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  1. #11
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    Predefinito Re: bibliografia progressista

    M. L. Salvadori, “La Sinistra nella storia italiana”, Laterza, Roma-Bari 1999.






    Il primo bilancio del ruolo della Sinistra italiana nel Novecento. Perché la Sinistra italiana è stata storicamente dominata dalle correnti rivoluzionarie, mentre le tendenze riformistiche sono risultate minoritarie? Perché, tenuto conto di ciò, la Sinistra italiana non ha però mai compiuto o tentato di compiere alcuna rivoluzione? E perché, nonostante non abbia mai attuato rivoluzioni, non ha mutato indirizzo ideologico?
    Per rispondere a queste domande, Salvadori ripercorre le grandi svolte della storia italiana dell’ultimo secolo: la crisi di fine Ottocento, la prima guerra mondiale e il drammatico primo dopoguerra, il 1947-1948, il 1956, la nascita del centro-sinistra, gli anni del terrorismo e della “strategia della tensione”, l’eurocomunismo, gli anni Ottanta con il “duello” tra PCI e PSI, gli anni Novanta con l’esaurimento dei due principali soggetti della Sinistra storica, e l’aprirsi di nuovi orizzonti, tuttora incerti.

    Dalle note di copertina
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #12
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    Predefinito Re: bibliografia progressista

    G. Tamburrano, “Storia e cronaca del centro sinistra”, Feltrinelli, Milano 1973.






    Questo libro narra le vicende degli anni 1960-1964 prendendo le mosse dal congresso democristiano di Firenze (autunno 1959) e giungendo fino alla crisi del primo governo Moro (giugno-luglio 1964). Nel capitolo introduttivo ricorda gli avvenimenti degli anni 1953-1959, e nei capitoli conclusivi traccia, nelle loro linee generali, gli sviluppi della situazione politica fino alle elezioni del 1972.

    L’Autore è stato mosso dall’esigenza di capire da che cosa, con quali finalità, tra quali contrasti sociali e politici è nato e si è sviluppato il centro-sinistra. Egli si è reso conto che per rispondere a questi interrogativi così attuali non v’è che un modo: fare la storia di questa importante esperienza. L’Autore ha omesso di dare giudizi sul centro-sinistra e sulle sue finalità, di sentenziare se il centro-sinistra sia stato un bene o un male e si è dedicato a ricostruire la vicenda dall’interno. Il compito dello storico non è quello di giudicare, ma di conoscere e capire: quindi di narrare criticamente lo svolgimento dei fatti. “Il tribunale della storia” è un tribunale incompetente. Giudice è il lettore che allo storico chiede, con le parole del pretore romano: dammi i fatti, ti darò la sentenza.

    Dall’ Avvertenza
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  3. #13
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    Predefinito Re: bibliografia progressista

    AA. VV., “Pagine scomode. La rivista ‘Astrolabio’ (1963-1984)”, Ediesse, Roma 2014




    Caratteristica dell’Astrolabio è stata sempre la libertà di giudizio lasciata ai collaboratori entro una comune visuale che potremmo dire generalmente progressista. Una libertà non priva talvolta di oscillazioni e di stonature rilevabili nella linea del giornale, e tuttavia, a mio giudizio, sempre preferibile a una omogeneità dipendente da comuni affiliazioni.

    Ferruccio Parri, da La politica dell’Astrolabio, 27 dicembre 1971



    I cinquant’anni dalla nascita de L’Astrolabio, la rivista fondata da Ernesto Rossi e diretta da Ferruccio Parri, offrono l’occasione per ripercorrere un tratto significativo della storia recente del nostro Paese attraverso la lettura e l’interpretazione degli avvenimenti politici, sociali, culturali (nazionali e internazionali) che la rivista ha fornito. Negli oltre vent’anni della sua vita, dal 1963 al 1984, L’Astrolabio ha rappresentato un punto di riferimento per un’area dell’opinione pubblica riformista e del mondo politico in generale; le sua pagine sono state veicolo di battaglie importanti, testimonianza di un impegno civile e politico erede della cultura azionista da cui sia Rossi che Parri provenivano.
    Se oggi è di qualche interesse ricordare quegli anni è anche perché essi presentano delle analogie con il passaggio politico che l’Italia sta attraversando. Allora, all’inizio degli anni Sessanta, il nascente centro-sinistra aveva suscitato grandi aspettative perché segnava una cesura con quasi un ventennio di politica centrista dominata dalla Democrazia Cristiana; oggi l’attenzione e le aspettative sono per un’altra cesura, quella con il ventennio berlusconiano, occasione da non perdere per restituire alla politica e alle istituzioni democratiche la dignità smarrita.
    Il presente volume e la connessa digitalizzazione della rivista costituiscono un progetto complessivo che nell’intenzione del curatore è volto a salvaguardare un frammento significativo della nostra memoria storica.

