Bucharin e la trasformazione, una buona intuizione bloccata dalle determinanti del capitalismo russo
Note sulla polemica con Preobrazenskji
Tutta la lettura del testo di Bucharin dovrebbe essere ripresa tenendo presenti queste parole di Lenin: Bucharin "molto spesso, troppo spesso (...) cade nello scolasticismo terminologico (...) che contrasta con il materialismo dialettico (...), nell'idealismo, Di qui proprio una serie di inesattezze teoriche (...), di rimasticature scientifiche, di nobili sciocchezze accademiche (lo scolasticismo terminologico è fonte di errori), Il libro sarebbe del tutto eccellente se l'autore eliminasse nella seconda edizione i sottotitoli, eliminasse venti o trenta pagine di fatti (...) Allora l'inizio prolisso e non buono del libro migliorerebbe, diventerebbe più asciutto, più robusto, si libererebbe del grasso antimarxista e in tal modo 'darebbe un fondamento più solido' all'ottimo finale del libro. Quando l'autore si fa personalmente in primo piano dice cose molto buone, in modo piacevole e senza pedanteria (...)". E in un'altra critica del 31 maggio 1920: "L'autore esamina i processi economici non abbastanza concretamente in actu, cadendo spesso in ciò che prende il nome di Begriffscholastik (lett. scolastica dei concetti; gioco di concetti), non rendendosi conto che molte formulazioni e termini poco felici hanno origine nella filosofia".
A volte, nel corso della Storia, succede che il più fervente profeta di un determinato obbiettivo, diventi lo strumento inconsapevole - teorico e pratico - del suo contrario.
In queste poche pagine vogliamo soffermarci sulla figura di Nikolaj Bucharin: più precisamente su alcuni elementi teorici del suo agire politico.
Nessuno - a meno che non voglia farsi portavoce della più spregevole e crassa propaganda - può accusare Bucharin di una forma qualsiasi di "nazionalismo bolscevico". Nessuno può accusarlo di indifferentismo alla causa della rivoluzione comunista internazionale, anche in quei momenti in cui il moto rivoluzionario delle masse occidentali mostrò di essersi esaurito, lasciando l'Unione Sovietica della prima dittatura comunista vittoriosa, sola a sopportare gli immani problemi che doveva risolvere.
In questa situazione, per l'URSS, il problema era quello di resistere avviando un processo di industrializzazione che la riportasse ad un livello produttivo pari "almeno al 1913".
All'interno del PCBR si sviluppò una lotta tremenda sul corso da dare alla rivoluzione.
Le condizioni di vita degli uomini, le basi materiali della produzione della loro vita producono le idee - a volte distorte - su queste stesse basi. materiali. Essi credono di essere gli artefici dei cambiamenti, senza rendersi conto di esserne dei semplici strumenti. E, in quanto semplici strumenti, a volte è concesso loro di leggere la realtà sulla base delle proprie idee. Questo fatto può portare a teorizzazioni aberranti (leggi: socialismo in un paese solo), a feroci capocciate (leggi: la storia della Internaz. Comunista, dalla metà degli anni 20 alla sua fine), ma questo non modifica di una virgola il corso storico e del capitalismo mondiale e del processo di crescita della sua negazione: il comunismo e la rivoluzione che lo libererà.
Per quanto ci riguarda, bisogna fare lo sforzo di adeguarsi al processo della rivoluzione mondiale, a non essere di ostacolo ad una lettura corretta di questo processo; ad adeguare le nostre idee - e, dunque, il nostro agire politico - alle forze produttive nuove che vivono all'interno della vecchia società. Per tale motivo, é utile studiare e ristudiare la nostra storia di classe, a livello internazionale, perché i problemi non risolti di ieri, ce li troviamo e soprattutto, ce li ritroveremo domani e dovremo avere gli strumenti teorici per risolverli.
Perché, dunque, vogliamo soffermarci su Nikolaj Bucharin e particolarmente sul suo "Economia del periodo di trasformazione'' (1920, Ediz. Jaka Book, 1971), tralasciando un altro suo lavoro importantissimo: "L'economia mondiale e l'imperialismo", 1915 ? Perché riteniamo che in "Economia del periodo di trasformazione" vi siano compendiati gli elementi teorici di quella che sarà la futura concezione del nuovo PCBR a proposito del "socialismo in un paese solo".
Tali elementi teorici possono essere ricavati particolarmente da due capitoli: "Presupposti generali della costruzione comunista (cap. IV) e "Struttura del capitalismo mondiale" (cap. I).
Anticipiamo un'osservazione: una sostanzialmente corretta lettura, nel cap. IV, dell'impostazione data dal Capitale dì Marx sulla differenza qualitativa fra la divisione sociale del lavoro e la divisione manifatturiera del lavoro, da una parte; unita, dalla altra parte, ad una pessima "lettura" (nel cap. I) sullo sviluppo del capitalismo dei primi anni del XX secolo e, particolarmente, la falsa concezione della tendenza ad un capitalismo organico a livello nazionale, porta Bucharin, nell'unione formalistica di questi due aspetti, a creare quella che risulta essere una autentica mostruosità: estensione quantitativa e spaziale della divisione del lavoro dall'interno di una singola azienda produttrice di merci, all'insieme della vita complessiva di ogni singola entità nazionale ("trust capitalistico di Stato", pag. 19). Da questo punto, alla successiva teorizzazione - e conseguente azione politica - sul "socialismo in un paese solo", il passo é breve.
