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  1. #1
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    Thread tematico di tipo storico.

    Discussioni sul marxismo e sul marxismo-leninismo.

    Non è gradita la presenza di trotskisti né quella di micro-sette desiderose di far pubblicità in maniera ossessiva-compulsiva (qualcuno ricorda l'utente Prometeo?)
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  2. #2
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    3d interessante.
    lenin all'università era una delle mie letture preferite(quanto tempo perso sulla politica) e per l'america latina ho avuto sempre un debole.

    è argomento del 3d il maoismo?

  3. #3
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    Schematicamente e riferendomi più che altro all'URSS (degli altri paesi non conosco molto nello specifico)

    Aspetti positivi

    La NEP
    Applicazione di norme tendenti all'assistenza e alla giustizia sociale, anche se a volte con risultati poco brillanti
    Lotta a certi aspetti deteriori dell'Occidente moderno, nella sfera sociale e culturale
    Enfasi sull'apprendimento (buon livello medio d'istruzione)

    Aspetti negativi

    Totalitarismo
    Sistema economico pianificato, rivelatosi tragicamente inefficiente
    Eccessiva burocratizzazione e distacco degli apparati dalle masse
    Persecuzioni sociali e religiose
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  4. #4
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    Citazione Originariamente Scritto da MaIn Visualizza Messaggio
    3d interessante.
    lenin all'università era una delle mie letture preferite(quanto tempo perso sulla politica) e per l'america latina ho avuto sempre un debole.

    è argomento del 3d il maoismo?
    Sì! Ricapitolando: marxismo-leninismo ed esperienza sovietica. Maoismo, hoxhaismo, castrismo, juche, titoismo (anche se molti m-l lo disprezzano).

    Se volete spendere due parole sull'operaismo e il fenomeno dell'autonomia, per me non c'è problema. Non mi piace come "corrente" , ma è indubbio che abbia avuto un ruolo centrale nelle lotte operaie degli anni '60 e '70. Soprattutto in Italia e Francia.
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  5. #5
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    Citazione Originariamente Scritto da Logomaco Visualizza Messaggio
    Schematicamente e riferendomi più che altro all'URSS (degli altri paesi non conosco molto nello specifico)

    Aspetti positivi

    La NEP
    Applicazione di norme tendenti all'assistenza e alla giustizia sociale, anche se a volte con risultati poco brillanti
    Lotta a certi aspetti deteriori dell'Occidente moderno, nella sfera sociale e culturale
    Enfasi sull'apprendimento (buon livello medio d'istruzione)

    Su questo siamo d'accordo.


    Aspetti negativi

    Totalitarismo
    Sistema economico pianificato, rivelatosi tragicamente inefficiente
    Eccessiva burocratizzazione e distacco degli apparati dalle masse
    Persecuzioni sociali e religiose
    Parlo per il solo periodo leninista e staliniano: era inevitabile giungere a quelle conseguenze. Tutto l'occidente, ma anche il Giappone, cercava di sabotare l'esperienza socialista. In alcuni casi si è esagerato, non lo nego, ma molti provvedimenti repressivi erano dettati dalla necessità. Su Kruscev, Breznev, Andropov e Gorbacev nemmeno mi esprimo.

    Ovviamente la politica economica va ripensata. Su questo punto è d'accordo anche lo "stalinista" Zyuganov.
    Ultima modifica di LupoSciolto°; 21-03-16 alle 18:11
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  6. #6
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    IMPORTANTI CONSIDERAZIONI DI COSTANZO PREVE SULL'OPERAISMO DI CHI VORREBBE RIFONDARE IL COMUNISMO