    Dalle note di copertina




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  4. #14
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    Predefinito Re: bibliografia progressista

    G. Arfè, "Storia dell' 'Avanti!'", Giannini, 2002






    U. Intini, "Avanti! Un giornale, un'epoca", Ponte Sisto, 2012




    1896-1993: le sue pagine, i suoi giornalisti e direttori raccontano il secolo. Un secolo fotografato dagli articoli del quotidiano e dai suoi direttori e protagonisti. Intini, con incalzante stile giornalistico, svela aneddoti e testimonianze che portano novità storiche, anche inedite, che non mancheranno di sollevare polemiche. Un volume che, per mole e approfondimento, può dimostrarsi utile anche a studiosi, ricercatori e studenti.
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  5. #15
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    Predefinito Re: bibliografia progressista

    S. Fedele, “Fronte popolare. La sinistra e le elezioni del 18 aprile 1948”, Bompiani, Milano 1978.







    Prendendo le mosse dall’estromissione di comunisti e socialisti dal governo nel maggio 1947, il libro fornisce un’analisi attentissima delle formazioni partitiche grandi e piccole della sinistra: dalla scissione socialista di Palazzo Barberini alla dissoluzione del Partito d’Azione, tutto lo schieramento politico italiano è allora in movimento. Viene quindi esaminato il processo costitutivo del Fronte, con particolare riguardo al dibattito che si sviluppa all’interno dei gruppi dirigenti del PCI e del PSI. Si analizza infine la campagna elettorale, disputata con una virulenza polemica e una spregiudicatezza che non avranno eguali in nessuna consultazione successiva. Le lettere dall’America o gli appelli di vescovi (che il lettore può trovare tra gli altri documenti in appendice al volume) sono testimonianze emblematiche di un clima, ma anche di stili e linguaggi ideologico-politici oggi desueti o rimossi. Questo clima ci è restituito proprio grazie al distacco critico dell’autore; tanto più che “i fatti parlano da sé – nota Paolo Alatri nella prefazione – e questi fatti si snodano e si seguono, nelle pagine che qui li rievocano, con l’emozione con cui si sfogliano le pagine di un libro giallo”. Il risultato del voto del 18 aprile è noto: Santi Fedele rileva qui con lucidità i fattori del clamoroso insuccesso del Fronte e della strepitosa vittoria della DC. Accanto alla mobilitazione massiccia della Chiesa e al multiforme intervento americano nella contesa elettorale, un peso decisivo ebbero gli avvenimenti nell’Est europeo (costituzione del Cominform e colpo di stato di Praga): i condizionamenti di una situazione internazionale in cui precipitava la divisione netta in due sfere di influenza, improntarono la campagna elettorale a una contrapposizione, più che tra riforme e conservazione, tra democrazia parlamentare e dittatura comunista.

    (dalle note di copertina)
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    Predefinito Re: bibliografia progressista





    Piero Gobetti, “Scritti politici”, a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino 1960