Ma veniamo al nocciolo dei problemi.
Nei "Presupposti generali della costruzione comunista", si legge: "La nuova società non può emergere improvvisamente come un deus ex machina. I suoi elementi crescono nel seno della vecchia società. e qui il discorso cade su fenomeni di natura economica.... e dunque gli elementi della nuova società devono essere ricercati nei rapporti di produzione della vecchia. In altri termini la questione deve essere posta in questo modo: quale tipo di rapporti di produzione della società capitalistica può essere in generale alla base della nuova struttura produttiva?" (pag. 60).
Rimandando al capitolo del Capitale di Marx, sulla "tendenza storica dell'accumulazione capitalistica", Bucharin risponde, alla domanda da lui stesso posta, che esso é dato dalla centralizzazione dei mezzi di produzione e dalla socializzazione del lavoro: questi due momenti formano anche il fondamento del nuovo modo di produzione che é cresciuto all'interno di quello capitalistico" (pag. 61).
Due aspetti, dunque, che in ogni caso abbisognano di una precisa distinzione l'uno dall'altro: a) i mezzi di produzione (macchine, fabbriche, ecc.) e, dunque, la loro centralizzazione sono sottoposti, durante la crisi, e particolarmente durante il periodo dell'insurrezione proletaria e dell'inevitabile guerra civile, ad una minore o maggiore dissoluzione e rovina; b) la socializzazione del lavoro, benché sia un rapporto fra operai interno al processo di produzione e mediato dallo stesso, e quindi, benché la sua estensione quantitativa non possa essere indifferente ai momenti di crisi e di dissoluzione della centralizzazione dei mezzi di produzione, appare come "forma tipica", "momento tipico e decisivo" della concentrazione del proletariato.
Dunque, la "forma cooperativa del lavoro", di cui parla Marx si incorpora come momento decisivo nei rapporti specifici fra gli operai. Proprio in ciò risiede il baricentro della nuova società" (pag. 62).
La forza-lavoro è la forza produttiva più importante, ma essa é forza-lavoro associata legata ai mezzi di produzione: alla macchina, alla fabbrica, ecc.. E "la fabbrica - scrive Bucharin (pag.48) citando la Miseria della filosofia di Marx - é non soltanto una categoria tecnica, ma una economica, poiché essa é un complesso di rapporti sociali di lavoro e di produzione". La forza-lavoro é, dunque, la forza produttiva più importante, ed é per tal motivo che il rapporto fra gli operai all'interno del processo di produzione di una merce é "la parte componente fondamentale dell'apparato di persone in attività. Proprio qui sono da ricercare anche gli elementi fondamentali della nuova struttura di produzione" (pag. 63).
Dove specificamente cercare gli elementi della nuova società all'interno dei rapporti di produzione della vecchia società? All'interno della fabbrica, risponde: all'interno dell'apparato di persone in attività"!
Per vedervi cosa?
Per vedervi, risponde Bucharin: "La piena maturità' dei rapporti di produzione comunisti nell'ambito della società capitalista (che) é quel sistema di cooperazione incorporato nei rapporti di produzione degli operai e ciò, nello stesso tempo, unisce insieme gli uomini atomizzati in una classe rivoluzionaria (p. 63). E qui é della massima importanza la nota n. 6 che risponde a quanti - ieri come oggi - vedono nel proletariato solo una forza "soggettivamente rivoluzionaria" (sottolineando dunque l'aspetto della "volontà organizzativa") e non vedono la natura rivoluzionaria del suo essere reale che l'indica" i propri strumenti e la relativa volontà di realizzarli, nonché il modo determinato per giungere ad essi (la famosa "questione della tattica").
In questa nota importante, il nostro autore cita il Manifesto dei Comunisti, dove troviamo la seguente descrizione dei rapporti di cooperazione fra gli operai: "Il lavoro salariato si fonda esclusivamente sulla concorrenza degli operai fra di loro. Il progresso dell'industria... sostituisce all'isolamento degli operai, attraverso la concorrenza, la loro unione rivoluzionaria attraverso l'associazione. Con lo sviluppo della grande industria viene meno dunque, sotto ai piedi della borghesia, il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria dei prodotti. Essa produce innanzitutto i propri becchini". Marx, continua Bucharin, sempre nella stessa nota richiama questo passo nella nota 252 alla fine del XXIV capitolo del Libro I del Capitale. E' del tutto chiaro che Marx non valutava soltanto il proletariato come forza che realizza "il rovesciamento violento", ma anche come l'incarnazione sociale dei rapporti di cooperazione che crescono all'interno del capitalismo e danno fondamento al modo di produzione socialista (o comunista)" (p. 63).
Ma in cosa consistono questi "rapporti di cooperazione... che danno fondamento al modo di produzione comunista"?
Troviamo finalmente espresso - nel capitolo I: "Struttura del capitalismo mondiale" - in termini inequivocabili l'essenza di questi rapporti di cooperazione.
In questo capitolo sta parlando del rapporto esistente fra capitale mondiale e capitale nazionale: aspetto che per ora non ci interessa, volendo arrivare al nocciolo dei rapporti di cooperazione di cui si é parlato sopra.
