A chi per caso s’imbattesse nella lettura di questa nota, e volesse continuare,chiedo la massima attenzione perché il pensiero che sto per esprimere non è facile.


Esso parte dalla premessa che la vita umana ha un senso solamente nella sua dimensione relazionale, che si esplica riguardo agli altri e, al limite, a noi stessi nello sdoppiamento che sperimentiamo di noi dentro la nostra sfera d'intimità, tanto che la solitudine assoluta mi riesce qualcosa di inimmaginabile.
Se non si è d’accordo con questa premessa, è inutile andare avanti.


Passo all’argomentazione.


Spesso mi sono domandato quale sia la vera radice del dolore dovuto alla perdita di una persona cara, per allontanamento, volontario o coatto, o morte.


Si è portati a rispondere, tautologicamente, che il dolore consiste nelle perdita stessa, cioè nell’indisponibilità dell’altro PER NOI, per i nostri bisogni pratici ed affettivi. Secondo me le cose non stanno così.


Noi traiamo la ragione della nostra vita dal fatto di abitare nell’amore, negli affetti, negli interessi o soltanto nel ricordo degli altri. Essi hanno una qualche rappresentazione di noi.

La vera morte è l’oblio, l’isolamento, la disconoscenza, il buio, il silenzio. C’è qualche “particola” di noi presente negli altri, concretamente, un qualche “addentellato” che non so dire ma che ci àncora ad essi e che costituisce la vita stessa. In qualche modo noi viviamo muovendoci in loro, agendo in loro.

Quando questi “loro” vengono a mancare, ogni addentellato cade, le luci si spengono e la nostra rappresentazione (in loro) ha termine.

Chi se ne va porta via con sè una parte di noi, della nostra parte che recitiamo sul palcoscenico della vita, tanto che se tutte le relazioni venissero interrotte all’improvviso noi saremmo morti a tutti gli effetti, anche se biologicamente vivi, come già accade a certi ergastolani o malati mentali affetti da estremo solipsismo.

Essi sono ridotti a morti viventi, a zombie, spesso incapaci anche di programmare il loro suicidio.


Ricordo le testimonianze di alcuni emigranti che nel terremoto dell’Irpinia del 1980 avevano perduto in un colpo solo tutti i loro cari e conoscenti finiti sotto le macerie. Su di essi era crollato il tetto del teatro dove abitualmente andava in scena la loro vita.

Era un sentimento di deprivazione di qualcosa di essenziale: più che la NOSTRA perdita di loro, ciò che faceva soffrire era la LORO perdita di quella parte di noi che li abitava ma che era la nostra linfa vitale.

È lo stesso motivo per cui non vogliamo far soffrire col nostro dolore coloro a cui vogliamo bene. Con la loro perdita sparisce il nostro “investimento” vitale, quell’investimento che detto in altri termini è il colore, il suono, il senso della nostra stessa vita.

Se ci pensiamo, per ogni figlio, genitore, innamorato, amico sussiste l’illusione che tutto ciò che gli accade vada in scena sotto i loro occhi.


Beninteso, questo sentimento appartiene a tutti, ma in quelli come me è acuito dall’incredulità circa la sopravvivenza dell’anima. La sofferenza che colpisce credenti e non credenti in questi casi, tra l’altro, m’induce a pensare che l’ateismo sia al fondo di noi un atteggiamento spontaneo e naturale, e che la fede nella sopravvivenza di una vita oltre la morte sia il tentativo, mai riuscito, di mitigare e prevenire il dolore connesso alla consapevolezza che stiamo recitando una piece, non sappiamo da chi scritta, e che un giorno su di noi si chiuderà il sipario...