’aumento del deficit con l’estero e dell’inflazione, due fenomeni che la Jugoslavia titoista aveva difficilmente conosciuto. Secondo il più illustre economista jugoslavo, Branko Horvat, l’aumento dei prezzi al dettaglio fu del 5,5% all’anno fra il 1955 e il 1964, cifra che sarebbe stata elevata anche per un paese europeo degli stessi anni, ma tanto più lo era per un paese a economia pianificata. La riforma provocò un ulteriore aumento dei prezzi del 30% nel ‘65 e del 14% in media alla fine degli anni Sessanta. L’aumento del deficit con l’estero e tipico di ogni economia sottosviluppata in fase di crescita, avida al tempo stesso di consumo e di investimenti, ma l’indebitamento che ne conseguì provocò una profonda crisi del titoismo e ostacolò l’autonomia di quella politica terzomondista che a Tito stava tanto a cuore. L’inflazione jugoslava è stata oggetto di numerose analisi. L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) in numerosi rapporti annuali ha denunciato nell’autogestione una fonte specifica della forte inflazione jugoslava. Nel rapporto annuale del 1970 si affermò precisamente: “Un sistema istituzionale che permette ai consigli operai di fissare al tempo stesso i prezzi di vendita dei prodotti e la massa salariale da distribuire al personale dell’impresa costituisce un elemento strutturale di inflazione” D’altra parte l’influenza esercitata dalle imprese sulle banche, che si traduceva nell’impossibilità di rifiutare dei crediti per motivi finanziari, era anch’essa inflazionistica nella misura in cui ostacolava ogni politica creditizia recessiva. Anche l’importanza del sostegno delle autorità politiche locali alle banche produceva analoghi comportamenti. Ma il periodo 1965-1971 è comunque quello in cui le banche della Jugoslavia titoista seguirono il comportamento più economicamente corretto sul mercato dei capitali, anche se la diffidenza verso la proprietà privata derivante dai fondamenti ideologici e dalla conseguente insicurezza giuridica spiegano i limiti dell’esperimento economico razionalizzatore affidato alle banche.
    Un rapporto della Banca mondiale del 1975 spiega che «utilizzando la loro influenza, le comunità socio-politiche ottenevano crediti bancari per il finanziamento dei loro progetti e in cambio proteggevano le banche contro le sanzioni quando le regole sulla liquidità e altri aspetti della politica creditizia non venivano rispettati». Il numero crescente degli scioperi e il progressivo rafforzamento dei gruppi di gestione (l’emendamento 15 alla costituzione del 1968 permise ai consigli operai di dotarsi di organi definiti esecutivi e responsabili nei loro confronti: i consigli operai diventavano, insomma, organi di gestione, e la loro parte passava dal 76% al 67% fra il 1960 e il 1970) rivelano di per se stessi le contraddizioni sociali della riforma. I direttori ritennero in molte occasioni che l’autogestione non fosse più adeguata al socialismo di mercato avanzato nella misura in cui i consigli, anche se la loro funzione economica veniva “aggirata” e neutralizzata, conservavano dei poteri di veto in particolare in materia di licenziamenti. Come affermò Bakaric nel 1969: «Nessun consiglio operaio accetterà mai di allontanare i lavoratori in esubero. In altri termini, non si può introdurre o mettere in pratica una tecnologia moderna se non a prezzo di nuovi e rilevanti investimenti che superano i fondi concessi all’impresa interessata. In un supplemento datato 16 novembre 1968 il settimanale The Economist parlava per la Jugoslavia di “capitalismo larvato”. L’autore dell’articolo sottolineava anche le possibilità di aggirare il sistema: «Le imprese jugoslave possono adesso associarsi per la realizzazione di progetti con condivisione delle entrate e delle responsabilità, ma è dubbio che i salariati possano influenzare l’operazione. Anche il più semplice accordo sull’investimento di un impresa in un’altra indebolisce il controllo dei lavoratori a un livello più elevato di quanto non appaia nel contratto e li limita; questo sistema nel quale sono assenti gli investitori di capitale di rischio presenta chiaramente un punto debole». In altri termini, un