"Qui si osserva precisamente il medesimo processo che avviene durante la fusione fra due o più imprenditori di differenti settori in una unità combinata, dove le materie prime vengono trasformate in semilavorati e poi in prodotti finiti; però in modo tale che il corrispondente movimento dei prodotti non viene accompagnato da alcun movimento contrapposto di denaro equivalente (dunque, non c'è alcun scambio); i "beni economici" allo interno del gruppo imprenditoriale combinato sono posti in circolazione non come merci ma del tutto come prodotti e rappresentano merci solamente in quanto vengono gettate sul mercato dall'interno complesso articolato" (p.19), Apriamo una breve parentesi: qui Bucharin rettifica il grossolano errore che commette parlando di "rapporto di scambio fra gli operai" (inizio p. 63). All'interno del processo di produzione, non vi é alcun scambio fra gli operai parziali formanti l'operaio collettivo, bensì passaggio, trasmissione unidirezionale del prodotto semi lavorato. E' proprio per tal motivo che non esiste legge del valore e che, quindi, tali rapporti fra gli operai, all'interno del processo produttivo di una merce, rappresentano la fondamentale forza produttiva che, al tempo stesso, é la struttura portante della società comunista di domani.
Ripetiamo quindi, sulla scia del I Libro del Capitale, che si tratta di un complesso di rapporti sociali non mediati da merci (essi sono prodotti, oggetti utili, semilavorati, ecc.), dunque, non mediati dalla legge del valore" dello scambio delle merci. Certamente, non si dimentica per un solo momento che la fabbrica cioè questo "complesso di rapporti sociali di lavoro e di produzione", essendo elemento fondamentale del ciclo della produzione delle merci, é reso possibile dal capitale al solo fine dì valorizzare se stesso. Ciò non porta a negare la duplice natura del processo di produzione che, se da una parte é funzionale al capitale stesso, dall'altra é negazione della legge del valore, quindi della stessa valorizzazione del capitale. Che il capitale produca i propri becchini, deve essere un problema per il capitale, non per i comunisti.
Queste note sulla "cooperazione" osservata da Bucharin, finiscono qui. Egli è in perfetta sintonia con quanto afferma Marx sullo stesso tema, e mostra come non vi sia nulla di utopistico nella concezione marxista. Anzi, se un appunto bisogna fare a Bucharin, esso é dato dal fatto che tanto non si costruiscono utopie quanto non si costruisce nessuna società comunista, come invece ripete troppo spesso il nostro autore, a partire dallo stesso titolo del capitolo. Proprio per quanto ha scritto, nella parte da noi ricordata, attenendosi a quanto già detto da Marx, il comunismo non si costruisce: esso viene liberato dai vincoli e dalle catene della vecchia società e, a tal fine, esso produce nel proletariato la volontà necessaria, gli strumenti necessari a tal fine.
Se vi é, in Bucharin, una notevole capacità dialettica nell'analizzare la "cooperazione" interna al processo di produzione, vi é un altrettanto notevole schematismo antidialettico nel capitolo I ("Struttura del capitalismo mondiale"), quando parla del rapporto esistente fra questo ed il capitalismo a livello nazionale.
"L'economia politica teorica - scrive - é la scienza dell'economia sociale che si fonda sulla produzione di merci, cioè la scienza dell'economia sociale non organizzata" (p. 11). L'anarchia della produzione e della distribuzione é il fondamento portante la società borghese. Tale fondamento é indipendente dai bisogni dei singoli e dell'insieme della società ed i suoi effetti si manifestano con la medesima cieca inevitabilità come "la legge di gravità, quando ad uno la casa piomba in testa" (Marx).
Ma, fortunatamente, la presente società é storicamente delimitata ed appena la si analizza ponendosi al di fuori di essa (cioè, non con la chiave di lettura dell'economia politica, ma con quella della sua negazione), appena si passa a considerare un'economia sociale organizzata, scompaiono tutti i "problemi" fondanti dell'economia politica: il problema del valore, del prezzo, del profitto, ecc. (...) Qui l'economia sociale non vien e regolata dalle cieche forze del mercato e della concorrenza, ma da un piano attuato coscientemente. (...) Non resta alcun spazio per una scienza che studi le "cieche leggi" del mercato, perché vien meno il mercato stesso" (pp. 11/12).
Questo "piano attuato coscientemente", non é certo dettato dal parto cerebrale di qualche bella testa pensante: esso é dato dallo stesso processo di produzione di ogni singola merce che si realizza attraverso un "piano di produzione funzionale ad uno scopo". E la "cooperazione" é lo strumento organizzativo di questo piano.
Fin qui, dunque, nulla da eccepire: lungo la via indicata da Marx-Engels non si fa altro (e non é certo cosa secondaria) che ribadire "quali siano gli elementi fondamentali della società borghese, nonché gli elementi della sua negazione.
Il capitalismo, continua Bucharin, non é una somma di unità economiche, ma un "nesso organizzato attraverso lo scambio" e "il capitalismo moderno è un capitalismo mondiale" (p. 12). Esso è un nesso organico. "Questo significa che i rapporti di produzione capitalistici dominano nel mondo intero e tutte le parti del nostro pianeta sono legate fra loro da un solido vincolo economico" (p.12).
L'anarchia della produzione e della distribuzione è uscita dal limite delle poche economie nazionali borghesi del XIX secolo e, all'inizio del XX, ormai abbraccia in una rete il mondo intero.
"Come la società rappresenta una realtà che non produce prodotti ma merci, cosi essa (questa rete mondiale) é una unità disorganizzata" (p. 13), le cui parti elementari non sono date dai singoli imprenditori privati. "La struttura del capitalismo moderno é di tal genere che le organizzazioni collettivo-capitalistiche rappresentano i soggetti dell'economia: trust capitalistici di Stato" (p.14).
E qui entriamo nel cuore del problema e che alla fine porterà Bucharin a stravolgere completamente la corretta impostazione marxista sulla differenza fra la divisione sociale del lavoro e la divisione manifatturiera (o aziendale) del lavoro.
"Il capitale finanziario ha eliminato l'anarchia della produzione all'interno dei paesi ad alto sviluppo capitalistico. Le associazioni imprenditoriali monopolistiche, gli imprenditori associati e le penetrazioni del capitale bancario nell'industria hanno creato un nuovo tipo di rapporti di produzione, in quanto essi trasformano il sistema capitalistico mercantile non organizzato in una organizzazione capitalistico finanziaria. Al posto di un nesso disorganizzato di un imprenditore con gli altri attraverso l'acquisto e la vendita è subentrato in crescente misura un nesso organizzato attraverso il controllo dei pacchetti azionari, attraverso la partecipazione e il finanziamento che trovano la loro personale espressione nei dirigenti comuni delle banche e dell'industria, cosi come dei gruppi e dei trust. Con ciò il rapporto di scambio che la divisione sociale del lavoro e la scissione dell'organizzazione sociale produttiva manifestano in imprenditori capitalisti dipendenti, viene sostituito attraverso una divisione tecnica del lavoro all'interno dell'economia nazionale organizzata" (pp. 14/15). Secondo Bucharin, dunque, a questo punto la differenza fra la divisione del lavoro (o tecnica) all'interno di un'azienda e la divisione del lavoro interna ad ogni economia nazionale, assume solamente un grado quantitativo e spaziale.
"Il mercato diviene effettivamente mercato mondiale e cessa di essere nazionale" (P. 19).
Che il processo di centralizzazione sia un fatto reale, non contrasta l'altro fatto altrettanto reale dell'aumento della divisione sociale del lavoro, quindi dell'aumento dei produttori e possessori privati di merci, che si rapportano l'uno all'altro sulla base della legge del valore, del mercato, ecc.. Dire che il mercato "cessa di essere nazionale", significa cadere in uno schematismo che vede la centralizzazione dei mezzi di produzione in poche mani, fino al "trust capitalistico di Stato", lungo una via che porta alla fine dei contrasti - su base schiettamente capitalistica - all'interno di ogni economia nazionale. E' corretto dire, come fa l'autore ad un certo punto - e in ogni caso non dice nulla di nuovo rispetto a quanto detto sul tema della cooperazione - che in una unità combinata di due o più imprenditori, "le materie prime vengono trasformate in semilavorati; però in modo tale che il corrispondente movimento dei prodotti non viene accompagnato da alcun movimento contrapposto di denaro equivalente; i beni economici all'interno del gruppo imprenditoriale combinato sono posti in circolazione non come merci ma del tutto come prodotti e rappresentano merci solamente in quanto vengono gettate sul mercato dall'intero complesso articolato" (p. 19).
Su questo punto, ci ripetiamo, nulla da dire, ma da questo alla differenza semplicemente quantitativa fra la divisione aziendale del lavoro e la divisione del lavoro a livello nazionale, ci sta il... formalismo di Bucharin.
"Precisamente é il prodotto organizzato nella sua ripartizione all'interno del paese solamente una merce, in quanto il suo essere é collegato con l'esistenza del mercato mondiale" (p. 19). Dunque, dato che una merce è tale solamente nel momento in cui si rapporta ad un'altra merce di pari valore, all'interno del processo di scambio, ossia nel mercato, il discorso di Bucharin porta a dire che all'interno di un'economia nazionale può non esservi produzione di merce; si avrebbe una merce solamente quando il "prodotto finito" esce dai confini dell'economia nazionale data, per entrare nel mercato mondiale a confrontare il proprio valore con quello di qualsiasi altra merce.
Qui si è costretti a ricordare un punto essenziale della concezione dialettica così come l'abbiamo appresa da Marx-Engels: data una determinata qualità, quantitativamente esprimibile, con il suo sviluppo nello spazio e nel tempo, avremo la trasformazione in una qualità nuova.
Il che significa, per tornare al nostro tema: data la negazione della legge del valore all'interno del processo di produzione di ogni singola merce; quindi, data la negazione dell'esistenza di merci all'interno di tale processo, con relativa affermazione dell'esistenza reale - a livello fetale - della società comunista di domani; dato tutto ciò, con lo sviluppo nel tempo e nello spazio - alla scala dell'insieme di una economia nazionale - la qualità vecchia (il feto del comunismo )si trasforma in una qualità nuova: il comunismo reale... in un paese solo.
Lo schematismo di Bucharin si coglie benissimo nel Prospetto I: certamente non nella figura A, ma nella figura B, dove annulla le linee tratteggiate all'interno di quei cerchi che definisce "trust capitalistico statuale".