    SULLE RECENTI POSIZIONI DI PAOLO FERRERO E GIANFRANCO LA GRASSA
    di Costanzo Preve
    Sono stato abbastanza colpito dal fatto che Paolo Ferrero, il segretario di Rifondazione Comunista, e quindi un personaggio di rilievo pubblico, continui a difendere la vecchia tesi operaista dei primi anni Sessanta per cui “questo capitalismo finanziario nasce come risposta al ciclo di lotte e alla forza dei lavoratori negli anni Sessanta e Settanta” (Cfr. “Liberazione”, 9 ottobre 2011). In altre parole, la globalizzazione finanziaria di oggi non sarebbe uno sviluppo della logica di espansione del capitale, ma una “risposta” all’insubordinazione della classe operaia fordista. E ancora: “Il neoliberismo è la modalità con cui il capitale riprende il comando”. E ancora: “Questo nuovo capitalismo finanziario nasce come risposta capitalistica al più grande ciclo di lotte che si sia mai visto in epoca moderna, con l’obiettivo di svincolare il capitale dalla forza del movimento dei lavoratori”. E potremmo continuare.
    Ferrero non è l’ultimo arrivato, ma è un militante di lungo corso. Il fatto che il 9 ottobre 2011 continui a “spiegare” la crisi capitalistica con il modello dell’operaismo italiano dei primi anni Sessanta dimostra abbondantemente che questo modello teorico è stato sempre l’unico dominante nel cosiddetto “marxismo italiano” dell’ultimo mezzo secolo. Il problema è allora: quali sono le conseguenze?
    Le conseguenze sono molte, ma in questa sede, per ragioni di spazio, le compendierò così: sotto l’etichetta di “comunismo” in Italia continua a dominare una somma di economicismo rivoluzionario, ingentilito e insaporito dal “politicamente corretto” (femminismo di genere, pacifismo rituale e declamatorio, innocua retorica sui cosiddetti “beni comuni”, polemica con il cattolicesimo organizzato identificato con l’omofobia, la misoginia e il patriarcalismo, eccetera).
    Il motore dinamico della storia viene identificato nelle lotte operaie, cui il capitalismo “risponde”, evidentemente con lo scopo primario di indebolirle. Si tratta di una variante sindacalistica della stessa teoria delle Moltitudini di Negri e Hardt, che ha però lo stesso codice teorico: c’è un soggetto agente primario (la classe operaia per Ferrero, le moltitudini per Negri), cui in seconda battuta risponde il capitale. Evidentemente la finanziarizzazione è una tecnica per indebolire Gasparazzo, il noto operaio-massa. Leggere per credere.
    Una simile concezione schematica e semplificata del mondo deve necessariamente essere “arricchita” di elementi culturali, che vengono tratti dalla critica futuristica della società piccolo-borghese, e che sono indistinguibili dalla cultura “radicale” Pannella-Bonino, di cui “Repubblica” dà una versione compatibile con la cosiddetta “secolarizzazione”. In questo senso l’economicismo (struttura) viene integrato dal politicamente corretto di “sinistra” (sovrastruttura), e questa fusione viene proposta come piattaforma per la rifondazione del “comunismo” (addirittura!).
    Ho già scritto due brevi interventi sui documenti congressuali del PRC, ma in essi mi ero limitato a criticare una “linea politica”, quella dell’alleanza elettorale subalterna con il PD. So bene che i politici amano parlare di “cultura” quando essa è politicamente innocua, ma reagiscono furiosamente quando gli si tocca la “linea politica” che per loro è come il denaro per i capitalisti. Ora, però, tocco un problema che mi interessa molto di più della minestra parlamentare, il problema della concezione globale della crisi capitalistica. Vederla ridotta a una “risposta” ad un ciclo di lotte certamente importanti, ma storicamente non molto rilevanti rispetto a fenomeni storici e geopolitici macroscopici, mi fa capire che ormai mancano i cosiddetti “fondamentali”.
    Nell’ultimo cinquantennio il solo “economista” marxista italiano che si è opposto a questo codice è stato il mio amico Gianfranco La Grassa. Non a caso è sempre stato inascoltato, in quanto non era “utilizzabile” per un simile modello di spiegazione privo di fondamenti sia storici che economici. Ma questo comporterebbe un’ennesima ricapitolazione dei dibattiti “marxisti”, o presunti tali, dell’ultimo cinquantennio. Essa è impossibile in questa sede.
    Spiace quindi che nel suo ultimo lavoro (Cfr. Oltre l’orizzonte, Besa ed.) La Grassa getti al vento la sua teoria conflittuale e strategica del capitalismo (tanto più seria del modello Negri-Ferrero) con dichiarazioni apocalittiche sulla morte del marxismo e del comunismo. Eppure, questo suo necrologio non manca d’interesse se si prendono in esame le sue motivazioni.
    Il marxismo è morto perché La Grassa lo riduce alla centralità della teoria del valore-lavoro, che Marx non avrebbe sviluppato nel senso di Smith e Ricardo, sulla base del tempo di lavoro sociale medio come criterio di distribuzione ineguale del prodotto; ma avrebbe “svelato” nel senso della diseguaglianza del rapporto fra capitalista e lavoratore salariato. Per La Grassa questa teoria è solo uno “svelamento”, ma non serve come criterio storico e politico per determinare il rapporto diseguale fra dominanti e dominati. Questo rapporto si stabilisce per via strategica, non economica.
    Il comunismo è morto perché per La Grassa è stato scientificamente falsificato (nel senso di Popper) dal fatto che non si è mai formato il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal primo ingegnere all’ultimo manovale, che Marx aveva ipotizzato come precondizione “scientifica” irrinunciabile del comunismo stesso, che altrimenti diventa una “fanfaluca” umanistica per bambini creduloni.
