Il PSI negli anni del frontismo
Pietro Nenni e Lelio Basso
Intervista a Lelio Basso, a cura di Giampiero Mughini – “Mondoperaio”, luglio-agosto 1977
Cos’è il PSI dei mesi successivi alla scissione di Palazzo Barberini? Quali ferite sono rimaste aperte?
Il termine “scissione” è forse improprio. In realtà, come ho già scritto su “Rinascita”, noi ci separammo da gente che col socialismo non aveva nulla a che fare. Personalmente mi opposi a un estremo tentativo di mediazione, cui lo stesso Nenni era disposto, e favorii la spaccatura.
Hai scritto in altra occasione che il PSI conobbe, dopo la scissione, momenti di grande riscatto attivistico e ideale.
Tant’è vero che riuscimmo a influire sulle scelte della maggioranza del Pd’A, inducendoli a entrare nel PSI. Molti di loro erano piuttosto orientati ad andare con Saragat e il Congresso conclusivo del Pd’A, a Roma, avrebbe dovuto sancire questa scelta. A quel Congresso, al teatro Valle, parlammo sia io che Saragat. Era il marzo 1947. Nel maggio-giugno il Pd’A si sciolse e la grande maggioranza venne da noi, segno che il PSI appariva loro come un partito vitale.
Cosa ti aspettavi da questo afflusso di forze?
Speravo in una loro assimilazione con quel che c’era di meglio nel corpo storico del PSI. Un’assimilazione che purtroppo non sempre avvenne, anche a causa della deleteria politica frontista intrapresa poco dopo dal PSI.
La segreteria Basso fu duramente contrastata dalla coalizione Nenni-Morandi. Quali erano i tuoi rapporti con quest’ultimo?
Avevamo fatto l’università assieme dal ’21 e ci eravamo laureati lo stesso giorno a Milano nel ’25. Eravamo stati assieme nelle organizzazioni universitarie. Dopo il mio arresto (1928-1931) e dopo la sua adesione al PSI, fu lui a prendere in mano le fila organizzative da cui nacque il Centro interno. Ne conoscevo e ne apprezzavo da sempre le grandi qualità morali, l’ingegno, il rigore. Più difficile era la nostra intesa personale, forse perché dotati di due caratteri molto diversi: io più estroverso, facile alla comunicativa, lui inquieto, chiuso in se stesso.
Quando comincia a profilarsi l’ipotesi frontista?
Se ben ricordo, a fine estate ’47 o in autunno. Ne parlò Nenni in un articolo dell’ “Avanti!”, mi pare senza averne prima parlato con me che ero il segretario del partito. Io non avevo nessuna ostilità preconcetta nei confronti del PCI. Pensavo però che il rapporto fra i due partiti dovesse svolgersi sul lungo periodo, nel corso di un processo in cui ciascuno avrebbe valorizzato le proprie qualità migliori. Il PSI, dicevo, aveva molti difetti ma anche molti pregi (aderenza alla storia del nostro paese, radicamento nella sensibilità di larghi strati popolari, una buona tradizione di lotte contadine, una struttura democratica, ecc.)
E invece molti socialisti vivevano un impressionante complessi di inferiorità nei confronti del PCI.
Appunto. Giudicavano il PCI più organizzato, più pronto. Il che non era vero in assoluto. In Lombardia, per esempio, partendo dal niente, durante la clandestinità, noi avevamo messo in piedi un tessuto organizzativo di primo piano. E difatti il CLN attribuì al PSI sei sindaci e tre prefetti su nove capoluoghi di provincia. Segno che riconosceva la forza e la rappresentatività del PSI. Nel dopoguerra noi avemmo una grande occasione di costruire un partito organizzativamente vitale, e tuttavia non leninista nel senso del centralismo. Un’occasione che il frontismo cancellò d’un colpo.
Quel era allora il tuo giudizio sull’URSS?
Ne sapevo quanto ne avevo letto sulla stampa e nei libri, certamente meno di quanto ne sapesse uno che vi aveva vissuto, come Togliatti. Ma due cose mi sembravano inequivocabili: che i “processi” fossero stati una farsa e che in URSS vigesse un regime burocratico-dittatoriale che non aveva nulla a che vedere con il socialismo.
Gennaio ’48, Congresso di Roma, vittoria dei frontisti.
I frontisti avevano già avuto la meglio in Direzione, seppure mi pare, con un solo voto di maggioranza. Da segretario del partito avevo due scelte. O dimettermi e dare battaglia, e la destra del partito me lo propose, ma io a nessun costo volevo accettare di diventare il leader della destra in funzione anticomunista. Oppure cercare di condizionare il frontismo dall’interno. È quel che cercai di fare, cercando anche di convincere compagni come Pieraccini e Foa che allora erano a sinistra. Se il Fronte, dicevo, fosse stato una leva per una vasta mobilitazione di massa nel paese, avrebbe avuto un significato positivo; se fosse stato unicamente un cartello elettorale, sarebbe servito solo a farci perdere voti, come in effetti fu. Ma il Congresso non accettò di esaminare questo appello, e si divise subito per contrapposizioni frontali, “viva i comunisti” o “abbasso i comunisti”, e per il mio discorso, che pure avevo proposto nella relazione introduttiva non ci fu posto. Accettai, forse sbagliando, di essere riconfermato segretario all’insegna di una politica che non condividevo.
Hai detto: non potevo stare con quelli della destra perché avrebbero finito col fare dell’anticomunismo. Non è un ragionamento da guerra fredda?
Nella guerra fredda c’eravamo, purtroppo.
Campagna elettorale. Quali erano le tue previsioni?