capitalismo senza capitalisti non è tale perché gli mancano la razionalità e il motore sociale a esso intrinseci. Il nuovo sistema aggravò gli antagonismi fra le e la contestazione degli studenti ideologicamente ispirati dalla nuova sinistra legata alla rivista marxista eterodossa Praxis. Esso legittimò d’altra parte il maggior potere conquistato dai nuovi strati tecnocratici e burocratici. Come sottolinea Duncan Wilson, il nono congresso permise il rinnovamento di molti membri dei comitati centrali delle Repubbliche: dei 300 eletti, il 70% erano nuovi, il 60% aveva meno di 54 anni e il 15% addirittura meno di 30 anni. Il 90% dei congressisti a livello delle Repubbliche non aveva mai assistito prima di allora a un congresso di livello così elevato. I sessantenni e settantenni che costituivano la memoria storica del titoismo rischiavano seriamente di perdere il controllo della situazione politica.
    Da queste contraddizioni e dalla crisi croata del 1971 scaturì la riforma del 1974-1976: la Costituzione del 21 febbraio 1974 e la legge sul lavoro associato, straordinariamente lunghe rispetto alle norme abituali del paese, si proponevano di sfuggire al burocratismo e alle conseguenze dello sviluppo dell’economia di mercato senza perciò tornare al burocratismo dell’economia amministrata. Si sospettava che la tecnocrazia, contraria al socialismo dell’autogestione, si fosse rifugiata nell’eccessivo potere delle banche. Per porvi rimedio, si procedette a una sorta di rinazionalizzazione del sistema bancario. Venne modificato il diritto di voto delle imprese “membri” delle banche: ogni impresa aveva diritto a un voto, indipendentemente dalla rilevanza dei fondi apportati. Non erano più permessi i depositi permanenti e le risorse venivano anticipate in vista di obiettivi specifici nell’ambito di un piano adottato dall’assemblea generale delle imprese associate. In altri termini, l’autonomia delle banche venne ulteriormente ridotta in nome di un industrialismo di derivazione marxista (secondo il quale la sfera della circolazione non creava, di per sé, valore) e della preminenza della base (più un’attività faceva parte della sfera della circolazione, più era difficile controllarla da parte dell’autogestione operaia). Nelle imprese industriali, la volontà di garantire un’autogestione effettiva si tradusse nella creazione di “organizzazioni di base del lavoro associato” (OBLA), cioè in laboratori che dovevano costituire la nuova cellula di base dell’autogestione socialista Le OBLA dovevano essere libere di formare un’OLA (Organizzazione di lavoro associato), cioè un’impresa. A livello dell”OLA si era provveduto a introdurre norme che vietassero la burocratizzazione dei delegati dei consigli operai: limitazione dei mandati a due anni, non professionalizzazione, revocabilità. L’unità di base OBLA era libera di associarsi con qualsiasi altra organizzazione e anche di dissociarsi a condizione di non smantellare il processo di produzione. La legge del 1976 si proponeva di rendere impossibili tutte le eventuali derive esplicitamente indicate nella statalizzazione, nella proprietà di gruppo, nella restaurazione capitalistica. Per evitare quest’ultimo pericolo, le azioni e il mercato del capitale vennero vietati anche se Kardelj accettava l’idea di introdurre le obbligazioni. In teoria si era reintrodotta la pianificazione sotto la formula di “pianificazione autogestionaria”. La pianificazione puramente indicativa del periodo 1965-1974 fu sostituita dai contratti di pianificazione stipulati fra unità autogestite, che quando venivano firmati diventavano cogenti; ma l’assenza di ogni sanzione in mancanza di accordi o di gestione centralizzata dei fondi avrebbe reso questa misura inefficace. Più delle precedenti versioni dell’autogestione, la riforma del 1974-1976 si sforzò di generalizzare l’autogestione al di fuori del settore mercantile. Le “comunità d’interessi autogestionari” (SIZ, secondo la dizione jugoslava) divennero obbligatorie nel campo del consumo collettivo (servizi sociali, asili, ospedali, cultura). I salariati di tali settori e gli utenti di tali servizi erano rappresentati nelle SIZ da delegati revocabili che dovevano decidere insieme le risorse necessarie alla loro gestione. I contributi provenienti dalle entrate del settore commerciale alimentavano i fondi delle comunità e si teorizzò così che il libero scambio di lavoro avesse sostituito il mercato. L’interpretazione complessiva di questo sistema è tuttora controversa. La giustificazione di tale riforma, parzialmente contraria a quella precedente del 1965 era che essa consentiva un’autogestione più autentica evitando le derive tecnocratiche e bloccando la resurrezione dei nazionalismi, con l’istituzione di una nuova organizzazione socio-economica e politica. Ma si può osservare che mentre lo scopo dichiarato della riforma era quello di lottare contro la “tecnocrazia liberale” generalizzando il sistema del mandato imperativo e cancellando la rappresentanza politica e sociale, quello effettivamente ottenuto e senza dubbio cercato era l’abbattimento delle oligarchie che si erano costituite nel frattempo secondo una legittimità tecnico-economica, mentre il monopolio della Lega dei Comunisti aveva una legittimazione esclusivamente politica. Al di là di una complessità tecnica che la rende interpretabile con difficoltà, la riforma favorì l’autonomia delle unità di base in campo economico e politico, ma rese tale autonomia controllabile dal Partito e, in caso di crisi, dall’esercito, paralizzando l’emergere di élite autonome e di corpi intermedi. Tale diffidenza si nutriva dalle riserve che l’ideologia dell’autogestione alimentava verso l’idea stessa di rappresentanza e del suo sogno di trasparenza integrale fra la base e il vertice. Ma bisogna anche riconoscere che le sfide che l’evoluzione dei nazionalismi lanciava alla sopravvivenza dello Stato Federale non incoraggiavano certo l’ormai ottantenne maresciallo (Tito compiva 80 anni il 7 maggio 1972) alle concessioni autonomiste alle iniziative separatiste.
    Risultano necessarie almeno un paio di considerazioni finali. Anzitutto, risulta prezioso ricordare quanto il modello titoista e autonomista jugoslavo fosse originale dal punto di vista geopolitico; un crogiolo di etnie, nazioni, religioni confederate stabilmente per circa mezzo secolo, nell’arduo, problematico ma unico tentativo di condensare in un unicum politico quello che frettolosamente la storia avrebbe violentemente sfaldato un pochi anni. Dall’altro un inedito e primitivo di coniugare dal punto di vista economico – sotto la formula dell’autogestione – necessità di pianificazione socialista centralizzata ed aperture a germogli di economia privata e locale. Sarebbe interessante, sotto questo profilo, indagare ulteriormente e proporre eventuali accostamenti tra il modello titoista e quello di altre vie nazionali al socialismo che sarebbero venute, prima fra tutte quella cinese in epoca denghista. Infine una considerazione di tipo geopolitico; dal dopoguerra in poi, la Jugoslavia ed i Balcani (si ricordi l’episodio fallito di velleità federative con tutta l’area, occasione mancata alla luce del diniego bulgaro sotto la direttiva moscovita) iniziarono a scavare un solco abbastanza netto con il resto dei paesi del mondo slavo, mantenendo, anche negli anni successivi e la riappacificazione tra Belgrado e Mosca conseguita negli anni Settanta ad opera di Breznev, un rapporto di affinità ideologico culturale ma su coordinate strategiche raramente coincidenti.
    Marco Costa
    * Marco Costa è dottore in Filosofia presso l’Università degli Studi di Genova, collaboratore delle riviste Scenari Internazionali ed Eurasia. Ha pubblicato Soviet e Sobornost. Correnti spirituali nella Russia sovietica e post-sovietica (Parma, 2011), Conducator. L’edificazione del Socialismo in Romania (Parma, 2012), Una fortezza ideologica. Enver Hoxha e il Comunismo Albanese (Cavriago, 2013), Etica, religione e origine del Socialismo (Cavriago, 2014), Tibet, crocevia tra Passato e Futuro (Cavriago, 2014). È coautore di La grande muraglia. Pensiero politico, territorio e strategia della Cina Popolare (Cavriago, 2012) e di La Via della Seta. Vecchie e nuove strategie globali tra la Cina e il bacino del Mediterraneo (Cavriago, 2014).