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PREOBRAZENSKIJ E IL SOPRAVVENTO DELLE DETERMINANTI RUSSE SULLA TEORIA E SULLA RIVOLUZIONE MONDIALE
La povertà teoorica della polemica che contrappone Bucharin a Preobrazenskij dovrebbe essere ulteriormente approfondita sulla base del peso materiale che le condizioni russe rappresentano nei confronti dell'intera rivoluzione mondiale (con rif. anche alla degenerazione dell'IC e alla battaglia della Sinistra sulla possibilità futurre della rivoluzione).
Nel La legge fondamentale dell'accumulazione socialista (1924), affrontando la situazione interna all'Unione Sovietica, E. Preobrazenskij pone il problema "di che cosa rappresenti il sistema economico sovietico, in quale direzione si sviluppi, quali siano le sue leggi fondamentali di evoluzione e, infine, quale connessione abbia con le nostre vecchie e tradizionali configurazioni del socialismo questa prima esperienza che esce, almeno per quanto concerne i suoi elementi fondamentali dal quadro del capitalismo. Quest'ultimo problema potrebbe essere più correttamente espresso nel seguente modo: alla luce di sette anni di dittatura del proletariato in un enorme paese, come si configurano oggi le nostre precedenti idee sul socialismo?" (da L'accumulazione socialista, Editori Riuniti, marzo 1969, p.7).
"Per comprendere l'attuale fase di sviluppo dell'economia sovietica è estremamente utile effettuare un raffronto sistematico fra i primi passi del socialismo e i primi passi del modo capitalistico di produzione. Tale raffronto è estremamente istruttivo e facilita di molto la nostra analisi (...).
Iniziamo dalla differenza principale, che condiziona una serie di altre differenze.
La produzione capitalistica sorge e si sviluppa nelle viscere della società feudale, o di una società feudale mezza disgregata dall'economia mercantile, molti decenni prima delle rivoluzioni borghesi. Ciò si applica pienamente allo sviluppo del capitale mercantile, quale fase preliminare necessaria della produzione capitalistica. Si applica ai primi passi della manifattura in Inghilterra ed ai primi passi dell'industria meccanica sul continente. Il capitalismo potè percorrere la fase di accumulazione originaria già nell'epoca in cui predominavano l'assolutismo in politica, la produzione mercantile semplice ed i rapporti feudali di servitù in economia" (p.9).
Possiamo considerare questa esposizione di Preobrazenskij una stringata sintesi del capitolo del Capitale di Marx su La cosidetta accumulazione originaria.
Ciò che quì ci preme sottolineare è come la produzione capitalistica "sorge e si sviluppa nelle viscere della società feudale ... mezza disgregata dall'economia mercantile, molti secoli prima delle rivoluzioni borghesi ... [le quali non sono] ... che un episodio nel processo di sviluppo capitalistico" (p.9).
Affinchè dunque si sviluppi il modo di produzione capitalistico vero e proprio, affinchè siano possibili le condizioni delle rivoluzioni borghesi, si rende necessaria un'accumulazione originaria degli elementi costitutivi del nuovo modo di produzione, i quali devono svilupparsi fino ad un determinato livello quantitativo, all'interno di quello spazio dato dai "pori della società feudale" (Preob., p.9).
Nel Capitale, Marx ci accompagna lungo il processo dell'"accumulazione originaria", chiarendo il significato del termine "originaria": "La cosidetta acciòulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare <originario> perchè costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione ad esso corrispondente" (Libro I, 3, Editori Riuniti, 19 , p. ). Non solo: nel corso del capitolo, egli illustra anche il contenuto di questa "accumulazione, che è dato dalla genesi dei lavoratori salariati ("liberazione" della massa della popolazione dai mezzi di produzione e, quindi, della sua trasformazione in proletari possessori unicamente della propria forza-lavoro), dalla genesi dei fittavoli capitalisti e dalla genesi dei padroni di manifatture.
L'"accumulazione originaria", dunque, non è altro che accumulo degli elementi caratterizzanti il modo di produzione capitalistico, i quali devono raggiungere un determinato livello quantitativo (e lo raggiungono all'interno dei "pori della società feudale") prima di avvertire la necessità di spezzare i limiti della società feudale stessa.
"Quando è salito ad un certo grado, questo modo di produzione [dei produttori immediati, della proprietà privata fondata sul lavoro personale] genera i mezzi materiali della propria distruzione. A partire da questo momento, in seno alla società si muovono forze e passioni che si sentono incatenate da quel modo di produzione: esso deve essere distrutto e viene distrutto. La sua distruzione che è trasformazione dei mezzi di produzione individuali e dispersi in mezzi di produzione socialmente concentrati, e quindi la trasformazione della proprietà minuscola di molti nella proprietà colossale di pochi, quindi la espropriazione della gran massa della popolazione, che viene privata della terra, dei mezzi di sussistenza e degli strumenti di lavoro; questa terribile e difficile espropriazione della massa della popolazione costituisce la preistoria del capitale" (Capitale, Libro I, 3, p. ).
Dunque, se la rivoluzione borghese è un "episodio nel processo di sviluppo capitalistico" e se l'accumulazione originaria di tale processo deve avvenire prima della rivoluzione borghese stessa, in cosa consiste la differenza fra la formazione e sviluppo del modo di produzione capitalistico ela formazione e sviluppo del successivo modo di produzione comunista?