    Dunque, amen per tutti e due. A questo punto, visto il suo odio per l’umanesimo e il moralismo, nessuno capisce perché La Grassa continua a “tifare” per la forza geopolitica della Russia o della Cina contro gli USA. Evidentemente questo odiatore althusseriano dell’umanesimo continua a ritenere “disumano” il dominio unipolare degli USA. Ma questa contraddizione bisogna rivolgerla a lui, sperando che come di consueto non risponda con pittoreschi insulti e invettive. Per chi come me è esperto nella storia del marxismo si ripete il dramma satiresco di trent’anni fa di Lucio Colletti: marxismo e comunismo vengono dichiarati defunti per ragioni epistemologiche. Alla fine gli odiatori della filosofia come forma di conoscenza veritativa della realtà giungono tutti alla stessa conclusione, ed è solo un “gusto personale” che uno auspichi la vittoria degli USA e l’altro invece il contrario.
    La questione di Ferrero è invece molto più importante. Ho già avuto modo di sostenere nei miei due interventi a proposito dei documenti congressuali del PRC il mio disaccordo con la linea politica del “pregare Bersani per essere caricati a bordo”, che ritengo incompatibile con una rifondazione comunista, ma solo con una “innocua affabulazione retorica comunista”. Non credo nell’uso popolare dell’antiberlusconismo, ma questo l’ho già detto e qui non mi ripeto.
    La teoria operaista della “risposta” del capitale alle lotte operaie, riproposta da Ferrero, non capisce che la dinamica del capitale è illimitata (Marx), ed è questa illimitatezza interna a spingerlo sempre oltre i liovelli di sottomissione precedenti, non certamente le “resistenze” operaie e proletarie, che nella storia dello sviluppo capitalistico globale hanno sempre avuto un ruolo minore, oserei dire minimo (sperando di non ricevere gli insulti degli operaisti puri). Marx è stato a suo tempo molto chiaro sul carattere illimitato della produzione capitalistica, e l’ha sempre connotata come l’elemento differenziale con le classi dominanti precedenti (padroni schiavisti, signori feudali, boiardi valacchi, eccetera). Il capitale ha una dinamica impersonale di espansione tendenzialmente illimitata, e questo lo porta a sottomettere sempre maggiori ambiti della produzione globale. Cito qui alla rinfusa Bourdieu, Bauman, Lasch, Heidegger, eccetera, ma è inutile scomodare tutti costoro con un operaista negriano moderato parlamentare. In questo contesto dinamico le cosiddette “lotte”, pur benvenute, hanno l’effetto di una piuma. Quantificandole, che un buon 5% è già una misura accettabile.
    So bene che questo è come bestemmiare in chiesa per il buon popolo di sinistra, cui non si possono togliere due cose: il mito della FIOM e il matrimonio gay. Sfugge il fatto che nella cultura del Sant’Uffizio di Sinistra, e cioè del “Manifesto”, le due cose sono segretamente collegate. Da un lato, la dinamica sociale è sempre da mezzo secolo pensata e ricostruita come “risposta” di cattivi capitalisti (alcuni cafoni come Berlusconi, altri educati come la Marcegaglia) alle meravigliose lotte dei lavoratori. Dall’altro, il progresso verso un fantomatico e mai definito comunismo è pensato come individualizzazione integrale della società e come distruzione delle realtà “intermedie” (famiglia, religione, stato, nazione, eccetera). E tutto questo è chiamato rifondazione del comunismo.
    La somma di economicismo conflittuale e di politicamente corretto definisce un profilo culturale del popolo di sinistra che allo stato attuale considero irriformabile. E’ un’intera cultura che dovrà essere rifondata, e sarà lunga. Nel frattempo, come direbbe Eduardo De Filippo, ha da passare la nottata.
    ANNESSO
    Il lettore avrà capito che la polemica con Ferrero e con La Grassa non è per nulla personale e personalizzata, ma è rivolta a richiamare l’interesse sul concetto di capitale. Dimmi che cosa pensi che sia il capitale, anche con parole semplici e poco specialistiche, e ti dirò a cosa alludi quando parli di comunismo. Troppo a lungo si è permesso che essere comunisti si identificasse con il “sentirsi oggettivamente comunisti”; il che può certo essere tollerato (in fondo, per dichiararsi comunisti non c’è bisogno di superare un esame universitario di storia, economia e filosofia), ma non contribuisce a superare la confusione e la cacofonia, oltre che il settarismo, malattia professionale dei comunisti identitari.
    La Grassa è un professore universitario in pensione completamente isolato, titolare di un blog di nicchia, del tutto estraneo al jet-set dei cosiddetti “intellettuali di sinistra” (ed è stata la sua fortuna e la sua grandezza). Invece Ferrero occupa un posto di una certa importanza, dal quale può orientare o disorientare molte persone, giovani, di mezza età e anziani. Per questo il suo concetto di “capitale” riveste una certa importanza.
    Concepire il Capitale, e quello finanziario globalizzato in particolare, come “risposta” a un ciclo di lotte, anziché come processo di espansione illimitata in tutti i campi della vita, relativamente indipendente dagli ostacoli postigli dai salariati (si tratta di pietre sull’autostrada, non di sbarramenti strategici alla circolazione), va addirittura contro alle stesse concezioni propugnate da un Ferrero. Prendiamo a esempio il movimento NoTAV, che personalmente approvo pienamente, per ragioni che non sto qui a ripetere. I NoTAV si oppongono a una certa concezione globale della produzione e della circolazione delle merci che non ha assolutamente nulla a che vedere con la concezione del capitalismo come “risposta” alle lotte operaie. E potremmo fare decine di altri esempi.
    Ma è inutile. I monopolisti del “pensiero di sinistra” non hanno nessuna intenzione di aprire una vera discussione a 180 gradi, l’unica utile per una “rifondazione comunista”. Ed è un vero peccato. Si autoconvocano continuamente fra di loro (le famose discussioni sulla “sinistra”), quando sono in buona parte loro il problema. Ma quando mai il problema può essere la soluzione?