    FONTE:
    http://www.cese-m.eu/cesem/2015/09/loriginalita-economica-del-socialismo-autogestionario-jugoslavo/
    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

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    Predefinito Re: Situazione italiana: movimenti/partiti comunisti e anticapitalisti

    Costanzo Preve sul Congresso di Rifondazione Comunista

    Posted on 16/12/2011 by Miguel Martinez
    Un altro saggio di Costanzo Preve. Il tema è ormai superato, ma qui non abbiamo il senso della cronaca.
    Torino ottobre 2011
    Note su Rifondazione Comunista 2011.
    di Costanzo Preve

    1. Quelle che seguono sono alcune note non sistematiche di commento al documento congressuale del prossimo congresso 2011 di Rifondazione Comunista. Sebbene abbia letto tre diversi documenti, commenterò solo quello maggioritario, che mi dicono alcuni “interni al giro” essere stato scritto dall’ex-cossuttiano Grassi e dall’ex-bertinottiano Ferrero. Se è così, si tratta di un miracolo della clonazione biologica, perchè ha permesso dopo la loro morte il matrimonio postumo fra Giuseppe Stalin e Rosa Luxemburg.


    1. Ci si chiederà a quale titolo faccio questo commento, visto che non sono né un iscritto né un simpatizzante né tantomeno un potenziale votante di Rifondazione. Da almeno quindici anni non faccio neppure più parte dell’estrema sinistra né tantomeno del pittoresco e multicolore “popolo di sinistra”. Direi che le ragioni possono essere compendiate in due principali. In primo luogo sono fra l’altro autore di una Storia Critica del Marxismo (Città del Sole, Napoli) che recentemente un autore come Samir Amin ha definito una “superba discussione dei marxismi storici” dopo aver letto la traduzione francese.
      Questo mi abilita a qualche commento sulla linea politica e culturale di un partito che si definisce pur sempre marxista e comunista. In secondo luogo, non ho bisogno di autodefinirmi, perchè mi definiscono i miei scritti editi ed inediti ed i miei comportamenti privati e pubblici, totalmente trasparenti ( il che non si può dire di tutti). Ma se proprio mi devo definire, mi definirei un comunista indipendente, o ancor meglio un allievo critico indipendente di Hegel e di Marx. Ho scritto di Hegel e di Marx, e non del solo Marx, perchè a mio avviso il pensiero di Marx è un episodio terminale e coerentizzato del grande idealismo classico tedesco, che si è mascherato da materialismo scientifico, troppo spesso di fatto un positivismo di estrema sinistra per classi subalterne ed intellettuali marginali e confusionari. Da circa cinquanta anni ho fondato un partito comunista nella mia coscienza di cui sono sempre rimasto l’unico iscritto, e di cui non ho mai cercato aderenti, o seguaci. Un tempo questo atteggiamento critico ed indipendente, il solo adatto ad un allievo critico di Marx, era diffamato e colpevolizzato come “individualismo piccolo-borghese”, cui contrapporre un proletariato inesistente caratterizzato dall’obbedienza gregaria fatta passare per “vero spirito proletario”. Ma oggi la piccola borghesia si è sciolta nella galassia dei ceti medi subalterni e chi colpevolizzava il pensiero critico si è riciclato a berciare dalle tribune elettorali del PD in appoggio ai bombardamenti USA e NATO ed ai provvedimenti finanziari di bilancio FMI e BCE. Sono allora queste le mie credenziali.