"Le rivoluzioni borghesi iniziano quando il capitalismo si trova già in fase avanzata di costruzione del proprio sistema economico. La rivoluzione borghese non è che un episodio nel processo di sviluppo capitalistico, che inizia molto prima della rivoluzione e procede con velocità accelerata dopo la rivoluzione.
Il sistema socialista, al contrario, incomincia la sua storia con la conquista del potere da parte del proletariato" (La legge fondamentale ..., p.9).
Alla domanda "Ha il socialismo una preistoria? Ed in caso affermativo, quando comincia?", Preobrazenskij risponde: "L'accumulazione originaria socialista non può avvenire sulla base del capitalismo. Di conseguenza, se il socialismo ha una preistoria, essa può iniziare solo dopo la conquista del potere da parte del proletariato" (p.10).
Vien posto quì il problema del potere politico, quindi della funzione dello Stato in rapporto alla nascita ed allo sviluppo dei diversi modi di produzione. Ma per comprendere la funzione dello Stato in rapporto alla nascita e sviluppo della società comunista (Preobrazenskij usa la parola "socialismo" come sinonimo di "comunismo"), bisogna prima di tutto comprendere la natura stessa del comunismo. "Una comprensione insufficiente e lacunosa della natura stessa del socialismo ha spesso indotto ed induce tuttora numerosi compagni a concezioni limitate esplicitamente riformistiche dell'economia sovietica e delle sue vie di sviluppo" (p.9).
E' su questa "comprensione insufficiente e lacunosa della natura stessa del socialismo", da parte dello stesso Preobrazenskij, che poggia la debolezza (purtroppo, non solo sua) di tutto il discorso.
Se "il sistema socialista comincia la sua storia con la conquista del potere politico da parte del proletariato, ciò deriva dall'essenza stessa dell'economia socialista, in quanto complesso unitario che non può formarsi in modo molecolare nelle viscere del capitalismo" (p.9).
Nessun dubbio che il modo di produzione comunista (il "sistema socialista") sia un "complesso unitario" con sue ben precise e specifiche leggi di sviluppo che, si ricordi bene, nello stesso tempo sono affermazione del nuovo modo di produzione e negazione del vecchio modo di produzione; ma che, nel corso del tempo, si presentano agli uomini prima come negazione del vecchio e poi come affermazione del modo di produzionenuovo.
Cosa vuol dire "complesso unitario"? E' forse una chiave particolare che apre qualche particolare porta?
Il comunismo - ossia quel piano comune di produzione e di distribuzione alla scala umana (e non certo alla scala di un paese solo) - è un complesso unitario, come il capitalismo - ossia quell'anarchico modo di produzione e distribuzione alla scala umana - va trattato, a sua volta, come un complesso unitario. Così è un insieme unitario quella società fondata sul lavoro servile, o quella fondata sul lavoro degli schiavi; come è un insieme unitario (complesso unitario) quella relativa al "comunismo primitivo"
Dunque, un qualsiasi modo di produzione - proprio in quanto modo di produzione qualsiasi - è un insieme unitario, un "complesso unitario", e dire che il comunismo è un complesso unitario (nel testo: "in quanto complesso unitario") è lo stesso che parlare di "un complesso unitario in quanto complesso unitario": cioè, significa solamente avere e provocare non poca confusione.
O, forse, si vuol semplicemente affermare che il comunismo - a differenza del precedente modo di produzione capitalistico - è un complesso unitario in quanto al suo interno non vi sono quelle contrapposizioni fra uomini, caratteristica di una società divisa in classi sociali.
Questo, lo potremmo pienamente sottoscrivere.
In realtà, non è tanto questo che si vuol affermare, quanto che l'"economia socialista, in quanto complesso unitario non può formarsi in modo molecolare nelle viscere del capitalismo ... (...) ... ma solo in conseguenza della rottura frontale del vecchio sistema, solo come risultato della rivoluzione sociale" (p.9).
E' questa la tesi che non possiamo accettare, in quanto pienamente errata e portatatrice di quelle"concezioni limitate e talvolta esplicitamente riformistiche" che si vorrebbero combattere. Va rovesciata, dunque, la risposta data da Preobrazenskij alla sua stessa domanda: "Ha il socialismo una preistoria?".
Per noi, il comunismo ha una sua preistoria, potendo (e dovendo) svilupparsi solo prima della conquista del potere da parte del proletariato. Non è lo Stato della dittatura del proletariato che determina la formazione e lo sviluppo della società comunista; Rovesciando i termini, è il comunismo nella sua forma fetale (cresciuto "in modo molecolare nelle viscere del capitalismo) che, arrivato ad un certo grado di maturità, innesca il processo rivoluzionario, determina con la violenza rivoluzionaria (che è la levatrice della storia, non la "costruttrice") la formazione dello Stato della dittatura del proletariato: funzione del suo maturo dispiegarsi.
Non bisogna mai stancarsi di ripetere che "il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà uniformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Lecondizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente" (Ideologia Tedesca, Editori Riuniti, Opere Complete V, p.34).
Questo movimento reale di cui parla Marx, non è dato dalla soggettiva "volontà" delle classi sociali che, ad un certo punto della loro storia, "decidono" di abolire lo stato di cose presente e che "decidono" di dar avvio ad un nuovo modo di produzione; esso è dato da precisi "rapporti di traffico e di produzione" (Marx) che impongono agli uomini, alle classi sociali, le proprie necessità.