    Il volume che presentiamo, primo delle “Opere” di Piero Gobetti, raccoglie tutti i suoi scritti politici: da quelli (del 1918-20) di “Energie Nove” (la rivista giovanile fondata dal diciassettenne discepolo di Salvemini) alla collaborazione giornalistica sparsa sui vari periodici e riviste del 1921-22 sino alle note, gli editoriali, i saggi, le rassegne, o le “letture”, le postille polemiche che ci dànno l’intera misura dell’ingegno politico e della tempra morale del direttore de “La Rivoluzione Liberale” (1922-25). Il libro costituisce di per sé una vera storia della crisi dello Stato liberale nel primo dopoguerra e della battaglia antifascista condotta dalle forze operaie e dalle élites intellettuali intransigenti: una storia in cui protagonisti, da Amendola a Gramsci, da Sturzo a Nitti, da De Gasperi a Bonomi, da Mussolini a Marinetti, da Matteotti a Turati, vivono in una serie di nitidi e “drammatici” ritratti. E con questa storia, si coglie appieno il ritmo e il senso della formazione del pensiero gobettiano, del suo paradigma rivoluzionario e liberale (da Croce e Salvemini a Lenin e Trotzkij, si può dire) e dei caratteri che erano destinai ad assumere così la sua opposizione d’istinto al mussolinismo, come il pungolo esercitato sull’Aventino e i gruppi democratici (per cui “La Rivoluzione Liberale” fu detta “suocera delle opposizioni”).
    Il volume (curato da Paolo Spriano, uno dei più preparati studiosi dell’opera di Gobetti, che lo ha corredato di una densa introduzione biografica e di un ampio apparato di note) si completa con la ristampa del saggio dal titolo La rivoluzione liberale, già edito nel 1924: un classico della cultura politica contemporanea


    (dalle note di copertina)
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  7. #17
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    Predefinito Re: bibliografia progressista

    Citazione Originariamente Scritto da Frescobaldi Visualizza Messaggio
    G. Arfè, "Storia dell' 'Avanti!'", Giannini, 2002