    Sulle recenti posizioni di Paolo Ferrero e Gianfranco La Grassa di Costanzo Preve - PAUPER CLASS
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  7. #7
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)







    LUNEDÌ 2 NOVEMBRE 2015

    I problemi della sinistra oggi: un'intervista a #politicanuova





    Domenico Losurdo: “Il movimento socialista è nato dall'incontro fra teoria scientifica e lotta di classe: da qui dobbiamo partire!”


    #politicanuova intervista Domenico Losurdo, Professore emerito di Storia della Filosofia all'Università di Urbino, tra i maggiori intellettuali contemporanei, che recentemente ha pubblicato “La sinistra assente” (Carocci, 2014), un'analisi a proposito dell'assenza, in Occidente, di una forza d'opposizione in grado di incidere nella realtà e d'offrire la prospettiva della trasformazione sociale.


    A cura di Aris Della Fontana


    1. Lei afferma che «la sinistra dilegua proprio nel momento in cui è chiamata a reagire ai processi in atto». Come si spiega questa contraddizione?


    Quando parlo del dileguare della sinistra, mi riferisco all'Occidente. La sinistra dilegua, per esempio, dinanzi all'aggravarsi della situazione internazionale. Oggi stiamo assistendo a una serie di guerre neo-coloniali, particolarmente nel Medio Oriente: è un dato di fatto che viene riconosciuto persino da commentatori borghesi, ma che la sinistra occidentale, invece, tace. E oggi i pericoli di guerra si stanno aggravando: ne “La sinistra assente” cito un illustre analista quale Sergio Romano, secondo cui gli Stati Uniti hanno come obiettivo l'acquisizione di una sorta di monopolio sostanziale dell'arma nucleare; e ciò, all'occorrenza, anche al fine di poter scatenare un primo colpo nucleare impunito. Ci troviamo, dunque, dinanzi a una prospettiva decisamente allarmante. Ma la sinistra occidentale latita. Nel libro spiego le ragioni storiche di questa latitanza, ma fermarsi a ciò non basta. Di fronte all'aggravarsi dei conflitti sul piano internazionale, delle tendenze neo-colonialiste e della minaccia imperialista, s'impone la necessità d'una chiara risposta da parte della sinistra – anche sul piano ideologico - e con ciò una sua riorganizzazione. Ma purtroppo siamo ancora disgraziatamente lontani da tale momento.




    2. Di fronte alla «crisi economica e politica» e ad un «deteriorarsi della situazione internazionale» che desta importante preoccupazione in particolare per i venti di guerra che spirano sempre più forti, si pone, per la sinistra, la questione delle tempistiche, e cioè della necessità di agire in rapporto a margini non eternamente posponibili? Se la sinistra non si attiva ora, in seguito sarà troppo tardi?


    Per quanto concerne lo stato della situazione internazionale, ribadisco quanto sostenuto poco sopra. La sinistra è indubbiamente in ritardo. Questo di per sé non è un fatto nuovo. Prendere coscienza di una situazione oggettiva è un processo faticoso e quindi un certo ritardo è quasi la regola. Però oggi ci troviamo dinanzi a qualcosa di assolutamente inedito. In seguito al trionfo occidentale nella Guerra Fredda ha avuto luogo una demolizione sistematica della complessiva storia del movimento comunista. Ciò ha prodotto effetti devastanti sul fronte dell'incisività politica ed egemonica. Occorre dunque prima di tutto colmare tale ritardo. E, pur essendo un obbligo morale, dobbiamo essere consapevoli che si tratta di un'impresa estremamente complessa. Occorre sentirne l'urgenza, ma senza scoraggiarci per i ritardi, i quali in qualche modo sono inevitabili.




    3. Attraverso il «monopolio delle idee e soprattutto delle emozioni» le classi dominanti hanno eseguito un “salto di qualità” nell'ambito del controllo del potere, e cioè dell'egemonia e della lotta di classe? Il concentrarsi, da parte delle prime, sulla suggestione spettacolare denota una lacunosità in fatto di argomenti sostanziali? E, se ciò fosse tale, esistono i margini, da parte della sinistra, per incidere proprio attraverso un solido apparato analitico? Quest'ultima operazione, ancorché valente, non rischierebbe di essere silenziata dai fini meccanismi della «società dello spettacolo»? In tal senso, come va impostata, a sinistra, la questione comunicativa?