"All'interno della società borghese fondata sul valore di scambio si generano rapporti di traffico e di produzione che sono altrettante mine per farla saltare. (Una massa di forme antitetiche dell'unità sociale, il cui carattere antitetico tuttavia non può mai essere fatto esplodere mediante una quieta metamorfosi. D'altro canto, se nella società così com'è non trovassimo già nascoste le condizioni materiali ed i rapporti di traffico ad esse corrispondenti, adeguati ad una società senza classi, tutti i tentativi di farla saltare sarebbero donchisciotteschi" (Grundisse, Editore Einaudi, 1976, p.91).
Ciò significa: all'interno di rapporti di produzione e di distribuzione borghesi - ossia all'interno dei rapporti fra gli uomini fondati sulla legge del valore - si generano, come "mine per farli saltare", contrapposti rapporti di produzione e di distribuzione comunisti - ossia, rapporti fra uomini neganti la legge del valore - i quali obbligano questi stessi uomini a prendere consapevolezza delle nuove relazioni che si sviluppano fra di essi, e porre così in atto quanto serve allo sviluppo di queste nuove relazioni, liberando il terreno dai vecchi rapporti.
La tesi centrale sulla quale Preobrazenskij poggia tutto il suo ragionamento è, dunque, per dirla con Marx, semplicemente "donchisciottesca". E se è profondamente errata questa tesi, ne deriva che la conseguente concezione sulla natura del nuovo modo di produzione (il comunismo) e sullo Stato della dittatura del proletariato, è altrettanto errata. Non solo: in Preobrazenskij risulta pure assolutamente nebuloso il concetto stesso di rivoluzione.
A proposito della rivoluzione borghese, egli scrive che essa "non è che un episodio nel processo di sviluppo capitalistico, che inizia molto prima della rivoluzione e procede con velocità accelerata dopo la rivoluzione" (p.9), confondendo il concetto si rivoluzione con quello di insurrezione.
Quando, ad es., vengono concentrati (siamo al tempo della "cosidetta accumulazione originaria") degli artigiani indipendenti in un unico edificio che lavora la lana, prendeavvio la manifattura laniera. Questa innalza fortemente la produttività del lavoro e richiede in breve tempo una grande quantità di materia prima: la lana. Si pone quindi, a livello sociale, il problema dello sviluppo dell'allevamento delle greggi di pecore e, per tal motivo, l'allargamento della superficie di terra destinata a pascolo. La concentrazione fondiaria con relativa espulsione di mano d'opera contadina, nonchè l'appropriazione delle terre comunali, sono conseguenze inevitabili che non si attuano, in ogni caso, in maniera pacifica ed indolore grazie ad una specie di libero gioco delle individuali forze sociali presenti (il proprietario fondiario, il fittavolo-capitalista, il contadino trasformato in proletario, il proprietario della manifattura, ecc.).
In tutto questo sommovimento, lo Stato (pur non essendo ancora il moderno Stato borghese, quello dei "facitori di plusvalore, fondiari e borghesi") esercita una funzione fondamentale, grazie ad una vera e propria legislazione sanguinaria.
Come definire questo processo che, limitatamente all'Inghilterra (a solo titolo d'esempio), comincia a delinearsi in maniera macroscopica fin dallo Statute of Laboures di Enrico III° (1349), prima di sfociare nella "glorious revolution (rivoluzione gloriosa) [la quale] portò al potere, con Guglielmo III° d'Orange, i facitori di plusvalore"? Cosa è avvenuto dunque durante questi 300 anni?
In questo capitolo sull'accumulazione originaria, Marx parla di una "rivoluzione avvenuta nei rapporti di produzione" (p.176). Una rivoluzione, dunque, che, a partire dalla sfera della produzione si estende alla circolazione, fino a rivoluzionare lo stesso diritto di proprietà; tale rivoluzione, che procede lungo una continuità temporale che va dal 1300 circa alla fine del XIX° secolo, impone - al fine di liberarsi dai vincoli del vecchio regime, per poter marciare con matura speditezza - una rottura, un punto di discontinuità. E tale punto di discontinuità non è altro che l'insurrezione (1648/49, passata alla storia col nome di glorious revolution) dei "facitori di plusvalore, fondiari e capitalisti" i quali, con la forza delle armi, distruggono il vecchio ordinamento statale per imporre il proprio Stato.
Tornando al nostro secolo, che cosa è successo nel 1917 in Russia?
Nell'ottobre di quell'anno, i comunisti organizzati nel partito bolscevico, abbattono il governo provvisorio di Kerensky e prendono il potere assieme ai socialrivoluzionari di sinistra (regolando poi i conti con questi l'anno seguente). Questo episodio della storia è ricordato come Rivoluzione d'Ottobre, la quale da avvio a quel processo che, con la fine della guerra civile nel 1920, vede il costituirsi ed il definitivo affermarsi dello Stato della dittatura rivoluzionaria del partito bolscevico.
La domanda è (ed è tutt'altro che banale): Se in ottobre c'è stata la rivoluzione, qual'era la situazione, poniamo l'esempio, esattamente un anno prima?