    G. Arfé, “Storia dell’Avanti!” – Introduzione (1977)


    Questo libro ha una sua piccola storia che si lega all’anno in cui nacque, il 1956.
    L’idea fu di Nenni, maturata nelle settimane che seguirono il XX Congresso di Mosca.
    La stretta dello stalinismo, che si era estesa anche al Partito socialista, si era da tempo venuta attenuando, ma ancora vivi ne erano gli effetti nella ideologia corrente e in particolare in quella sorta di tessuto connettivo della ideologia che è la interpretazione della propria storia.
    Il rigetto della tradizione riformista – Matteotti si salvava, ma era considerato un caso a parte – era venuto su in una con la secessione saragattiana, accreditandola peraltro quale legittima erede della grande scuola turatiana, e si era via via venuta caricando di motivi tratti dalla vecchia polemica radical-liberale e radical-socialista e alimentando dei motivi nuovi presi di peso dalla pubblicistica storica e pseudo-storica di parte comunista. Come mi è già capitato più volte di ricordare, i socialisti celebrarono il sessantesimo anniversario del loro partito nel nome, sotto ogni aspetto degnissimo, di Andrea Costa, ma ignorando l’esistenza di un uomo che rispondeva al nome di Filippo Turati. Aggiungerò che in quella stessa occasione – anche questo l’ho già ricordato – quando si avviò, per impulso e sotto la direzione di Gianni Bosio, una monumentale cronologia del partito socialista e del movimento operaio, preceduta per ciascun periodo da un saggio introduttivo, l’iniziativa si arenò di fronte alla insopportabile e insormontabile pretesa di un dirigente socialista, passato poi ad altri lidi, di affidare la redazione del saggio ad un membro della Direzione, a garanzia della ortodossia, escludendo in via pregiudiziale l’eretico Lelio Basso, anche se la sua parte era limitata agli anni dal 1892 al 1900.
    I riformisti erano quelli che per primi erano stati colpiti dall’epurazione, ma ai massimalisti non era andata molto meglio. Tra essi, insegnavano i comunisti, Serrati si era salvata l’anima, insieme al gruppo dei “terzini”, per la illuminazione, anche se tardiva, della quale aveva potuto godere aderendo, prima di morire, al Partito comunista d’Italia. Il peccato commesso a Livorno, opponendosi alla scissione, però rimaneva, e qualcuno aggiungeva anche per via orale – ed era vero – che lo aveva scontato con un severo purgatorio nel breve periodo di milizia del Partito comunista d’Italia, prima che la morte lo cogliesse nel pieno di una maturità ancora vigorosa.
    La svolta autonomistica nel 1956 era già nell’aria, ma essa presupponeva perciò anche una rivalutazione critica di tutta la tradizione socialista rinnegata o ignorata, e a Nenni parve che la storia dell’Avanti! – il “suo” Avanti! – del quale cadeva quell’anno il sessantesimo anniversario, potesse fornire l’occasione migliore a una operazione che rispondeva a quel che Bosio definiva, con espressione hegeliana, un bisogno dei tempi.
    L’incarico di trovare chi scrivesse questa storia fu da Nenni affidato a Raniero Panzieri, allora responsabile della politica culturale del partito.
    Dell’opera di Panzieri molti giovani, e con buona ragione, si vanno oggi occupando, ma guardando soprattutto alla fase della sua esperienza legata ai “Quaderni Rossi”. Varrebbe la pena, sulla scorta di documenti e testimonianze che ancora sarebbe agevole raccogliere, prendere in esame la sua attività anche negli anni precedenti, dando anche spazio alla ricostruzione della sua ricca, affascinante personalità. Assai caro a Morandi, forse proprio perché da lui assai diverso per formazione e per temperamento, Panzieri era stato negli anni cupi del frontismo – i “dieci inverni” di Franco Fortini – il naturale punto di riferimento per quanti resistevano alla stretta del conformismo: tra questi Gianni Bosio, vittima di una brutale operazione di pura marca staliniana, ideata e condotta dai comunisti, che lo aveva privato della direzione di Movimento operaio, la rivista da lui fondata e diretta, e che dopo l’infortunio aveva ridato vita, con sacrifici personali notevoli, alle “Edizioni Avanti!”, portandole al successo tra difficoltà di ogni sorta, anche all’interno del partito.
    A Bosio di rivolse Panzieri, Giovanni Pirelli a me, che delle stesse vicende eravamo stati partecipi, a Domenico Zucaro, a qualche altro compagno, e ci convocò tutti presso la Direzione del partito.
    Eravamo agli inizi della primavera e la storia del giornale, per categorica richiesta di Nenni, doveva essere pronta per la fine di agosto, onde poter essere diffusa nel corso delle feste dell’Avanti! di settembre, che preludevano alla campagna congressuale. Lo stesso Panzieri, abitualmente portato ad affrontare le cose con signorile flemma, era stato colto da un impeto di attivismo intellettuale e pratico, e premeva perché quanto prima una presenza socialista, con propria autonomia ideale, si manifestasse in campo storiografico.
    Le discussioni furono lunghe, intense, inframmezzate da divagazioni sui grandi temi che in quel momento ci appassionavano. Le idee venivano fuori dalle nostre menti con impeto vulcanico, si incontravano, si scontravano. Eravamo convinti che dopo quella della Liberazione una nuova grande stagione si aprisse: l’unità del movimento operaio sui ruderi dello stalinismo, la ripresa di tutta la tradizione autonomistica e libertaria del movimento di classe, l’ipotesi di una travolgente marcia in avanti dopo le lunghe e oscure battaglie difensive.
