È un problema a due facce. Da un lato riguarda le compagnie petrolifere, che - dopo tanti falsi allarmi - stavolta stanno davvero subendo una drastica riduzione delle linee di credito da parte delle banche: la revisione semestrale è appena cominciata e già si segnalano diversi casi in cui la disponibilità è stata tagliata di un terzo o più.
L’altro lato della medaglia riguarda le banche stesse, che soprattutto (ma non solo) negli Stati Uniti stanno vedendo rapidamente deteriorarsi i crediti al settore Oil & Gas, per effetto del crollo del petrolio, che ormai prosegue da quasi due anni, ma anche per un recente cambiamento delle regole per la classificazione dei crediti, che le ha rese molto più severe, fin troppo secondo alcuni esperti, al punto che Haynes & Boone, un grande studio legale americano, molto attivo nel settore dell’energia, le paragona a uno tsunami, che rischia di travolgere con forza devastante l’industria dello shale oil, minando in modo duraturo le sue relazioni con il sistema bancario.
Più accantonamenti
L’esposizione al settore petrolifero in genere non è tale da mettere a rischio la solidità degli istituti, di certo non lo è per quelli più grandi, che hanno un portafoglio di prestiti molto diversificato e un ampio numero di attività con cui compensare eventuali perdite. Ma il problema sta comunque assumendo dimensioni non più trascurabili.JPMorgan Chase, che ieri ha inaugurato la stagione delle trimestrali delle banche americane, rispetto a dicembre ha aumentato di quasi il 70%, più di quanto avesse previsto, gli accantonamenti per crediti non performanti nel settore petrolifero, portandoli a 1,3 miliardi di dollari (su un totale di 1,82 miliardi).
L’attenzione degli investitori si concentrerà oggi su Wells Fargo, che tra i big del credito Usa è il più esposto al settore Oil & Gas, con prestiti per 17,4 miliardi di dollari e 1,2 miliardi già accantonati per possibili perdite. È probabile che anche Wells Fargo, così come le altre grandi banche americane, dovrà aumentare sensibilmente le riserve, anche se il petrolio - dopo essere sceso in gennaio ai minimi da 12 anni, sotto 30 $ al barile - ha finalmente ripreso quota proiettandosi verso 45 $.
Cambiano le regole
Le regole del gioco, infatti, non sono più le stesse. Le banche, che in passato hanno dimostrato un’enorme pazienza con le indebitatissime società dello shale oil, devono ora seguire nuove linee guida, molto più stringenti, nella valutazione della loro solvibilità. Ad emetterle, lo scorso 16 marzo, sono state tre autorità di vigilanza statunitensi: la Federal Reserve, l’Office of the Comptroller of the Currency (Occ) e la Federal Deposit Insurance Corp (Fdic), preoccupate che i crediti alle compagnie petrolifere - in particolare quelli, diffusissimi, garantiti da riserve di idrocarburi - non fossero classificati in modo da riflettere adeguatamente il rischio di insolvenza. Incagli, sofferenze ed esposizioni scadute nel settore petrolifero potrebbero insomma superare i 34,2 miliardi di $, evidenziati lo scorso autunno delle stesse Authorities, cifra che pure era quintuplicata nel giro di un anno (si veda il Sole 24 Ore del 7 novembre 2015). I crediti deteriorati nel settore potrebbero secondo alcuni esperti salire dal 12% ad oltre la metà del totale.
Petrolio a garanzia
Le banche americane - che hanno cercato invano di resistere alle nuove regole - non possono più accontentarsi della garanzia delle riserve di petrolio (che peraltro si sono svalutate insieme al barile) ma per giudicare la solvibilità di una compagnia sono obbligate a valutare la capacità di far fronte all’insieme di tutti i suoi debiti. I nuovi parametri sono severissimi: viene ad esempio prescritto di classificare automaticamente come non performing i crediti di compagnie con debiti oltre il 60% del capitale o con un rapporto superiore a 4:1 tra debito ed Ebitdax, una definizione di margine operativo lordo che tiene conto di tutte le spese delle compagnie petrolifere.
Bocciati all’esame
Si tratta di un esame che la maggior parte dei produttori di shale oil non riuscirà a passare, diventando per le banche un cliente sgradito. «Molti troveranno difficile, se non impossibile, trovare finanziamenti», prevede lo studio legale Haynes & Boones. I casi di bancarotta si moltiplicheranno e nel disperato tentativo di sopravvivere molti si rassegneranno a tassi di interesse o condizioni di finanziamento da usura.
Qualche caso è già passato alle cronache. Chesapeake Energy, il secondo produttore di shale gas dopo ExxonMobil, ha ipotecato praticamente tutte le sue proprietà, dai pozzi agli immobili, fino ai contratti di hedging, pur di conservare l’accesso a una linea di credito da 4 miliardi di dollari, senza subire revisioni fino giugno 2017. Clayton Williams Energy è invece ufficialmente la prima compagnia ad essersi rivolta a un fondo di private equity, Ares Management, perché subentrasse alle banche nel gestire un credito revolving: ha ottenuto 350 milioni di $ per cinque anni, ma a un tasso del 12,5% annuo. Inoltre Ares ha acquisito il diritto a rilevare il 18,5% della società e a nominare due consiglieri.
I crediti allo shale oil un fardello sempre più pesante per le banche - Il Sole 24 ORE