    La situazione odierna è più difficile che ai tempi di Marx. Egli constatò come la classe che detiene il monopolio della produzione materiale ha anche il monopolio della produzione intellettuale. Ma oggi c'è una novità: la borghesia detiene, oltre a quello delle idee, anche e soprattutto il monopolio delle emozioni; ed è grazie a quest'ultimo che che si scatenano le guerre e i colpi di stato dell'imperialismo.
    E, per rispondere al quesito, mi pare esemplare proprio il caso del ricorso a quello che definisco il «terrorismo dell'indignazione»[1], ossia il fatto di suscitare scientemente una vera e propria ondata di indignazione in grado di giustificare la guerra: ciò denota anche una mancanza di argomenti razionali da parte delle classi dominanti. Questa particolare forma di terrorismo, come detto, ha avuto una funzione decisiva nello scatenamento delle ultime guerre. Però non è adeguato assolutizzarne gli effetti. Se per esempio confrontiamo la reazione che a sinistra si è verificata, poco tempo fa, per i fatti di Ucraina con quella avutasi, in un passato un po' meno recente, in occasione della guerra contro la Libia o di quella contro la Jugoslavia, si può osservare come il terrorismo dell'indignazione incontri qualche difficoltà in più.
    A sinistra, infatti, c'è qualcuno che comincia a comprendere il funzionamento e le finalità di questo terrorismo dell'indignazione. E personalmente credo, con la mia ricerca, di poter contribuire all'allargarsi di questa importante presa di coscienza. Ovviamente è inutile farsi illusioni: non esiste un'arma magica che neutralizzi una volta per sempre il monopolio della diffusione delle emozioni e con ciò il terrorismo dell'indignazione. La priorità, in tal senso, è contrapporre ad esso un solido sistema di argomentazioni alternative, in grado di essere ampiamente condiviso. E, per conseguire tale finalità, il partito di tipo leninistarappresenta uno strumento essenziale.


    4. Se c'è una «sinistra imperiale» che si cala nella realtà con argomenti e progetti pressoché indistinguibili dagli altri partiti borghesi, ce n'è anche un'altra che «non si appiattisce sull'esistente, rispetto al quale anzi vuole costruire un'alternativa radicale». Quest'ultima, però, è in grado di prendere le mosse «dai movimenti e dalle 'lotte reali'», e quindi di porre i presupposti per incidere politicamente? Esiste, in tal senso, il pericolo della «fuga nella teoresi» (Burgio), e cioè dell'elusione delle responsabilità politiche e organizzative conseguente all'oggettiva difficoltà di muoversi tra i corpi reali?


    Credo sia sufficiente sottolineare un fatto storico di centrale importanza: il movimento che si è richiamato al socialismo è nato dall'incontro fra, da una parte, la teoria rivoluzionaria e scientifica e, dall'altra, il movimento concreto e cioè le lotte di classe reali. Ed è attorno a tale specifico incontro che oggi, ancora, dobbiamo puntare. Da questo punto di vista, concretamente, si tratta di non abbandonarsi né al teoreticismo astratto né all'empirismo. Questa, invero, è la fondazione e la storia del leninismo.


    5. Ne La sinistra assente viene usata l'espressione «romanticismo rivoluzionario»; di esso si afferma il ruolo fortemente negativo allorquando pervade coloro i quali si confrontano con il processo d'indipendenza dei paesi ex coloniali. Ad esso possono essere collegati tendenze quali il «rozzo egualitarismo» e l'«ascetismo universale», trattate ne La lotta di classe(Laterza, 2013)?