    1. Il documento ammette (sia pure alla fine, dopo una generica pappa sulla attualità del comunismo e la non riformabilità del sistema capitalistico) che “la rifondazione comunista, a vent’anni dalla nostra nascita, non è stata risolta positivamente”. A mio avviso non è stata mai neppure vagamente impostata, perchè non poteva farlo sulla base di una linea politica di truppe ausiliarie e subalterne caramellate del serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD.
      In tutto il documento non sono mai neppure menzionati i nomi dei Gramsci e dei Togliatti di questo partito, e cioè Armando Cossutta e Fausto Bertinotti. Eppure costoro non sono nomi qualunque. Il primo ha simboleggiato la linea di “unità”, e cioè di fiancheggiamento amministrativo del PCI-PDS-DS-PD ed il secondo una linea di rottura aperta, (tipo cultura del “Manifesto” Ingrao-Rossanda) con la tradizione di tutto il comunismo storico, e non solo dello stalinismo, che ha infine prodotto il poeta pugliese Vendola, che copre il fiancheggiamento cammellato del PD con una vuota ed insopportabile retorica. Come è possibile fare un bilancio di vent’anni censurando proprio i vent’anni della propria esistenza?


    1. Apro una parentesi da riconosciuto studioso di storia del marxismo e del comunismo. Il documento Grassi-Ferrero segue una gloriosa e secolare schizofrenia di documenti di questo tipo, che fanno coesistere affermazioni innocuamente estremistiche (attualità del comunismo, irriformabilità del capitalismo, eccetera) con conclusioni pratiche opportunistiche (le sole che contino praticamente) per farsi caricare a bordo da Vendola e Bersani e non toccare le ferree incompatibilità necessarie per farsi appunto caricare a bordo. La storia è vecchia di almeno un secolo, ed è proprio contro questa storia che si sono mossi più di un secolo fa sia il “partitista” Lenin sia la “movimentista” Rosa Luxemburg.
      A partire da Kautsky questi documenti identitari della “predica della domenica” (superamento comunista del capitalismo, dato sempre per moribondo) hanno fatto coesistere una “ortodossia dei fini” (il comunismo, appunto) con una tattica opportunistica della manovra elettorale. Questo da parte di persone che illudevano i loro militanti con la famosa marxiana “unità di teoria e di prassi”. La storia dura da più di un secolo, e mi chiedo come si possa rifondare sulla schizofrenia. Bertinotti è già stato un maestro della rifondazione schizofrenica, massimalismo irresponsabile a parole e presidenza della Camera nei fatti.


    1. La mano di Grassi si vede soprattutto in alcuni stilemi: per uscire dalla crisi, oppure uscita a sinistra dalla crisi. E’ così che dicevano lutti i documenti PCI non ancora PDS-DS-PD. Iniziavano dalla situazione internazionale, poi dalle forze reazionarie italiane, poi “dal sovversivismo delle classi dominanti” (prima fasciste, poi democristiane, poi craxiane, poi berlusconiane, domani chissà), ed infine si usciva dalla crisi con il PCI candidato al governo. Ed io pensavo che le crisi fossero dovute a cicli della accumulazione capitalistica, e non al “malgoverno” di alcuni intercambiabili fantoccioni!