    Tutto questo ci rafforzava nella convinzione che la storia dell’Avanti! si iscriveva nel nuovo corso, diventava un fatto politico importante, ma non ci faceva procedere sulla via della realizzazione del progetto.
    A tutti era chiaro che la estrema ristrettezza dei tempi costituiva un ostacolo difficilmente sormontabile. Si propose una narrazione cronachistica, preceduta da un saggio introduttivo e accompagnata da una raccolta di testimonianze; si pensò a una raccolta di articoli, ordinata cronologicamente e per temi, raccordati da note scritte da più collaboratori; si parlò di un lavoro di équipe, guidato da Bosio e da me.
    Alla fine fu Panzieri a sciogliere il nodo, sostenuto da Bosio. La storia dell’Avanti!, per le ragioni stesse che ne imponevano la rapida uscita, doveva essere un libro agile e di facile lettura, composto con spirito critico e con scrupoloso rispetto delle regole del mestiere, ma animato anche da una sua carica di “patriottismo di partito”, pur nel quadro di una visione unitaria della storia del movimento di classe e delle sue rappresentanze politiche. Questo comportava che fosse scritto da una persona sola, e quella persona, procedendo per esclusioni, dovevo essere io.
    L’accordo fu generale, e, benché riluttante, finii con l’accettare l’incarico. Bosio, si assunse il compito di raccogliere tutti i riferimenti all’Avanti! esistenti negli atti ufficiali del partito e tutte le alte notizie utili che avesse potuto reperire fino al 1926. Un analogo impegno fu preso da Pirelli per il periodo della emigrazione e della Resistenza. Panzieri, con un colpo di mano, complice Gino Prandi, allora amministratore del giornale, si impadronì della intera collezione dell’Avanti! e me la fece portare a Firenze, dove vivevo, perché non fossi vincolato dagli orari delle biblioteche.
    E così ebbe inizio l’impresa. La mia casa fu letteralmente invasa dalla valanga dei grossi volumi. Ricordo ancora il senso di sgomento dal quale fui preso quando mi trovai solo di fronte a quella enorme mole di carta stampata, da guardare tutta, foglio per foglio.
    A rendere più arduo il lavoro stava lo stato degli studi sul socialismo italiano, in particolare per il periodo a partire dal 1900. Pochi i titoli esistenti e tra quei pochi prevalevano i mediocri. Scarsi e generalmente imprecisi gli strumenti di ricerca, fiacco il dibattito storiografico e compresso entro angusti schemi convenzionali. Il metodo che seguivo era quello di concentrarmi di volta in volta su un periodo, generalmente legato al nome di uno dei direttori del giornale – era una periodizzazione interna che per l’Avanti! di regola coincideva con una periodizzazione politica – e quindi scrivere il capitolo o i capitoli relativi, spedendoli via via a Milano, dove Bosio rileggeva, controllava le citazioni e le date, intitolava i capitoli, mandava il materiale in tipografia, correggeva le bozze. Devo confessare che soltanto ora, rivedendolo per la ristampa, ho letto per la prima volta il volume per intero.
    Ai primi di agosto apparve chiaro che non sarei riuscito a completare il lavoro entro i termini fissati. Si decise così di dividerlo in due volumetti, il secondo dei quali, sull’Avanti! della emigrazione fu completato l’anno dopo.
    La storia del giornale fino alla sua soppressione in Italia nel 1926 apparve comunque ai primi di settembre, in tempo utile per le feste dell’Avanti!. Bosio mi comunicò l’evento con una telefonata: “Abbiamo lanciato il primo titolo della nuova storiografia socialista”.
    Il successo, per la verità fu notevole, di gran lunga superiore ai meriti del libro, segno evidente che la sua comparsa rispondeva a un “bisogno dei tempi”. Tra i plausi illustri ricordo quello di Gaetano Salvemini, tra i consensi più significativi e più graditi quello di Lucio Lombardo Radice sull’Unità, tra i motivi di più profonda soddisfazione l’accoglienza che al volumetto riservarono i compagni. Presentazioni del libro si svolsero in moltissimi centri, grandi e piccoli, e i motivi della nostra storia andarono ad alimentare il dibattito sfociato nel Congresso di Venezia del febbraio 1957.
    Tra le presentazioni voglio ricordare quella di Roma, organizzata con il suo inconfondibile stile da Raniero Panzieri. C’era con noi Gino Prandi, il quale ci comunicò che la sua Reggio era già in testa nella diffusione, c’era Fernando Santi, riformista inveterato che aveva morso il freno per anni nella impaziente attesa che le nebbie del conformismo di diradassero. “Per anni – disse – ‘quelli’ mi hanno fatto sentire figlio di nessuno. Ora sapete che una famiglia l’avevo anch’io”.
    Oggi, a distanza di oltre vent’anni, quello che fu l’incubo dei lunghi faticosi mesi di semireclusione, con orari lavorativi senza fine che si cumulavano a quelli del mio lavoro professionale, con l’ossessione del tempo che passava, mi si colora di profonda e accorata nostalgia. Mi tornano in mente le continue telefonate di incitamento di Panzieri, le ripetute visite di Giovanni Pirelli, la collaborazione assidua e preziosa di Gianni Bosio.
    Per queste ragioni ho lasciato il libro com’era, salvo qualche formale ritocco e qualche correzione, a testimonianza del tempo e del clima in cui fu scritto.
    Mentre cominciavo a scrivere la storia dell’Avanti! morì mio padre, vecchio socialista, e a lui dedicai il mio lavoro.
    Al suo nome associo oggi quelli di Gianni Bosio, di Raniero Panzieri, di Giovanni Pirelli, i miei tre compagni scomparsi.


