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Discussione: Il filone "nazionale"

  1. #121
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: Il filone "nazionale"

    Citazione Originariamente Scritto da Gianky Visualizza Messaggio
    Esiste ancora il PCN?
    Sì. Ricordo che un paio di anni fa Socialismo Patriottico intervistò Luc Michel. Il PCN non è un partito grosso né medio, i militanti sono pochi, ma ha il merito di ergersi in piedi tra l'indifferenza totale dei media.
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  2. #122
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    Predefinito Re: Il filone "nazionale"

    Si può anche non condividere tutto ma trovo interessante alcune riflessioni e sottolineature dell'autore.

    Mazzini, padre della sinistra che non fu

    Il patriota genovese teorizzò una sinistra realista, che si coniugasse con patria e famiglia, religione e proprietà. E, con quasi due secoli d’anticipo, previde e criticò la sinistra arcobaleno “dei diritti”. Oggi, mentre la sinistra ovunque si decompone, leggere Mazzini fa pensare amaramente a ciò che poteva essere ma non fu.

    di Luca Gritti - 19 aprile 2017

    Carlo Marx aveva un fratello buono e si chiamava Giuseppe Mazzini. I due fratelli, separati alla nascita, partirono da una comune matrice ma poi approdarono ad esiti diversi. Entrambi vollero denunciare le storture dell’Europa uscita dal Congresso di Vienna, la spartizione di un continente in poche famiglie, le disuguaglianze sociali e le condizioni di masse di diseredati. Ma Carlo, fratello teutonico, che crebbe in Germania, nella culla del protestantesimo e dell’hegelismo, perseguì quest’obiettivo con il severo livore del predicatore, l’inquietante utopismo dell’idealista e il freddo calcolo dell’economista; il fratello Giuseppe, cresciuto in Italia, invece si batté per la giustizia sociale con la passionalità del patriota, il realismo del cattolico e il senso delle priorità dell’umanista.

    Il fratello tedesco denunciò con estrema lucidità le storture del capitalismo, ma poi vagheggiò la costruzione di un mondo assurdo e disumano, in cui fossero abolite la proprietà, la patria, la famiglia e la religione; il fratello italiano invece coniugò tradizione e rivoluzione, patria e democrazia, e volle perseguire un mondo più giusto ma senza pretendere di cambiare l’uomo o di trasformarlo in qualcosa d’altro, di indefinito ed inquietante. Nonostante questo, ad aver maggiore fortuna fu Carlo, che divenne lo spettro che si aggirava per l’Europa, la bestia nera dei suoi governanti, lo stupefacente dei popoli, che li portò alla rivolta e alla lotta armata, e le cui idee poi nel secolo successivo segnarono le rivoluzioni di mezzo mondo, anche oltre i confini europei, dalla Russia alla Cina finendo con il Sudamerica.

    Giuseppe invece, dopo la grande fama riscossa in vita, da morto fu utile solo per il suo repubblicanesimo a coloro che volevano far fuori la monarchia in Italia. Di tutta l’opera di Mazzini rimase solo l’elogio della repubblica e l’invettiva contro il Re, che fu sventolata come un feticcio fino al Referendum del 2 giugno 1946. In quel periodo il nome di Mazzini era ancora sulla bocca di molti, la sua figura studiata da specialisti e politici di rilievo, come Gaetano Salvemini che gli dedicò un’opera maestosa. Ma dalla costituzione della Repubblica, il nome di Mazzini fu progressivamente abbandonato, venne ritenuto forse autore obsoleto od inservibile per le battaglie del presente. A smentire questa credenza, c’è oggi la ripubblicazione, per i Tascabili Feltrinelli, di un’opera importantissima del patriota genovese, Pensieri sulla democrazia in Europa. Si tratta di un’antologia di sette articoli, pubblicati da Mazzini in inglese nel corso del suo esilio forzato in Inghilterra, in cui l’esule italiano fa il punto sulla situazione delle varie correnti del pensiero democratico sparse per l’Europa (oggi si direbbe: sulla situazione della sinistra europa), per poi proporre una sua sintesi, efficace ed originale, per compattare e unire tutte le forze antagoniste agli imperi dell’Europa continentale.

    È un’opera importante per due motivi: la prima è che Mazzini con questi articoli si colloca di diritto tra gli scrittori politici più importanti del suo tempo, facendo i conti con tutti i grandi autori a lui più prossimi, da Tocqueville a tutte le ali della sinistra, i sansimoniani, i fourieristi, i comunisti; la seconda è che in quest’opera Mazzini smette di definirsi semplicemente repubblicano e incomincia a delineare un profilo più preciso della sua prospettiva sociale, attingendo dal parlamentarismo inglese, di cui aveva potuto di persona osservare i pregi, ma coniugandolo con una grande attenzione alla questione sociale. Mazzini in questi articoli parla più volte di una unione di forze “democratiche”, contro la conformazione elitista dell’Europa a lui contemporanea. In un certo senso, Mazzini è il primo padre della grande storia della sinistra italiana, che sta giungendo al suo mesto epilogo proprio in questi giorni. Non è per mescolare la grande storia alla piccola cronaca, ma forse è utile vedere Mazzini come genitore putativo ed inascoltato della sinistra italiana, una volta di più nei giorni della sua ingloriosa dipartita: forse il fallimento della sinistra sta in qualche misura anche nel fatto di aver misconosciuto un autore come il genovese.