    Un'emblematica dimostrazione delle conseguenze del romanticismo rivoluzionario si ha nell'atteggiamento che taluni hanno di fronte alla figura di Ernesto Che Guevara. Egli suscita emozioni ed entusiasmo allorché si pensa al guerrigliero rivoluzionario – e ben si comprende, sia chiaro, questa intensa partecipazione. E, però, se riduciamo Che Guevara a questa raffigurazione, ne dimidiamo il profilo, poiché egli, oltre ad essere stato uno dei protagonisti della lotta armata che rovesciò la dittatura di Fulgencio Batista, è stato anche il teorico della lotta di Cuba contro l'aggressione economica - espressione non a caso da egli coniata.
    Il romanticismo rivoluzionario è la dinamica nell'ambito della quale, da un lato, ci si commuove e ci si indigna allorché è in atto una lotta armata e, dall'altro, invece, si è incapaci di concepire che tale lotta armata, ai giorni nostri, ha la sua continuazione più spiccata nella lotta finalizzata alla liberazione dalla dipendenza economica e tecnologica e cioè nell'emancipazione dal neo-colonialismo. Cito spesso un passaggio di Empire (2000), lo scritto di Michael Hardt e Antonio Negri. I due autori esprimono una solidarietà nei confronti della Palestina che, tuttavia, si verrebbe a dileguare laddove quest'ultima divenisse uno Stato nazionale. Una solidarietà, dunque, che si attiva esclusivamente nei confronti d'un popolo palestinese che subisce disfatte; invece, nella misura in cui esso conseguisse potenziali vittorie e, in legame a ciò, si edificasse quale Stato nazionale indipendente, tale vicinanza si dileguerebbe. Il seguace del romanticismo rivoluzionario s'emoziona per gli sconfitti, ma non riesce a provare sentimenti simpatetici allorché lo sconfitto tenta di andare oltre la situazione che lo caratterizza. Un caso emblematico è quello dei paesi che consolidano la propria indipendenza politica attraverso lo sviluppo economico e tecnologico: è un compito ben più prosaico e oscuro rispetto alla resistenza contro un mostruoso Golia militare e politico, e ciò non affascina il seguace del romanticismo rivoluzionario[2].
    Per quanto riguarda l'«ascetismo universale», ne La lotta di classe denuncio soprattutto il populismo, ossia la tendenza che individua nella miseria anche il luogo dell'eccellenza morale. Questo non è mai stato il punto di vista di Marx. Egli, infatti, se, da una parte, non idolatrò mai la ricchezza – al contrario: rinunciò a una vita agiata per seguire la sua vocazione rivoluzionaria – dall'altra men che meno idealizzò la miseria. In tal senso era quantomai consapevole del fatto che proprio la povertà dei rapporti sociali e materiali rende maggiormente difficile l'elaborazione di idee in qualche modo più illuminate. E nelManifesto del Partito Comunista criticò il «rozzo egualitarismo» e l'«ascetismo universale» quali visioni del mondo che possono essere proprie dei movimenti proletari solo nelle fasi iniziali del loro sviluppo, ma che certamente dovranno essere superate da un movimento socialista collocatosi sul piano scientifico. È necessario, perciò, distinguere Marx da altri movimenti di protesta contro la società di classe. E, inoltre, va sottolineato come un elemento essenziale della visione marxista si rifà alla constatazione secondo cui il socialismo rappresenta un sistema sociale nettamente superiore al capitalismo, non soltanto ché procede ad una più equa redistribuzione della risorse, ma anche ché è in grado d'accrescere la produzione stessa e con essa la ricchezza sociale, la quale, invece, viene distrutta dal capitalismo, come dimostrano le ricorrenti crisi di sovrapproduzione e come sta dimostrando la crisi scoppiata nel 2008.


    6. La fine della guerra fredda ha decretato il formarsi di un quadro radicalmente diverso rispetto ai paradigmi vigenti nella fase storica apertasi dopo la fine della seconda guerra mondiale. A questo proposito, lei ritiene che ciò abbia aperto uno spazio nuovo e amplissimo per l'«universalismo imperiale». Quali sono i suoi lineamenti essenziali? E ad esso con quale modalità si lega il «neocolonialismo economico-tecnologico-giudiziario»? Quale ruolo giocano, in tutto ciò, le Organizzazioni non governative (ONG)?




    Nella Seconda Guerra Mondiale le grandi potenze europee e occidentali si erano scontrate a partire da «valori» tra loro inconciliabili: quello che oggi chiamiamo Occidente appariva lacerato. Con l'affermarsi di un'incontrastata egemonia statunitense, il politeismo dei valori cedette il posto all'Occidente quale custode di un monoteismo dei valori da universalizzare. Gli Stati Uniti, in linea a ciò, nella fase finale della guerra fredda, sfruttarono il grave indebolimento dei paesi socialisti e del movimento comunista sul piano ideologico, politico e propagandistico: abbandonarono, da una parte, il protezionismo economico e, dall'altra, quello politico-ideologico – e con esso il culto dell'irriducibile peculiarità americana[3] - al fine di riempire, con le coordinate dell'universalismo imperiale, lo spazio nuovo e amplissimo apertosi.
    L'universalismo imperiale si è concretato nell'imperialismo del libero mercato e dei diritti umani; attorno a questi ultimi si è venuta definendo una vera e propria religione civile (manipolata), chiamata a glorificare l'Occidente e a ricoprire di vergogna i suoi avversari. E, se, da una parte, non esiste una concordanza nel definire questi valori – si pensi alle divergenze a proposito di questioni quali l'aborto, il porto d'armi e, soprattutto, la pena di morte – va sottolineato, dall'altra, come laddove tali valori sono effettivamente definiti, come nel caso delle varie «libertà», è proprio l'Occidente il primo a calpestarli[4].
    E dato che l'Occidente si ritiene interprete dei valori universali e dunque titolare esclusivo del diritto ad esportarli, le guerre di aggressione possono essere argomentate in base a tale schema, che comporta una sovranità dilatata e imperiale. In forme nuove si riproduce la dicotomia propria dell'imperialismo – nazioni elette e realmente fornite di sovranitàversus popoli indegni di costituirsi in Stato nazionale autonomo. Oggi, specificatamente, il «neocolonialismo economico-tecnologico-giudiziario» si sostanzia in quattro elementi: esteso controllo economico; superiorità tecnologico-militare; dominio sul fronte multimediale; doppia giurisdizione, funzionale a garantire l'impunità dell'aggressore.
    E, tra le varie istanze che si inseriscono in tali dinamiche, un ruolo significativo è svolto dalle Organizzazioni non governative. Innumerevoli e variegate, esse offrono un ampio spazio alle agenzie e ai servizi segreti delle grandi potenze; ma, se non mancano casi di ONG rappresentanti una traduzione immediata di un progetto imperiale, va detto che a svolgere un ruolo essenziale sono soprattutto l'influenza e l'egemonia ideologica: si pensi al contributo fornito da non poche ONG all'aizzamento di una nuova guerra fredda, sempre in agguato[5]. L'impatto egemonico si riscontra nitidamente nella gerarchia dei diritti umani stessi: non c'è più spazio per i diritti sociali ed economici, sanciti dall'Onu alla sua fondazione. Ciò è funzionale alla delegittimazione della rivoluzione anticoloniale. Per i paesi di nuova indipendenza, infatti, la priorità non può che essere la «libertà dalla paura» e la «libertà dal bisogno»: solo una volta sbarazzatisi della preoccupazione di dover fronteggiare l'aggressione e i tentativi di destabilizzazione, questi paesi, grazie allo sviluppo, possono garantire ai cittadini il diritto alla vita e avanzare sulla via del governo della legge e della democratizzazione dei rapporti sociali e delle istituzioni politiche.