    G[aetano] A[rfé] – Maggio 1977
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    Predefinito Re: bibliografia progressista

    1946-1956: promemoria per un giovane lettore (1986)



    di Duccio Trombadori - «Rinascita», a. XLIII, n. 39, 11 ottobre 1986, pp. 19-20.

    Politica e cultura nei primi anni dell’Italia repubblicana. Intervista con Paolo Spriano sul suo ultimo libro.

    - Raccontando le «passioni di un decennio», come dice il tuo recente libro appuntato sul periodo cruciale 1946-1956 pubblicato da Garzanti, ci hai messo assieme il taglio saggistico, la memoria autobiografica, il documento inedito. C’è, in controluce, una parte assai interessante della storia del Pci e, naturalmente, della politica e della cultura nei primi anni dell’Italia repubblicana. Di quella storia, e di quelle «passioni», sei stato parte attiva come militante e come intellettuale: forse per questo non azzardi direttamente il giudizio e ti affidi più agli elementi di un clima politico-culturale, alla misurazione di precise fisionomie individuali di personalità e di amici: Calvino, Pavese, Togliatti… È davvero questo l’approccio più utile per capire il nostro passato prossimo?

    «Ho voluto appositamente scrivere un libro per la storia di certi anni, e non un libro di storia, come del resto osservo nella premessa introduttiva. Il che significa anche che non ho maturato una ricostruzione sistematica, storica, complessiva, e ho qui offerto spunti, ipotesi, paradossi, abbozzi di riflessione. Vi gioca molto, credo, il fattore-emotivo: non è un caso che io abbia cominciato a pensare a questo lavoro dopo la morte di Italo Calvino, al quale ero legato da grande amicizia. Mi è parso poi utile fornire una documentazione pressoché inedita: lettere, ritagli di giornale dissepolti, notizie offuscate. In particolare, scrivendo, ho avuto sempre presente il lettore giovane. Sarà un problema generazionale, ma a me colpisce molto quando sento parlare dei “lontani anni ‘60”, come se davvero il mondo fosse cominciato allora. E invece il mondo è cominciato un po’ prima, e se ne può parlare, credo, come di qualcosa che è ancora vivo, non come di un reperto archeologico».

    - Una osservazione. Degli anni 1946-1956, tu parli come di un decennio di forti antagonismi, ben al di là di una immagine rasserenante da armonico concerto di «padri della repubblica». E giustamente, mi pare, ti sforzi di delineare il profilo di un paese «separato», con la presenza di «due Italie» quasi contrapposte all’indomani della ritrovata unità repubblicana e democratica…

    «Fu, credo, proprio così. E sarebbe utile riflettere su una “separazione” che fece data addirittura all’indomani della liberazione del paese. Alcuni tratti decisivi: l’intrusione veloce e violenta della “guerra fredda”, vale a dire di contrapposte scelte di campo, e la esistenza di lotte di classe estremamente aspre nella situazione post-bellica. Da una parte vi era la classe operaia e la grande massa dei contadini poveri e dei braccianti che premevano sulla società italiana provata dal conflitto. Dall’altra parte, il vecchio apparato dello Stato, la Dc con la sua scelta a favore di un blocco con la borghesia, e la presenza di una destra tradizionale ed eversiva, che aveva un notevole peso nel paese, tra liberali, destra monarchica e forze fasciste, e che ebbe un gioco anche nell’orientare la stessa politica democristiana».

    - La «separazione» nel paese, cui tu hai accennato, ebbe ripercussioni negative in più sensi. Nell’ambito della sinistra, condizionò le proiezioni al rinnovamento e le prospettive di lotta dentro la società italiana.

    «La sinistra visse una contraddizione di fondo, in quegli anni. Si trattava di una forza politica – il Pci, ma anche il Psi, allora fondamentalmente subalterno ai comunisti – e di una forza sociale e culturale bruscamente respinte alla opposizione, che ebbero a svolgere una indubbia funzione di libertà e democrazia nel contrastare, per esempio, la tendenza del potere a limitare i diritti politici, con tutto il peso delle componenti reazionarie e clericali del paese. E tuttavia, esercitando questa importante funzione in nome della Costituzione, si accettavano al tempo stesso ad occhi chiusi le limitazioni di libertà, le repressioni in atto nel mondo comunista o “campo socialista”, vuoi negandone l’esistenza, vuoi considerandole il frutto inevitabile della guerra fredda e della costruzione di società nuove e forse anche accettando una teorizzazione secondo cui la lotta per la libertà e la democrazia aveva senso nei paesi capitalistici, ma perdeva significato nei paesi socialisti. Il valore universale della democrazia politica non faceva certo parte del nostro bagaglio teorico. Ciò è utile per vedere quanto da allora siamo andati avanti, anche rispetto allo stesso Togliatti.