    In questi articoli Mazzini critica, con grande maestria ed acuta puntualità, tutte le storture delle proposte democratiche a lui contemporanee. Critica il comunismo, di cui prevede con impressionante visionarietà il carattere necessariamente “tirannico”, liquidando con facilità il vecchio alibi, in voga oggi, per cui il socialismo reale sarebbe stato “una buona idea applicata male”:

    È chiaro che il sistema dell’uguaglianza assoluta nella distribuzione del prodotto è ingiusta, irrealizzabile, e porta inevitabilmente a ciò che essa pretende di sopprimere. Distrugge ogni stima dell’ingegno, della virtù, dell’attività, della dedizione del lavoratore; ogni stima nella qualità del lavoro.[…] La tesi della distribuzione secondo i bisogni non è meno irrealizzabile.[…] A ciascuno secondo i propri bisogni voi dite; ma cosa costituisce un bisogno? Ciò che ogni individuo dichiarerà?[…] O sarà il Potere competente a incaricarsi di definire il bisogno? Potete immaginare una tirannica dittatura più temibile?

    È una profezia di una lucidità incredibile, che fa pensare al comunismo ma anche ad alcune proposte attuali, che partono da una volontà sacrosanta di ridurre gli sprechi e gli scarti dell’iperconsumo ma poi vagheggiano entità verticistiche che stabiliscano quanto e come consumare, riecheggiando pretese sinistre e giacobine; ma ancora, Mazzini in questi articoli rivendica la validità, anche per un uomo democratico e di sinistra, di istituzioni che una stupida retorica ha liquidato come “reazionarie”, ma che sono in realtà entità naturali, costitutive di ogni società umana. Scrive a proposito di famiglia, patria e proprietà:

    Io non amo la famiglia egoista che fonda il benessere dei suoi membri sull’antagonismo, o sull’indifferenza per il benessere altrui[…], ma chi non amerà la famiglia che, prendendo la sua parte nell’educazione del mondo, considerandosi come il germe, come il primo frutto della nazione, sussurra, tra il bacio della madre e la carezza del padre, la prima lezione di cittadinanza del bambino? Io aborro la nazione che usurpa e monopolizza, che concepisce la propria grandezza e la propria forza solo sull’inferiorità e povertà degli altri; ma chi non saluterebbe con entusiasmo e amore quel popolo che, comprendendo la propria missione nel mondo, fondasse la propria sicurezza sul progresso di tutto ciò che lo circonda[…]? Sicuramente non vedo con favore la proprietà dell’uomo ozioso[…]; ma ritengo che la proprietà, come segno e frutto del lavoro, sia buona e utile; vedo in essa il simbolo rappresentativo dell’individualità umana nel mondo materiale[…]”.

    Ma la cosa forse più attuale di Mazzini, la cosa che forse riguarda di più il nostro mondo di oggi, che vive grandi disuguaglianze ma anche grandi oasi di benessere ed opulenza, è la critica di quella che oggi si chiama la “sinistra dei diritti”.
    Mazzini contesta l’idea, in fondo utilitaristica (e borghese, nel senso peggiore di questo termine) che il fine ultimo della lotta per la democrazia debba essere ottenere la maggior quantità di diritti civili per ciascuno. Mazzini ripete più volte che la libertà non è un fine, ma un mezzo; ma che dopo aver dato la libertà ai cittadini occorre anche creare un orizzonte condiviso in cui vivere, dei fini comuni verso cui tendere. I diritti civili hanno senso solo se affiancati ad una seria consapevolezza sociale, altrimenti la politica si riduce solo a concessione esasperata di diritti ad individui che badano solo alla loro parte, che ritengono di avere diritti senza doveri, onori senza oneri. Scrive Mazzini, precorrendo con sorprendente preveggenza l’odierna retorica dei diritti e della libertà:

    Se da questa alta sfera […] voi fate scendere la Democrazia sull’augusta arena delle tendenze individuali, dandole come mezzo i diritti individuali, come fine una mera teoria della libertà;[…] voi convertite la natura onnicomprensiva, onnisantificante della Democrazia in qualcosa di reazionario ed ostile, voi distruggete l’organicità del suo pensiero, i suoi istinti meramente sociali, i suoi desideri di educazione generale […],a beneficio di non so quale sistema anarchico[…] in cui l’uomo[…] cadrà gradatamente negli abissi dell’egoismo.

    In un’epoca come la nostra, in cui la sinistra si è decomposta perché, accanto alle battaglie giuste per i diritti individuali, non ha saputo proporre nessun modello serio di società, di comunanza di valori, prospettive ed intenti, quanto sarebbe stato utile avere presente Mazzini? Ma ancora di più: osserviamo che Mazzini, nel suo percorso politico ed esistenziale, incarna perfettamente quello che è sempre stato il paradosso della sinistra italiana, che nacque nel Risorgimento ma poi attraversò tutto il novecento, passando da Gramsci a Turati, da Togliatti a Berlinguer, ma perfino dagli ultimi e più fiacchi Bersani e Vendola.