    7. Ne La lotta di classe (Laterza, 2013), tra le altre cose, si sviluppava criticamente un concetto di centrale importanza, ossia l'«idealismo della prassi». Di cosa si tratta?


    Insistendo sulla trasformazione del mondo, il pensiero rivoluzionario è esposto all'«idealismo della prassi», in virtù del quale elementi quali il mercato, la nazione, la religione, lo Stato tendono a smarrire «il carattere dell'essere»[6]. Essi risultano cioè plasmabili in modo agevole e illimitato dall'azione politica; ma il confronto con la prassi effettuale non può che smentire una tale presunzione e rimettere al centro l'oggettività dell'essere sociale, dato che i fichtiani «vincoli delle cose in sé»[7] continuano a essere spessi e resistenti.
    Concretamente, ogni grande movimento rivoluzionario è portato a pensare che la propria vittoria sia in grado di porre fine a tutte le contraddizioni. In tal senso, per esempio, immediatamente dopo la Rivoluzione d'Ottobre, alcuni pensarono che il trionfo del socialismo fosse sinonimo del dileguare d'ogni confine statale e d'ogni contraddizione nazionale e, persino, del dissolversi del mercato in quanto tale. Circa quest'ultima istanza è utile rifarsi ai passaggi dei Quaderni ove Gramsci sottolinea il concetto di «mercato determinato»: ivi dimostrò che il «mercato» non è sinonimo di capitalismo, bensì assume declinazioni diverse lungo il corso storico. In altri lavori, specialmente nel libro su Gramsci[8], sottolineo come la sua grandezza stia nell'aver insistito su un punto essenziale: dobbiamo sviluppare un'idea di emancipazione – quella comunista - decisamente radicale, che tuttavia non coincida con la fine della storia. E in linea a ciò non dobbiamo nemmeno pensare alla fine dello Stato; Marx stesso talvolta parla di una sua estinzione, altre volte, invece, si riferisce alla sua estinzione nell'attuale senso politico: ed è questa seconda variante quella corretta. Lo stesso discorso vale per la questione delle nazionalità. Esse non si dileguano col dileguare del sistema capitalistico; e si tenga conto che Karl Kautsky e anche alcuni bolscevichi credevano che col superamento del capitalismo sarebbe scomparsa persino la lingua russa, una sciocchezza contro la quale, come noto, polemizzò anche Stalin (le identità linguistiche, in tal senso, sono al tempo stesso identità nazionali).




    [1] «Grazie alla televisione, ai telefonini, ai computer e ai social media, l'indignazione spontanea o artificialmente prodotta può contare su una diffusione di una capillarità e pervasività senza precedenti, e di essa il paese più potente anche sul piano della tecnologia della comunicazione può servirsi per destabilizzare il paese nemico già dall'interno». «Potendo disporre di strumenti che rendono impossibile distinguere la verità dalla manipolazione, la Psywar ha acquisito un'importanza senza precedenti». Domenico Losurdo, La sinistra assente, Carocci, Roma 2014, p. 75 e p. 85

    [2] Domenico Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 245

    [3] «F. D. Roosvelt, nel celebrare il “nostro sistema americano” e nel criticare Jefferson per essersi lasciato troppo influenzare dalle “teorie dei rivoluzionari francesi”, chiamava i suoi concittadini a opporsi non solo al comunismo ma anche a “qualunque altro “ismo” forestiero». Domenico Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 141

    [4] «Ogni volta che a ragione o torto si è sentita in pericolo, la repubblica nordamericana ha proceduto a un rafforzamento più o meno drastico del potere esecutivo e a un restringimento più o meno pesante della libertà di associazione e di espressione. Ciò vale per gli anni immediatamente successivi alla rivoluzione francese, per la guerra di secessione, la prima guerra mondiale, la Grande Depressione, la seconda guerra mondiale, la guerra fredda, la situazione venutasi a creare dopo l'attacco alle torri gemelle». Domenico Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 168