Ero partito con l’idea che si perdesse. Via via fui sul punto di cambiare idea. I rapporti delle federazioni erano improntati all’ottimismo, i comizi registravano una straordinaria partecipazione popolare. Chiusi la campagna elettorale a Milano, il venerdì. Avevo finito di parlare a mezzanotte meno un quarto, alle due non era ancora riuscito a districarmi.
Eppure si trattava di una matematica semplice, ha scritto Leo Valiani. Le sinistre non avevano avuto la maggioranza nel ’46; meno che mai avrebbero potuto averla nel ’48, dopo la scissione socialdemocratica.
Questo se in politica le cose fossero statiche. Ma i risultati del Blocco popolare in Sicilia e a Pescara avevano registrato un nostro avanzamento netto rispetto al ’46.
I dati elettorali del ’48 diranno il contrario, indicando due sconfitte, quella generale del Fronte e quella specifica dei candidati socialisti. Cosa dire di quest’ultima?
Le cose ben note. Difetti di organizzazione, incapacità di orientare i nostri voti sui nostri candidati, divisioni interne, mancanza di soldi.
Al Congresso di Genova la linea frontista viene messa in minoranza. Qual è in quel momento la tua posizione?
Io ero stato contrario a convocare il Congresso sotto la spinta emotiva dell’insuccesso elettorale. Se l’avessimo fatto, come avevamo diritto, qualche mese dopo, forse il risultato sarebbe stato diverso. Fatto è che a Genova l’ala centrista del partito guadagnò la maggioranza relativa, ma non assoluta, dei voti congressuali. La sinistra ebbe fra il 30 e il 40% e il resto andò alla corrente di Romita, che poi uscì dal partito. Il “centro” rifiutò di allearsi con la destra di Romita. La sua posizione restò molto debole. Non avevano uomini addestrati alla vita di partito. Le loro figure più rappresentative, i Lombardi e i Foa, erano da poco del PSI. La stessa scelta del segretario, l’onestissimo Jacometti, dimostra come mancassero di personaggi di grande impatto agli occhi del partito.
A Firenze, nel 1949, la sinistra si prende la rivincita. Lombardi ti ha rimproverato di esserti alleato con i frontisti Nenni-Morandi e di aver rifiutato l’alleanza con il “centro”.
La mia alleanza con il gruppo Nenni-Morandi, a Firenze, fu tormentatissima. Probabilmente in quell’occasione mi dimostrai un pessimo tattico. Volevo presentare una mozione mia, di sinistra, ma non frontista, ma poi mi lasciai convincere da Nenni a far parte di una sinistra unificata. Ma ero ormai in minoranza e in pochi mesi venni completamente emarginato. In pieno stalinismo lasciai la Direzione e più tardi fui estromesso anche dal Comitato centrale. Per alcuni anni quasi nessuno mi salutava più, fra i membri del gruppo parlamentare, per timore di compromettersi. Fra quelli che continuarono a salutarmi, ricordo Pietro Nenni, Fernando Santi, Pertini e Lombardi.
Da militante professionale cosa provasti in quegli anni?
Passai momenti di grande amarezza. Fui sul punto di lasciare il PSI, ciò che però era inconcepibile per uno come me, nato uomo di partito. D’altra parte erano anni in cui, se fossi andato via, per me non ci sarebbe stato scampo. La lotta politica era violentissima, l’ “Avanti!” non mi avrebbe dato tregua, sul piano personale mi avrebbero diffamato. Avrei finito con lo scavare un solco fra me e le masse, pur non volendolo.
Tutto questo semplicemente perché antistalinista?
Esattamente.
Il ghiaccio si sciolse, vennero tempi migliori. Quando?
Già nel ’52 Nenni aveva deciso di mutare politica e me lo disse, in un colloquio affettuoso, come sempre sono stati i nostri rapporti personali. Lo sorprese il fatto che io non condividessi neppure questa nuova politica. Come non ero stato frontista, così non ero disposto a diventare filo-democristiano. È stato sempre il dramma della mia vita politica, quello di non condividere le facili scelte contrapposte, cercando sempre invece una politica autonoma e classista del PSI.
E i tuoi rapporti con Morandi?
Per parecchi anni furono totalmente interrotti. A fine ’54, attraverso De Martino, Morandi mi invitò a cena a casa sua. Anche lui non condivideva i probabili sviluppi della politica di Nenni e mi invitò a riprendere parte attiva alla vita del partito. Ma di Morandi ho un ricordo ancora più netto. A Perugia, verso la metà del 1955, un convegno di giovani socialisti cui lo stesso Morandi mi aveva invitato. A sera ebbi con lui un discorso lunghissimo, commovente, in cui mi confessò come sentisse completamente fallita la sua politica, il suo tentativo di costruire un ferreo partito frontista. Era deluso degli stessi uomini che gli stavano vicini. Un discorso che aveva il sapore di un testamento. Due mesi dopo sarebbe morto.
Lì a Perugia Morandi sentiva la morte vicina?
Non credo, sentiva il fallimento della politica cui aveva dedicato la sua vita.
Ritornasti dunque nella prima fila politica.
A Torino nel ’55 tornai a far parte del Comitato centrale. Nel ’56 Nenni, subito dopo il rapporto Kruscev, mi chiese un articolo di fondo per l’ “Avanti!”. Più tardi, rientrai in Direzione, al Congresso di Venezia e anzi in segreteria. Il resto, sino alla scissione del PSIUP, è una storia corrente.
Ti è stata più volte fatta l’accusa di essere un cattivo tattico e di guardare solo agli svolgimenti lunghi della politica.
Può essere un’accusa fondata, secondo il significato che si dà alla parola “tattica”. Ma anche gli altri non hanno brillato in fatto di tattica. L’empirismo di Pietro Nenni è stato quello di un grandissimo giornalista, ma non direi di un grande tattico.