    Da un lato, infatti, l’uomo di sinistra vuole una sinistra democratica, e quindi trasversale, popolare, che si faccia capire anche al popolano e all’operaio; dall’altro però un certo intellettualismo, di marca illuministica, ed ultimamente un certo snobismo colto, lo porta sempre a rivendicare la sua diversità e la sua estraneità rispetto al popolo, ai sentimenti diffusi, alla maggioranza. Da un lato si vuole una rivoluzione trasversale e di massa; dall’altro si rifiuta la massa per approdare ad una riflessione amara, solitaria e minoritaria. È la schizofrenia della sinistra esemplificata da Nanni Moretti, per cui “siamo diversi, ma uguali agli altri”; siamo come tutti, però ci piace sentirci un po’ migliori, inaccessibili e distanti. Il partito della Nazione resta partito della Fazione, della setta, della nicchia sofisticata.

    In realtà Mazzini non ebbe mai nessun vezzo snob, né alcun paternalismo intellettuale, però, per un gioco del destino, finì i suoi giorni in esilio, le sue istanze restarono minoritarie ed inascoltate: Garibaldi consegnò il Sud Italia al Re e allo stato liberale, e la creazione della repubblica democratica e del suffragio universale fu posticipata di un secolo. L’Unità sorse a sinistra ma si compì a destra. Però guardando Mazzini vediamo il modello di un uomo di una rettezza e di una coerenza straordinari, che giganteggia rispetto ai politici, prima livorosi e cinici, ed ultimamente ipocriti e debosciati, che monopolizzarono la sinistra italiana dopo di lui. Chissà che il suo messaggio, obliato in passato, non possa essere finalmente udito in futuro.

    Mazzini, padre della sinistra che non fu | L' intellettuale dissidente
    Ultima modifica di Kavalerists; 19-04-17 alle 19:01
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  3. #123
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    Predefinito Re: Il filone "nazionale"

    Sono in parte d'accordo, anche se l'analisi riguardante Marx la trovo un po' sbrigativa e ingenerosa. Senz'altro alcune intuizioni del padre del repubblicanesimo andrebbero studiate.
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  4. #124
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    Predefinito Re: Il filone "nazionale"

    Citazione Originariamente Scritto da LupoSciolto° Visualizza Messaggio
    Sono in parte d'accordo, anche se l'analisi riguardante Marx la trovo un po' sbrigativa e ingenerosa. Senz'altro alcune intuizioni del padre del repubblicanesimo andrebbero studiate.
    Son daccordo, un pò troppo sparate a sentenza.
    Comunque riconosce l'estrema lucidità e precisione con cui l'analisi marxiana denuncia le storture del capitalismo e ne mette in luce meccanismi e funzionamento, poi sulle soluzioni proposte dallo stesso ci saranno sempre discussioni infinite.
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  5. #125
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: Il filone "nazionale"

    Requiem for a National Bolshevist




    Of all the friends I had among German refugees in New York I had known Karl Otto Paetel for the longest time. I had met him first in the late 1920s when we were students at the University of Berlin. But although we were both in Professor Peterson’s class on the German romantics, that was not where we would or could have become acquainted. Professor Petersen was a zealous nationalist who used his lectures to praise war, and Karl Otto believed in the Gothic revival as part of Germany’s rebellion against the humiliating Treaty of Versailles—as a means to liberate her from Western, rationalistic capitalism. I, by contrast, loved romantic poetry and would have liked to find the link between that artistic expression of human yearnings and Marxism. But such connections, even if found, never provided a basis for conversation between us. In fact, we never discussed anything seriously because we knew that, even where we seemed to agree, we did so for different reasons.

    However, it had pleased the university administration to assign, to all student political clubs, bulletin boards in one and the same big niche of the lobby. Each society had a right to hang its emblem there so that beneath it one could meet for lunch, to exchange news, or just to show the flag. Sometimes we had heated discussions there, and it was an extremely unwise decision to force socialists, republicans, communists, nationalists, nazis, and zionists into such close contact. By sheer luck, we never had a brawl in the lobby during my time.

    Anyway, it was there that I first saw Karl Otto, a lanky figure of somewhat military bearing, fair-haired and blue-eyed as one would imagine a Nazi student should look, but with a slightly quixotic air—an impression which might simply have suggested itself because he was heavily gesticulating in front of a man in a storm trooper uniform. Not being far away, I could hear that they were debating Nazi doctrine, and someone whispered into my other ear: “Watch that one, he is a dissident Nazi.” It was good news that the Nazis were splitting, but the information was slightly incorrect. Karl Otto never considered himself a Nazi. Of the six possible combinations of the words national, social, and revolution he had formed the label to which he stuck to the end of his life: He was a “social-revolutionary nationalist.” He considered Hitler a petty-bourgeois demagogue who, moreover, had betrayed whatever anticapitalistic tenets had been in his program, and who had substituted anti-Semitism and anticommunism for socialism so that he could hobnob with the capitalists. The true German revolution, by contrast, Karl held, could only be “socialist” and it could be victorious only in alliance with the Russian revolution.

