L'Intellettuale Dissidente / Esteri
Russia Papers, ovvero il mantra del “one man show”
Salman bin Abdulaziz al Saud, Petro Poroshenko, Sigmundur Gunnlaugsson, Mauricio Macrì, Xi Jinping. Tanti i nomi della politica, esplicitamente citati, ma l’attenzione si focalizza sul nome di Vladimir Putin, mai comparso negli oltre 11 milioni di files hackerati. Eppure l’eco di risonanza generata dal suo entourage lo rende il personaggio più interessante in mezzo ai 14mila individui protagonisti dell’inchiesta Panama Papers. Se l’Occidente non ha il suo “one man show” attorno al quale costruire il suo serial mediaticamente accattivante, smarrisce la quintessenza del suo soft power. La Putinofobia è attualmente il feticcio mediatico di questa parte di mondo e, come nelle più seguite serie televisive, ci serve fino a quando non sapremo come andrà a finire.
di Francesco Manta - 7 aprile 2016
Trite e ritrite riproposizioni di numeri e record circa la portata di questa grande fuga di notizie sugli ultimi 38 anni di attività di Mossack Fonseca, che vede coinvolti una grande quantità di personaggi, più o meno noti, oggi soggetti al giudizio di moralità dopo aver svelato il segreto di pulcinella della finanza internazionale: se hai i soldi, mettili al sicuro, altrimenti il governo si mangia la torta. Fa ribrezzo, forse, pensare che proprio capi di governo abbiano fruito degli esotici prodotti forniti da questa offshore legal firm, cercando di bypassare il controllo delle loro stesse leggi. Sebbene non sia aprioristicamente illegale possedere dei fondi o delle società nei paradisi fiscali (a condizione di essere in una posizione trasparente nel proprio stato di residenza), traspare ancora una volta l’indole avida della natura umana, con quella vocazione ostinata al profitto, a volere sempre di più, senza lasciare nulla al resto del volgo. È così che crolla l’ideale di integerrimità, insieme al già affetto capitalismo (di cui la ricerca del profitto è il mantra) anche stati fondati sul dirigismo economico come la Corea del Nord e movimenti politici anti-sionisti come Hezbollah sono coinvolti nel crack morale della circolazione vorticosa di denari poco puliti. Il Consorzio Internazionale del Giornalismo Investigativo (ICIJ) ha tirato fuori dal cilindro il coniglio più grazioso e appariscente della cronaca d’assalto del nuovo secolo. Un ottimo lavoro di indagine, almeno in apparenza. Ma come hanno ricordato in molti, tra pionieri del contro spionaggio e intellettuali autorevoli, la qualità del giornalismo messo in piazza è di dubbia entità. Riusciremo a vedere un po’ più di un paio di fogli, pubblicati dal Guardian, su circa 11,5 milioni di file trafugati, così da non avere il sospetto, legittimo e corroborato dallo stato attuale della vicenda, che si tratti del solito piano studiato a tavolino per creare terrore mediatico e sollevare polveroni per annebbiare la vista dei più lesti? Tra i principali finanziatori dell’ICIJ – come anche Fulvio Scaglione ha ricordato pochi giorni fa – vi è la Open Society di George Soros, sulla quale si sono spese parole a sufficienza da non dover ricordarne ancora una volta gli scopi. Così come tanti altri individui che hanno lavorato a stretto contatto con presidenti e organi governativi americani sono direttamente coinvolti nelle attività del consorzio. Nella joint venture degli investigatori troviamo anche OCCRP (Organized Crime and Corruption Report), attivo soprattutto nell’Est Europa e che ha pubblicato due due dossier principali, uno sui Leningrad Boys di Putin, l’altro sulla maxi evasione del presidente ucraino Petro Poroshenko, proprio nel periodo in cui il governo ucraino si stia spendendo in discussioni e campagne che contrastano l’utilizzo di società off-shore, che costerebbero all’economia del Paese circa 11,6 miliardi di dollari. Potrà sembrare sempre complottista e grigio chi vede del marcio dietro a queste “sudate carte”, ma la presenza dei nomi di Sergey Rodulgin e Yurij Kovalchuk, rispettivamente violoncellista – ma anche azionista di varie compagnie offshore che avrebbero beneficiato di trasferimenti di linee di credito cedute in batter di ciglia – e presidente di Bank Rossij, definita come la banca personale di Putin e dei suoi fedelissimi. Due nomi, per un ammontare di 2 miliardi di dollari, senza che mai si faccia il nome del Presidente russo – quando, i suoi stessi detrattori affermano che la ricchezza occulta di Putin ammonterebbe a 100 miliardi di dollari! -. La conclusione della faccenda rimanda a quello che è un pensiero spicciolo ma non per questo irrilevante: se l’Occidente non ha il suo “one man show” attorno al quale costruire il suo serial mediaticamente accattivante, smarrisce la quintessenza del suo soft power. La Putinofobia è attualmente il feticcio mediatico di questa parte di mondo e, come nelle più seguite serie televisive, ci serve fino a quando non sapremo come andrà a finire. Nel frattempo costruiamo castelli, montiamo enigmi cervellotici e attendiamo impazienti l’evolversi della trama.
Russia Papers, ovvero il mantra del ?one man show?