    - A Togliatti, alla sua potente e complessa personalità di dirigente comunista, tu dedichi un ritratto affettuoso rilevandone la costituzione di carattere, la sua eccezionale personalità culturale, i suoi limiti e le sue virtù.

    «Nella mia generazione, soprattutto, vive una controversa memoria dell’opera di Togliatti. Da una sottolineatura eccessiva della continuità, da cui deriva una difesa in blocco dell’insegnamento togliattiano, fino all’estremo opposto di considerarlo tutto entro la cornice politica del terzinternazionalismo e quindi, come tale, da superare. Anche in me vivono diversi stati d’animo nel considerare la personalità di Togliatti, di ammirazione, ma anche, a volte, incomprensione. Certo, riconsiderando l’ultimo decennio di direzione togliattiana, è indubbio che per lui l’esperienza del XX Congresso fu uno spartiacque: per l’autonomia crescente del Pci nel movimento comunista internazionale, per la scelta delle vie nazionali, per la considerazione che fosse improponibile per il movimento operaio italiano una soluzione violenta dei problemi: la scorciatoia della rottura rivoluzionaria. E pure quello che non si può chiedere a Togliatti, e che non si troverebbe in lui, è l’abbandono di un presupposto che, alla fine, nei suoi orientamenti prevale sempre: la solidarietà di fondo del movimento comunista, l’aspirazione costante alla sua unità. Lo stesso testamento di Yalta non si può leggere senza incontrare questo elemento, l’esortazione ad un’articolazione migliore in vista del rafforzamento del movimento, della sua “unità nella diversità”».

    - Togliatti e la cultura, Togliatti e gli intellettuali. Il libro ripercorre la storia dei contrasti e degli accordi, delle «passioni», appunto, che costellarono l’egemonia culturale comunista nel decennio, fino al ’56.

    «Quale rapporto ebbe Togliatti con la cultura italiana? È nota, intanto, la sua insofferenza e una certa insensibilità per quanto era stato prodotto dalle avanguardie culturali europee negli anni 20 e 30. Togliatti aveva una formazione classica o classicista: e questo non era, naturalmente, soltanto un limite. Il limite più profondo, invece, consisteva nella negazione che si potesse dare un contributo autonomo da parte delle forze intellettuali agli indirizzi e agli orientamenti politici. Togliatti aveva un suo disegno del rinnovamento del paese, aveva una sua interpretazione profonda e in gran parte anche legittima dell’insegnamento di Gramsci. C’era in lui come una sorta di fastidio per ricerche, sperimentazioni, discussioni che finissero per distogliere la cultura progressista dal suo compito preminente: quello di favorire una “rivoluzione democratica e antifascista” nello Stato e nella società».

    - E pure il fermento pluralistico era notevole: gli umori più vivi della cultura italiana circolavano attorno al Pci, e si esprimevano in esso…

    «Certamente. Ma la tendenza pluralistica non si espresse a pieno nel partito sia per gli effetti traumatici, di crisi del ’56 (non solo il XX Congresso, ma le pressioni in Polonia e in Ungheria) sia, forse, per la avvenuta messa in discussione del modo stesso della formazione del potere socialista, di un rapporto non risolto tra democrazia e socialismo. Era possibile, per un partito come il Pci, che il gruppo dirigente guidasse rapidamente un simile tipo di poderosa autocritica? Ecco un quesito ancora sul tappeto. D’altra parte, non è dubbio che in quella crisi nacque una diaspora culturale che prese le direzioni più varie, che spesso ebbe come suo limite – invece di approfondire la ricerca sui valori di libertà e democrazia – la rincorsa di nuovi miti. Qualcuno, ricordo, allora disse che dallo stalinismo si poteva uscire soltanto “da sinistra”. Non era vero, e gli ultimi trent’anni di storia sono lì a dimostrarlo. Così una parte della intellighentia progressista si abbandonò alle utopie, all’ideologismo, fino alle follie della infatuazione maoista, guevarista, terzomondista, alle riletture di Lenin in chiave anarco-comunista, fino a quelle di Toni Negri su Stato e rivoluzione. È sempre difficile stabilire nessi ed equazioni nette tra idee estremiste e pratica politica. Ma è certo che molte idee degli anni ’67-’68 vennero a maturazione da quanto si seminò in quell’indimenticabile ’56…».