    This latter idea interested Boris Goldenberg, a brilliant Russian Jew who loved political adventure and who had just joined the Communist party. He also had a soft spot for national revolutionaries and later was to get himself involved in a Caribbean liberation movement. At that time he directed the propaganda work of the Communist Student Group, and Karl Otto had just the right idea for him: a German revolution with the Red Army’s backing, an ideological fight between the mysterious East and the all-too-civilized West, a sort of cultural revolution that was coming to the aid of a Bismarckian scheme to overthrow the system of Versailles. These were ideas which then were circulating among students. They could have been voiced by Naphta in Thomas Mann’s Magic Mountain, and they had actually been voiced by Moeller van den Bruck, the translator of Dostoevsky who had introduced the term “Third Reich” into political literature. They were not foreign to Count Brockdorff-Rantzau, the German ambassador to Moscow, or to a host of ideologists who called themselves “national bolshevists.” Even Lenin had occasionally toyed with the idea of exploiting German nationalism, and Radek had written editorials for Nazi papers.

    Some such national revolutionaries actually came over to the communists. The most famous case was one Lieutenant Scheringer who had started a small Nazi coup on his own, was sent to confinement in a fortress (a privilege for political prisoners who were not workers), there had met some of our student friends, and suddenly shook the world with a manifesto proclaiming his conversion to Leninism. There were quite a few defections from Hitler in the early 1930s and, each time, Boris and Karl Otto thought they were splitting the Nazi party down the middle. Alas, most of the commotion went the other way; in his former comrades’ eyes Karl Otto was not just a lost soul but a traitor.

    Above all, national bolshevist views had also occurred to the German youth movement, a romantic reaction to capitalism, urbanism, materialism, and rationalism. Karl Otto came from the youth movement and was able to mouth its confused ideologies. Boris saw to it that Karl Otto could address student meetings where he denounced the establishment Nazis and predicted the national and social revolution of the Germans under the Red Army’s benevolent auspices. He showed that one could be patriotic and yet collaborate with the Communists, or at least look favorably to the Russians. He rejected anti-Semitism; he was an authentic German who despised Hitler. We went to Karl Otto’s meetings, not because we liked what he said but because Boris felt he needed support and protection. After all, it took courage to attack Hitler in front of two hundred storm troopers. By dint of facing the same danger and marching together, some of our crowd became good friends with Karl Otto. Although we considered his ideas rather fuzzy, or hardly understood him, we respected him as an honest, decent, upright man. But he always kept his distance in this company, for he wished to continue being accepted as a person of the right. Even while praising the Red Army he made it clear that he would never be a man of the left; his views were elitist and he could not accept our proletarian theories. Later he told me that his deepest desire had been to be recognized by us as a “revolutionary,” for very few people on the right could be so classified; but even to achieve that he would not part with his Prussian values, his ideals of a military order and of the barracks socialism that Spengler was then preaching.

    This persistence was hard to understand in Karl Otto, for as a person he was most unmilitary and un-Prussian; he had an innate aversion to work, discipline, order. His room looked like an antique shop or, rather, like a secondhand bookstore. In fact he was bookish to a fault; even when he had to run for his life, he still carried a carton of books with him. He lived mostly on cigarettes and wine and shared what little he had with comrades from the old youth movement. They had a common language and quaint reminiscences. Some had never adjusted to civilian life nor grown up to fill their place in society; others were desperadoes. He was different from them in one respect, however, which matters in this particular setting. He did not love nature, not a bit, although this was incumbent upon a youth leader. He was a bohemian, or even, if that is possible for a Prussian socialist, a libertarian. He was always interested in liberation movements around the
    world (though of course not women’s liberation); later on, in New York, he would support Castro, Ho Chi Minh, and Nasser, and even translate Beat literature into German.

    But I am anticipating. When Hitler came to power, Karl Otto had to flee; soon a kangaroo court sentenced him to death–fortunately in absentia. (With a mixture of irony and glee, he often told his friends that a Nazi book on race included his photo: the prototype of the Nordic race.) He sought asylum in Sweden, but the socialist government of that country told him ever so politely that it could not afford to antagonize Hitler just for the sake of one “dissident Nazi.” He made his way to Prague and later to Paris, where he was cut off from his own true comrades and brothers-in-arms, the national revolutionaries, the youth movement, the romantics, the mystics. Of necessity he was drawn to us more closely. His companions had to be Jews, communists, socialists. Boris was in Paris, and a girl of our crowd became Karl Otto’s companion for a while; but it was rare that someone turned up in our meetings whom Karl Otto would spontaneously call
    “comrade.”

    The French government had even less understanding than the Swedish for the fact that there could be Germans, and patriotic ones at that, who were against Hitler. The first months of the war we were both in French internment camps; we got to America after the defeat of France.