    [5] «Nel 2008 e nel 2014 esse si sono impegnate, se non a sabotare, a delegittimare le Olimpiadi estive di Pechino e quelle invernali di Sochi, accodandosi acriticamente alla campagna scatenata dall'Occidente prima contro la Cina e poi contro la Russia». Domenico Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 192

    [6] György Lukács, Ontologia dell'essere sociale, trad. it. a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1976-81, p. 3

    [7] Si veda Domenico Losurdo, Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Guerini-Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano, cap. III, § 2

    [8] Domenico Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico», Gamberetti, 1997



    FONTE: Domenico Losurdo: I problemi della sinistra oggi: un'intervista a #politicanuova
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  8. #8
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    La figura che piu' di tutte m'intriga (e lo faceva già all'età di 17 anni, quando lessi Stato e rivoluzione) nel mondo marxista - bombaccianamente parlando - è quella di Lenin.
    Magari va rispolverata la lettura, magari sono condizionato da un'idea tutta mia, ma vedo in Lenin un'idea di socialismo che passa attraverso l'accentramento del potere prima nelle mani del Partito, che poi diventa Avanguardia e poi stato.
    Una volta diventato èlite statale, il passaggio per il socialismo come fase di accentramento del potere e applicazione della prassi, vuole dire de-borghesizzare il Paese, favorire la crescita economica e sociale delle classi subalterne e poi, quando questo meccanismo naturale giunge al termine, ritornare a una lenta "democraticità" delle masse e dell'organizzazione statale-economica.
    Forse dico una minchiata, ma vedo qualcosa di simile nel populismo di Pèron, anche se non era affatto leninista o marxista.
    E tutto ciò senza dimenticare la variabile gentiliana della SN

  9. #9
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    Citazione Originariamente Scritto da Dean M. Visualizza Messaggio
    La figura che piu' di tutte m'intriga (e lo faceva già all'età di 17 anni, quando lessi Stato e rivoluzione) nel mondo marxista - bombaccianamente parlando - è quella di Lenin.
    Magari va rispolverata la lettura, magari sono condizionato da un'idea tutta mia, ma vedo in Lenin un'idea di socialismo che passa attraverso l'accentramento del potere prima nelle mani del Partito, che poi diventa Avanguardia e poi stato.
    Una volta diventato èlite statale, il passaggio per il socialismo come fase di accentramento del potere e applicazione della prassi, vuole dire de-borghesizzare il Paese, favorire la crescita economica e sociale delle classi subalterne e poi, quando questo meccanismo naturale giunge al termine, ritornare a una lenta "democraticità" delle masse e dell'organizzazione statale-economica.
    Forse dico una minchiata, ma vedo qualcosa di simile nel populismo di Pèron, anche se non era affatto leninista o marxista.
    E tutto ciò senza dimenticare la variabile gentiliana della SN
    No, è tutto molto diverso. Lenin puntava sul partito-avanguardia, Peròn sul sindacato e , tra le tante cose, il justicialismo non contemplava l'abolizione della proprietà privata. Per quanto riguarda la "sinistra" fascista ci sarebbe da scrivere tutto e il contrario di tutto. Non dimentichiamo assolutamente che anche il processo di "socializzazione" avrebbe dovuto concretizzarsi all'interno di un ordinamento corporativo.

    Lenin , come già scritto, basava tutto sul partito, partito inteso come avanguardia rivoluzionaria del proletariato e sui consigli dei lavoratori. I famosi "soviet".
    Ultima modifica di LupoSciolto°; 12-05-16 alle 08:50
    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

  10. #10
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    Predefinito re: Comunismo Storico Novecentesco (da Lenin al Socialismo di Mercato)

    Citazione Originariamente Scritto da LupoSciolto° Visualizza Messaggio
    No, è tutto molto diverso. Lenin si serviva del partito, Peròn del sindacato e , tra le tante cose, il justicialismo non contemplava l'abolizione della proprietà privata. Per quanto riguarda la "sinistra" fascista ci sarebbe da scrivere tutto e il contrario di tutto. Non dimentichiamo assolutamente che anche il processo di "socializzazione" doveva avvenire all'interno di un ordinamento corporativo.

    Lenin , come già scritto, puntava sul partito come avanguardia rivoluzionaria del proletariato e sui consigli dei lavoratori. I famosi "soviet".
    Tutto vero, ma fu anche lui a dire che in Italia gli unici a poter fare una rivoluzione erano D'Annunzio e Marinetti. Poi la storia è andata diversamente, ma Fiume venne riconosciuta come nazione libera solo dal governo sovietico.
    C'erano poi all'interno del regime (probabili residui del 19vismo) personaggi che indicavano l'URSS come ideale alleato, in chiave sociale e nazionale, e non la Germania.
    anche qua, purtroppo, sappiamo com'è andata

 

 
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