    - Una parte assai viva e gravida di memorie del libro che hai scritto riguarda l’esperienza del Contemporaneo, il settimanale di cui fosti redattore fin dopo il ’56 e che tentò una difficile quanto coraggiosa operazione di ricucitura dei rapporti tra intellettuali e partito.

    «Non ho fatto una storia del Contemporaneo, che andrebbe però fatta. Sia per la varietà e qualità dei collaboratori, sia per lo sforzo compiuto dai due direttori, Antonello Trombadori e Carlo Salinari, la rivista rappresentò un capitolo della storia del Pci e della cultura italiana da analizzare con rigore. Quando sopravvenne la crisi del ’56, tutti noi fummo sorpresi, mentre ci si impegnava su due fronti: riprendere in Italia la via della rivoluzione democratica e antifascista sull’onda vittoriosa della campagna contro la legge truffa; confidare nelle possibilità di un profondo rinnovamento dell’Urss e delle forze più vive della sua cultura. Gli eventi del ’56 di fatto impedirono un’aggregazione a sinistra che raggiungesse le forze intermedie, e con i fatti di Polonia e di Ungheria venne via via deperendo la capacità riformatrice in Urss».

    - Pure, in questi frangenti, si precisarono idee e posizioni assai avanzate. Ricordo, tra l’altro, quel tuo intervento sulla necessità di approdare ad una sorta di «neo-riformismo» una volta preso atto della inadeguatezza del leninismo ai problemi posti dalle società moderne.

    «Sì, l’articolo l’avevo scritto in fase pre-congressuale per il Quaderno dell’attivista. Vi si approfondiva un tema già sul tappeto, mettendo in discussione la base teorica del leninismo. E ricordo bene che Togliatti mi rispose con attenzione, come era suo costume, cercando di precisare i contorni teorici e politici del problema posto. La sua risposta fu complessa, anche ambigua per certi aspetti: da un lato affermava nettamente, con Lenin e anche con Gramsci, che ogni Stato era una dittatura di classe; dall’altro però, rispondendo alla domanda se valesse ancora la tesi leniniana secondo cui la “macchina” dello Stato borghese va distrutta, introdusse varie distinzioni ed esortò tutti alla necessità di storicizzare le posizioni leniniane e di non assolutizzarle. Togliatti sentiva che bisognava, su quel terreno, andare al di là della tradizione. Ma la pressione delle cose e il richiamo alla solidarietà comunista internazionale, erano forti remore sulla via del rinnovamento; nel Togliatti del ’56, si avverte questo aspetto conservatore. Ma in seguito si assisterà a una coraggiosa revisione, di cui lo stesso Togliatti si faceva propugnatore, sia sfidando l’isolamento nel 1957 sui temi del policentrismo, sia, nella polemica coi compagni cinesi, quando egli infranse i tabù del revisionismo. La stessa trasformazione di Rinascita da mensile a settimanale fu un segno eloquente di volontà e intenzione rinnovatrice, non soltanto in termini di alacrità giornalistica».
    «Proprio in quegli anni, appena trascorso il decennio delle “passioni”, e dopo l’esperienza del Contemporaneo, assistiamo al moltiplicarsi delle tendenze e delle ricerche culturali, con l’occhio rivolto al paese che cambiava nelle strutture economico-sociali rispetto alla tradizionale base agricolo-industriale, sia procedendo sulla strada del nesso indispensabile tra democrazia, libertà e socialismo. Tutte idee che avrebbero in un modo o nell’altro alimentato il dibattito costruttivo degli anni a venire. E se guardiamo a come stavano le cose in quel periodo, possiamo davvero dire con sicurezza che trent’anni non sono passati invano».


    1946-1956: promemoria per un giovane lettore (1986) – Musica e Storia
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 
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