    But in America Karl Otto had to undergo his deepest change. For most refugees there was no problem when war came to America; in fact we had prayed for that moment to come. Every anti-Fascist, every democrat had to lend his hand to the war effort. But Karl Otto was no democrat and no liberal. He felt no obligation to defend either Western capitalism or Russian bolshevism. He was a German patriot who feared another Versailles after the war. Yet he worked in an intelligence office in New York. He felt that after the war there might still be a German revolution, and certain events seemed to point in his direction: Marshal Paulus with two hundred thousand men capitulated at Stalingrad and formed a committee to establish that friendship which Karl Otto had preached all his life. But on the day of Stalingrad he came to me and asked anxiously: Is it not time now to make peace? I replied: With whom? The answer came on July 20, 1944, when the flower of German nobility and officers rebelled against Hitler, lost ignominiously, and were executed en masse. Karl Otto felt that they had saved Germany’s honor, though they could not save Germany. From that moment on, our relations grew tense again. We were looking forward to victory; he, to defeat.

    One should have thought that the situation in Germany after the war would be hospitable to people of Karl Otto’s persuasion. Why did this people in ruins not rebel? Why was there no fertile soil for the propaganda of national revolution? Karl Otto was one of the first refugees to go back to Germany—and return deeply disappointed. His Germany was dead; patriotism had become meaningless. He found friends but no hope. He was of course indignant about the division of Germany, and for the sake of German unity he opposed NATO, the founding of the Federal Republic, the cold war, American policy. Although he had never been a pacifist, he now preached neutralist philosophy. Mistakenly perhaps, he campaigned for Stevenson, Kennedy, McCarthy, and McGovern. At his death, he had traveled far from his original commitments, though he had not given up any of his basic philosophical attitudes. A book dedicated to him on his sixtieth birthday was entitled Upright Between the Stools.

    Karl Otto published books on the German youth movement and on the ideology of national bolshevism. His life epitomizes the strange kinship between the romantic effusions of the German youth movement and the tough policies of Third World dictators. Military or intellectual elites presume to make “revolutionary” history behind their peoples’ backs, to introduce “socialism” without democracy but in the name of nationalism. They are liberationist without being liberal, egalitarian without being humanitarian, and highly rational in the execution of their plans without, however, believing in Reason. The cultural revolution which they propose to carry out does not bring culture to their nations; on the contrary, it is nourished by the anti-cultural, anti-intellectual ideologies that were first developed in the murky grounds of Richard Wagner’s Niflheim, and have come down to us via the proto-fascist movements of the first quarter of this century.

    Karl Otto was too decent and too noble to draw from his ideology the conclusions which the plebeians found so attractive. He was alienated from his own nation and never managed to join any other. He had left the positions from which he had started out, but he remained true to himself— till his death in 1976.

    https://openrevolt.info/2011/10/21/r...al-bolshevist/
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  6. #126
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: Il filone "nazionale"

    Non conosco bene il soggetto e, nel dettaglio, le sue idee. Credo che sia arrivato il momento di pubblicare qualche suo testo o articolo in lingua italiana. Personaggio "sui generis", senza ombra di dubbio.
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  7. #127
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: Il filone "nazionale"

    @Kavalerists @RibelleInEsilio

    L'Organizzazione Lotta di Popolo, fondata nel 1969 da Enzo Maria Dantini e Ugo Gaudenzi, può essere considerata una formazione nazional-bolscevica o , comunque, anticapitalista e patriottica? So che esisteva, come nei partiti maoisti, una "linea nera" e una "rossa". Quali erano le loro proposte e quale il loro modus operandi? OLP esprimeva nostalgismo di marca fascista o, invece, effettuava analisi e ricerche sul maoismo e sulle lotte di liberazione nazionale?
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  8. #128
    Rossobruno cattivone
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    Predefinito Re: Il filone "nazionale"

    I padri del “nazional-comunismo” tedesco: Heinrich Laufenberg e Fritz Wolffheim

    Il termine “Nazional-Bolscevico” porta molte ambiguità, derivanti dall’affiancamento di due nozioni completamente opposte, in apparenza, che servono a definire esperienze politiche spesso molto diverse. Le diverse interpretazioni del fenomeno, lungi dal portare a una chiara definizione ha portato, al contrario, a molte confusioni. Nel caso di Heinrich Laufenberg e Fritz Wolffheim, il nome di “Nazional-Bolscevismo“, li mette in contiguità con i loro avversari, per screditarli. I due interessati, da parte loro, non l’accettarono mai, perché non riflette il vero significato del loro approccio, che è molto più simile al comunismo nazionale e vedremo che la differenza è importante.