    1. La storia d’Italia è riscritta ad uso e consumo del manipolatore politico di turno. Il craxismo è definito in termini di espressione della “controffensiva del capitale”, confondendo l’effetto con la causa. La controffensiva del capitale, per usare questo termine improprio, è un fatto mondiale che parte intorno al 1978 in America, ed innesca una nuova fase dell’accumulazione capitalistica. Il cosiddetto “malgoverno” craxiano è dovuto al fatto che il PSI non disponeva di quelle due idrovore succhiatrici che erano l’industria di stato (per la DC) e le cooperative rosse (per il PCI, dopo 1a fine del finanziamento sovietico).
      Craxi dovette costruirsi una sua idrovora artigianale, attraverso le pittoresche “dazioni” alla Chiesa. Il documento, in modo onirico, afferma che “Berlinguer denuncia coraggiosamente la corruzione dilagante ponendo al paese la questione morale”. Qui siamo lontanissimi dalla stessa critica marxiana delle ideologie. Berlinguer non poteva denunciare la questione morale perchè il suo stesso partito c’era dentro fino al collo. Sembra che Greganti e Penati vengano da Marte. La questione morale è stata storicamente una forma ideologica di “riciclaggio simbolico” dalla vecchia via italiana eurocomunista al socialismo, incompatibile con l’accettazione dell’ombrello della NATO, alla nuova “superiorità morale” dei comunisti. Un cambio di etichetta, o dibrand per dirla in linguaggio USA-NATO.


    1. Ogni tanto il documento ha degli sprazzi di inconsapevole e involontaria lucidità, quando afferma che è stato il PCI ( travestito da PDS, ma solo un ingenuo in male fede non vede il travestimento) a determinare la distruzione del sistema proporzionale che reggeva la rappresentanza nella Prima Repubblica (assai migliore della Seconda). Ma se è così, come si può fare un “fronte democratico” con una forza anti-democratica, che ha sostenuto il passaggio dalla democrazia rappresentativa alla governance post-democratica?
      Misteri della logica che soltanto il desiderio di essere imbarcati da Vendola e Bersasani possono spiegare. Ma il “rientro parlamentare” non può essere fatto passare per “rifondazione comunista”, e questo non in nome di Marx, ma del vecchio comune senso del pudore.


    1. Il berlusconismo è definito surrealmente come “un vero e proprio inveramento del craxismo”. Ora, è vero che la storia non è una scienza esatta come la chimica o la fisica, ma ci sono limiti al delirio storiografico. Il berlusconismo è l’effetto non voluto di Mani Pulite, un colpo di stato giudiziario extraparlamentare che ha sostituito la obbligatorietà dell’azione penale alla rappresentanza “proporzionale”, pur corrotta, della prima repubblica. I giudici di Mani Pulite sono stati gli (involontari) sponsor di Berlusconi, che con il suo denaro ha recuperato l’immenso parco elettorale cui Mani Pulite aveva tolto la rappresentanza (DC e PSI, in primo luogo) .
      L’unica categoria politica che il documento sembra conoscere è quella del “populismo” . Si tratta proprio della categoria politica usata oggi nel mondo intero dalla classe politica della governance capitalistica. Incredibile che si usino a casaccio categorie politiche coniate per altri scopi. Ma che cosa aspettarsi da gente che aveva abolito la categoria di “imperialismo” e che non fa nessuna autocritica per questa incredibile bestialità del dilettante presenzialista Bertinotti?


    1. Un’ osservazione solo apparentemente marginale. Al tempo di Stalin per essere comunisti bisognava anche condividere l’ideologia del materialismo dialettico. Ora sembra che per essere comunisti si debba ad ogni costo condividere il femminismo. Ma il femminismo non si identifica affatto con i legittimi interessi collettivi del sesso femminile. I1 femminismo è una ideologia differenzialista di genere di origine universitaria americana, ed è americana come il Rock, il McDonald e Halloween. In quanto ideologia differenzialistica di genere ci sono uomini che la condividono per convinzione o opportunismo politicamente corretto (il sostituto post-moderno del materialismo dialettico) e ci sono donne che si guardano bene dal condividerla.