    La nascita del nazional-comunismo

    I due compagni si incontrano nel 1912, ciascuno di loro aveva un lungo percorso di attivista nelle lotte del movimento socialista dell’anteguerra. Laufenberg era considerato uno dei maggiori conoscitori del movimento operaio tedesco. Impegnato tra le fila socialiste rivoluzionarie, rifiutò la linea riformista e parlamentare delle organizzazioni di sinistra del tempo. Svolse un ruolo attivo nella formazione dei gruppi rivoluzionari radicali nel nord della Germania, soprattutto Amburgo, dove aveva molti sostenitori. La crescente minaccia di una guerra europea, lo portò a collaborare con un giornalista recentemente tornato dagli Stati Uniti, Fritz Wolffheim. Questi seguì per diversi anni l’evoluzione del sindacalismo americano. Tornò profondamente colpito dal suo metodo di operare e si convinse dell’obsolescenza delle vecchie forme delle organizzazioni dei lavoratori (in particolare della ripartizione dei compiti, puramente arbitrario, tra sindacato e partito d’avanguardia). I due uomini s’impegnarono decisamente contro la guerra, rifiutando di aderire alla “Union Sacrée” che portò, in Germania come in Francia, la sinistra ad aderire alla grande follia della prima guerra civile europea. Se il loro attivismo contro la guerra li spinse a chiedere l’immediata cessazione delle ostilità e una giusta pace tra i belligeranti, furono ostili a qualsiasi forma di appello al sabotaggio della difesa nazionale, che per loro avrebbe fato solo il gioco del proprio imperialismo contro l’imperialismo avversario “nazionale“. Si noti che nessuno dei due compagni rifiutò di essere mobilitato e di andare a combattere sul fronte. Il periodo della guerra vedrà maturare in loro l’idea che la nazione è un “tutto“, vale a dire, una comunità legata da cultura, lingua, ma anche dall’economia. Heinrich Laufenberg e Fritz Wolffheim distinsero due funzioni dell’economia: la prima è la funzione di sfruttamento da parte di una minoranza della maggioranza, e la seconda è la funzione vitale per l’esistenza della totalità, vale a dire la nazione. Il ruolo dei socialisti rivoluzionari è quello di superare lo sfruttamento capitalistico, per far si che la comunità nazionale possa prosperare. Nel caso della Germania, ritennero che l’unità nazionale, guidata con la forza dalla borghesia, fu un fallimento, per aver omesso di sollevare un condiviso senso della comunità. E’ quindi compito della classe operaia realizzare l’unità tedesca attorno al principio del socialismo.
    Nel contesto della guerra, il proletariato, che ha un mandato nazionale, potrebbe essere costretto ad accettare d’essere arruolato in un esercito “nazionale“, nonostante il carattere borghese dello Stato. Il proletariato, essendo la nazione, deve difendere i suoi interessi. Ma la subordinazione militare non è una subordinazione politica, perché gli obiettivi del proletariato sono totalmente diversi da quelli del Capitale. Il popolo è il nemico delle guerre imperialiste: “quando il proprio ambito economico è protetto dalla difesa dei suoi confini, il proletariato deve prendere posizione senza riserve a favore della pace“. E’ in opposizione alla guerra che si forgia il nuovo approccio al socialismo di Wolffheim e Laufenberg. Troverà il suo campo di applicazione proprio negli sconvolgimenti che colpirono la Germania dopo l’armistizio del 1918. Questa nuova idea, quella dei consigli operai, a cui si avvicinarono nel 1917. Sarà al centro della loro politica. I Consigli permettendo la partecipazione diretta dei cittadini nelle decisioni che li riguardano, possono superare il gioco parlamentare e respingere le organizzazioni burocratiche del tipo dei partiti e dei sindacati classici. Per gli “amburghesi“, il centro della rivoluzione è nella fabbrica. La forma burocratica del partito deve essere superata, e diventa una semplice struttura di propaganda per l’idea consiglista. Quest’approccio era in totale opposizione al modello bolscevico. Proponeva un decentramento verso la base e la democrazia diretta, sia nella lotta che nella società socialista del futuro. “Se, nell’età dell’imperialismo, le masse sono oggetto del potere esecutivo, scrisse Wolffheim, nel mondo socialista esse saranno il potere esecutivo stesso”. Parteciparono alla fondazione della sinistra radicale, una tendenza che riuniva i gruppi rivoluzionari della Germania del Nord. Wolffheim, in qualità di rappresentante del gruppo, incontrò gli spartakisti di Berlino, per preparare l’insurrezione del 1918. Intervenne affinché essa non finisse in una catastrofe generale, provocando il caos in Germania, e sottolineò la necessità che il fronte non crollasse. Si oppose nettamente alla parola d’ordine della diserzione in massa, lanciata da alcuni leader spartakisti.

    La rivoluzione ad Amburgo

    Il 6 novembre 1918 scoppiò la rivoluzione ad Amburgo e Wolffheim, allora mobilitatosi sul posto, giocò un ruolo di primo piano. I soldati ammutinati, incoraggiati dalla sinistra radicale, proclamarono per la prima volta, in Germania, la Repubblica socialista. Wolffheim partecipò alla formazione del “Consiglio degli operai e dei soldati”, che garantirono il controllo della città. Di ritorno dal fronte, Laufenberg venne proclamato presidente del consiglio, avendo così coscienza che il “destino intero della rivoluzione europea è nelle mani della classe operaia tedesca.”
    Per lui, il compito immediato dei rivoluzionari era quello di consolidare le conquiste fatte, di renderle irreversibili e di evitare la guerra civile. Predicò la riconciliazione delle classi sotto gli auspici della rivoluzione socialista trionfante e sollecitò il rapido ritorno della pace. La socializzazione delle società passa, secondo Wolffheim e Laufenberg, per l’azione progressiva della maturazione della coscienza di classe. Come scriveva Louis Dupeux, “rifiuta l’idea che la dittatura del proletariato sia installata in un solo paese, né soprattutto solo una volta”, da cui la futura rottura con il modello sovietico. Passo dopo passo, il socialismo reale viene costruito con misure concrete. I Consigli amburghesi moltiplicano le misure sociali (riduzione dell’orario di lavoro, salari più alti, migliori condizioni di vita …) che essi impongono con la forza ai padroni. Non hanno mai esitato a collettivizzare le fabbriche dei padroni recalcitranti. La sinistra radicale invase anche le sedi dei sindacati e distribuì i fondi di tali organizzazioni riformiste ai disoccupati. Ma l’approccio di Amburgo fu anche pragmatico. Tentarono di inquadrare le altre classi sociali, come le classi medie, che le conseguenze della guerra spingevano oggettivamente verso la classe operaia. Fu quindi possibile superare le antiche divisioni, per realizzare l’unione delle classi oppresse, e quindi la nazione, attorno alla rivoluzione. Il concetto di nazione proletaria in lotta contro l’imperialismo, fu poi sviluppato dai due di Amburgo. Inglobava tutta la classe operaia, escludendo l’alta borghesia, nell’unità nazionale. “I Consigli di fabbrica stanno diventando, scriveva Wolffheim, elemento del congresso nazionale, dell’organizzazione nazionale, della fusione nazionale, perché sono l’elemento base, la cellula originaria del socialismo“.
    Allo stesso modo, i contatti che Laufenberg e Wolffheim presero con i circoli di ufficiali, non furono un tradimento delle proprie convinzioni socialiste. Cercarono di mettere gli ufficiali al servizio della rivoluzione. Specialmente quando il diktat di Versailles contestò l’integrità della nazione stessa. La classe operaia tedesca si trovava sotto la minaccia dell’annientamento totale da parte del capitalismo anglo-sassone. Così, naturalmente, respinsero il trattato e richiesero l’istituzione di una “wermarcht del popolo“, che riprendesse la lotta contro l’imperialismo, a fianco dell’Armata Rossa sovietica. E’ in questo contesto, che furono effettuati i contatti con i nazionalisti. Suscitarono un certo interesse tra i giovani ufficiali, che dovettero affrontare l’incomprensione della casta dei vertici militari, lasciarono passare una possibilità per la Germania, a causa della loro vecchia natura reazionaria e anticomunista. Un capo völkish particolarmente stupido non ricevette nemmeno Wolffheim, perché aveva origini ebraiche… “La nazione borghese sta morendo e la nazione cresce – scriveva Laufenberg – L’idea nazionale ha cessato di essere uno strumento di potere nelle mani della borghesia contro il proletariato e si è rivolta contro di essa. La grande dialettica della storia fa dell’idea nazionale un mezzo del potere del proletariato contro la borghesia“. La loro posizione apertamente patriottica dovette procurargli l’odio degli spartakisti e degli agenti del Comintern, così come le accuse di deriva “nazional-bolscevica“. I socialdemocratici, divenuti progressivamente la maggioranza nei consigli di Amburgo, costrinsero Laufenberg a dimettersi. Assai rapidamente la reazione trionfò, i moderati cedettero la città all’esercito regolare che liquidò la Rivoluzione.

    Potere a chi lavora. No Nato. No Ue. No immigrazione di massa. No politically correct.

  9. #129
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    Predefinito Re: Il filone "nazionale"