    1. Si parla continuamente di contraddizioni fra il “popolo di sinistra” votante PD e la dirigenza politica del PD. E’ la vecchia solfa del Manifesto e di Lotta Continua, già falsa quando c’era il vecchio PCI. Ma oggi che c’è il nuovo serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD questo è puro delirio. In venti anni il vecchio popolo-PCI si è interamente riconvertito in una amorfa massa giustizialista anti-berlusconiana, che ha scaricato qualsiasi residuo anti-capitalistico, che certo resta ancora per fortuna latente in molta gente, ma non passerà certamente mai più per una “ricostruzione della sinistra” che conosciamo, ma che prenderà altre inedite strade, per il momento non prevedibili.
      Il PD è del tutto irriformabile, perchè è un partito di governance capitalista (FMI e BCE) ed imperialista (USA e NATO). Non a caso il documento finge che non ci sia un signore chiamato Giorgio Napolitano, che le masse PD applaudono come difensore della costituzione, e che ha addirittura premuto su Berlusconi per la guerra anti-costituzionale in Libia.


    1. Già’, la Libia. Da gente che ha appoggiato il dilettante Bertinotti che affermava che non esiste più 1’imperialismo non si possono certo aspettare analisi serie sulla Libia e sulla Siria. Bene, io le ho fatte. Discutibili, contestabili, ma le ho fatte. Personalmente, ho appoggiato interamente il governo di Gheddafi in Libia ed ora appoggio interamente il governo di Assad in Siria. Vergogna a chi non riesce neppure a capire che cosa sta capitando in questi paesi.


    1. Il documento afferma solennemente che “l’Europa è il terreno sovranazionale indispensabile sul quale realizzare scelte di politica economica finanziaria e sociale alternative alle politiche liberiste”. C ‘è da trasecolare. In altri contesti il documento afferma il contrario, e cioè che l’Europa è stata proprio la sede principale dell’imposizione del liberismo in tutti i paesi europei. Ma a questo porta la frenesia di farsi prendere a tutti i costi a bordo da Vendola e da Bersani. Non sto sostenendo che sia già all’ordine del giorno l’uscita dall’euro e la ricontrattazione del debito. Ma almeno devono essere politicamente ipotizzate. Qui, invece, per essere presi a bordo da Vendola e Bersani non se ne parla neppure.


    1. Il documento dimentica la cauta posizione di Togliatti verso la Chiesa cattolica e dichiara guerra al cattolicesimo italiano organizzato, legando insieme cattolicesimo, omofobia e patriarcato. E’ esattamente la linea dei laici di “Repubblica” e della coppia sionista spiritata Bonino-Pannella. Qui di comunista non c’è proprio niente. I comunisti non dividono le masse fra laici e credenti, e non sposano ideologie che dividono il popolo su questioni di coscienza religiosa e filosofica.


    1. Alla base di tutto, ovviamente, è la strategia del1’alleanza elettoralistica per cacciare Berlusconi, in un momento in cui Berlusconi sta già per essere cacciato dai gruppi dirigenti delle oligarchie capitalistiche italiane (Marcegaglia, Montezemolo, Draghi, Napolitano, eccetera). Ma per cacciare Berlusconi non c’è nessun bisogno di un corteo urlante di ausiliari cammellati. Bersani ha già la scelta di optare per Casini oppure per Vendola e Di Pietro, e lo farà non certamente perchè l’inesistente popolo PD preme, ma solo sulla base esclusiva della convenienza dei sondaggi elettorali. Far dipendere la rifondazione comunista in Italia dai voleri di Bersani e di Vendola è un fatto talmente vergognoso che lascia addirittura allibiti.
      Rifondazione ha molto da farsi perdonare, in primo luogo l’espulsione del deputato Turigliatto per non aver votato i crediti di guerra e l’aver permesso al picconatore Bertinotti di distruggere per anni lo stesso partito in cui era stato chiamato comemanager esterno cooptato dai due cinici politicanti Magri e Cossutta. Così com’è, non serve assolutamente a nul1a, se non al suo ceto politico professionale. Se invece cambia linea di 180 gradi, magari potrà ancora servire a qualcosa. Ma non lo farà. Conosco troppo bene i miei polli.

      Costanzo Preve sul Congresso di Rifondazione Comunista | Kelebek Blog



 

 
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