    La controversia nazional-bolscevica

    Dopo la fondazione del KPD (Partito Comunista di Germania), Laufenberg e Wolffheim si affiliarono brevemente. Ma la campagna contro di loro e il loro posizionamento Nazional-Bolscevico portò alla loro espulsione dal partito, seguiti dalla tendenza di “sinistra“. L’operazione di epurazione del KPD fu effettuata a cura dell’agente del Comintern in Germania, Karl Radek. Porterà all’espulsione di più della metà dei 107.000 membri del partito in disaccordo con la linea di Mosca. Laufenberg e Wolffheim, quindi, fecero appello all’istituzione di un nuovo partito comunista. Parteciparono, nell’aprile 1920, al congresso di fondazione del KAPD (Partito Comunista dei Lavoratori di Germania). “Il KAPD non è la nascita di un partito bis, – scrisse D. Authier nella sua raccolta dei testi consiglisti del tempo – ma l’auto-organizzazione proletaria dei radicali che finalmente si stavano creando un organismo autonomo. L’atmosfera è particolarmente “calda”, i partecipanti hanno l’impressione di vivere un momento storico: lasciare il PC Spartakista è una netta rottura con la social-democrazia“.
    Molto rapidamente, il clima nel KAPD si deteriorò, il KPD fece pressione sull’organizzazione affinché liquidasse la tendenza amburghese. Lenin sale sulla cattedra, in questo caso: in un passo dal suo libro “Estremismo: malattia infantile del Comunismo” (dove regola i conti ideologici con le tendenze di ultra-sinistra), denuncia, senza conoscerle bene, le tesi dei due di Amburgo. Espulsi dal KAPD, saranno i primi a denunciare il “capitalismo di stato” sovietico e la deriva totalitaria imposta dal regime di Lenin. Poi iniziarono gli anni di oscuri, fondarono una moltitudine di piccoli circoli rivoluzionari, il più importante, il Bund der Kommunisten, non raccolse che qualche centinaio di seguaci. Laufenberg, malato, si ritirò nella sua attività letteraria e morì nel 1932. Niekisch redasse in suo onore un accorato elogio funebre, rivendicandolo quale precursore del nazional-bolscevismo. Fece di lui il primo nazional-comunista tedesco e si pose alle sue orme. Wolffheim troverà un’eco inattesa nella giovane generazione nazional-rivoluzionaria degli anni ’30. Contribuì alla diffusione delle idee consigliste nelle riviste Das Junge Volk e Kommenden, poi dirette da K.O. Paetel. Ebbe, quindi, una notevole influenza sul movimento giovanile Bundisch, partecipando al suo orientamento anticapitalista e alla ricerca di un nuovo legame comunitario all’interno della nazione tedesca. Ma l’ascesa del nazismo gli sarà fatale, arrestato a causa della sua origine ebraica, morì in un campo di concentramento. Tragica fine di un uomo che aveva dedicato la vita a servire il suo popolo. Ironia della storia, il KPD seguirà dal 1923 una linea patriottica, con l’obiettivo dichiarato di raggruppare nel comunismo la classe media e alcuni gruppi nazionalisti (con diversi successi notevoli). Il fautore di questa linea apertamente “nazional-bolscevica“, non fu altri che Karl Radek, l’ufficiale dell’Internazionale che ha guidato la campagna contro gli amburghesi.

    L’Autonomia operaia oggi

    La critica radicale del capitalismo, condotta dai consigli operai, mantiene ancora la attualità, il sistema che l’ha schiacciata nel 1919, domina ancora. Lo sviluppo del liberalismo e la sua estensione a tutto il mondo, ora minaccia il futuro stesso dell’umanità. Come Laufenberg e Wolffheim, vogliamo vedere apparire l’autonomia dei lavoratori, la rivolta proletaria liberatasi dalla morsa dei sindacati e delle illusioni dei partiti del sistema. Non vogliamo più vedere la nostra ribellione incanalata, teleguidata e svenduta sull’altare della pace sociale dai co-gestori della nostra miseria. Di fronte agli attacchi del capitale contro le nostre condizioni di vita, ci appelliamo alla ripresa della lotta. Il deterioramento della situazione della classe operaia, va di pari passo con l’impoverimento delle classi medie, la resistenza diventa una questione di sopravvivenza. Ancora una volta, non perderemo che le battaglie che non condurremo. Qui e ora, più che mai, coloro che vivono sono coloro che lottano.



    Laufenberg, a sinistra, presidente del Consiglio degli operai e dei soldati di Amburgo, e Wilhelm Heise

    Bibliografia:
    Jean-Pierre Faye, Langages totalitaires, Edition Hermann
    Louis Dupeux, Le National-bolchevisme, Stratégie communiste et dynamique conservatrice, Edition H. Champion. L’analisi più completa sul tema.
    D. Authier e G. Dauve, Les communistes de gauche dans la révolution allemande – Les Nuits Rouges. Recueil de textes sur les conseils dont la «révolution à Hambourg» de Laufenberg et «Organisations d’entreprises ou syndicats» de Wolffheim. Edition de Minuit
    Pierre Broué, Rivoluzione in Germania, Einaudi
    Alain Thieme, La Jeunesse «Bündisch» en Allemagne, Collection Jeune Europe
    Christophe Bourseiller, Histoire générale de l’ultra-gauche, Denoël impacts. L’ultimo pubblicato su questo argomento.
    Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

    https://aurorasito.wordpress.com/201...itz-wolffheim/
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  10. #130
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    Predefinito Re: Il filone "nazionale"

    Citazione Originariamente Scritto da luposciolto° Visualizza Messaggio
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    “la nazione borghese sta morendo e la nazione cresce – scriveva laufenberg – l’idea nazionale ha cessato di essere uno strumento di potere nelle mani della borghesia contro il proletariato e si è rivolta contro di essa. La grande dialettica della storia fa dell’idea nazionale un mezzo del potere del proletariato contro la borghesia“. la loro posizione apertamente patriottica dovette procurargli l’odio degli spartakisti e degli agenti del comintern, così come le accuse di deriva “nazional-bolscevica“. I socialdemocratici, divenuti progressivamente la maggioranza nei consigli di amburgo, costrinsero laufenberg a dimettersi. Assai rapidamente la reazione trionfò, i moderati cedettero la città all’esercito regolare che liquidò la rivoluzione.
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    "L'odio per la propria Nazione è l'internazionalismo degli imbecilli"- Lenin
    "Solo i ricchi possono permettersi il lusso di non avere Patria."- Ledesma Ramos
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