In realtà, l'"Ottobre 1917" è una insurrezione: un punto di discontinuità rivoluzionaria, interno al processo della rivoluzione e da questa imposto, al fine di portare se stessa a compimento. La capacità organizzativa, la volontà di lotta ed il senso di abnegazione, l'intelligenza di saper asseccondare - più che saper cogliere - questo punto di rottura (la famosa "settimana che Lenin non volle lasciar passare"), più che dettare la rivoluzione, sono da questa dettati.
"I compiti una rivoluzione li pone, non li riceve" (detta A.Bordiga in Le grandi questioni storiche della rivoluzione in Russia), e ciò significa che il "compito insurrezionale" è posto da un processo (la rivoluzione) che non è di mesi, bensì di anni. In poche parole: la "Rivoluzione d'Ottobre" non è che un episodio della rivoluzione.
Se è utile alla memoria, alla propaganda, se meglio serve a sintetizzare in una parola tutto il periodo storico ruotante attorno agli anni '20, non crollerà certamente il mondo se si usa il termine rivoluzione, purchè se ne abbia ben chiara la dimensione temporale, con le conseguenti implicazioni teoriche e politico-"pratiche" (qualora dalla rivoluzione si venga sospinti in avanti "a pedate").
E' noto come Marx ed Engels seguissero con estrema attenzione quanto stava accadendo all'interno della Russia, e non tanto perchè fosse "desiderabile" il crollo dell'impero zarista - considerato il baluardo europeo della controrivoluzione - quanto sopratutto perchè essi vedevano, all'interno degli sconvolgimenti in Russia, la possibilità dello sviluppo di "tutti gli elementi di un 1789 russo, seguito per necessità da un 1793" (da India, Cina,Russia, Il Saggatore 1970, p.298). E tutti questi elementi che porteranno alla rottura del febbraio-ottobre 1917, non sono altro che gli elementi del processo della rivoluzione che non comincia a marciare nel febbraio l917, ma, in maniera "ufficiale", fin dall'ottobre 1858, con la convocazione, da parte dello zar Alessandro II, di tutti i notabili e grandi proprietari fondiaria: la situazione esplosiva nelle campagne imponeva la riforma agraria e la liberazione dei servi. Marx, in una lettera ad Engels del 28.4.1858 (p.273), sottolinea come "difronte alla piega ottimistica del commercio mondiale in questo momento (...) è almeno consolante il fatto che in Russia sia cominciata la rivoluzione, giacchè io considero un primo inizio la convocazione dei <notabili> a Pietroburgo" (sott. n.). In Le condizioni sociali in Russia (Volksstaat, 16-18-21 aprile 1875), Engels ribadisce come siano "qui riuniti tutti i presupposti per una grande rivoluzione; una rivoluzione iniziata dalle classi superiori della capitale e forse dallo stesso governo, ma che sarà portata innanzi rapidamente e spinta al di là del suo primo stadio costituzionale, dalla classe contadina; una rivoluzione che avrà un'importanza enorme per tutta l'Europa" (p.295). "Le rivoluzioni - scrive Marx, il 27.7.1857 sul N.Y.D.T - devono ricevere il biglietto d'ingresso alla scena ufficiale dalle mani delle stesse classi dominanti" (p.368).
Lo Stato reazionario, autocratico, dispotico dei Romanov è tutt'altro che assente, innocente, in relazione dell'inizio di questa rivoluzione: alla convocazione del 1858, seguiranno le riforme del 1861-'64. Queste riforme volute da Alessandro II, porteranno alla miseria crescente enormi masse di contadini, seguito dallo sviluppo della proletarizzazione e concentrazione intorno alle industrie che si stanno sviluppando nelle città su una nascente base capitalistica.
E' la rivoluzione che è in marcia e che si sviluppa da Occidente a Oriente, come dirà il Merhing e come ripeterà Bordiga in Russia e rivoluzione nella teoria marxista (p.50-51).
E' lo stesso processo, con gli stessi invarianti, della "cosidetta accumulazione originaria": una rivoluzione che avviene nei rapporti di produzione, ma che, a differenza di quanto è accaduto per l'Inghilterra e per la Francia, si sviluppa, ora nella Russia, con la presenza di un proletariato europeo che sta prepotentemente prendendo consapevolezza della propria condizione e delle proprie potenzialità di classe rivoluzionaria.
Il Russia, dunque, non vi è solamente la possibilità che si ripeta un "1789" ed un "1793". In Russia si pone la possibilità che si realizzi una doppia rivoluzione, qualora si realizzi il legame fra il movimento della rivoluzione in questo enorme paese con il movimento della rivoluzione nel resto dell'Europa o, inizialmente, almeno in Germania. E' solamente nella prospettiva di una rivoluzione doppia che in Russia vi è la possibilità di saltare i momenti fondamentali della "legislazione sanguinaria" caratteristici della accumulazione originaria del capitale.
Al difuori del legame con la rivoluzione del proletariato in Europa, ogni appello all'"istintivo spirito comunitario" del contadino russo; ogni appello mistico al mir ed al ves mir, nonchè all'artel (quali basi di un futuro sviluppo "socialistico" in questo paese), ha la consistenza dell'aria calda, difronte all'incendio provocato dal sorgere del capitalismo che dissolve inesorabilmente tutti questi miserabili "universi" chiusi in se stessi (Si veda in proposito la stupenda sintesi di Engels contro Tkaciov: Le condizioni sociali in Russia, pp. 277-295).
La storia ha mostrato che questa saldatura non si è verificata, e non ha importanza passare qui in rassegna i meriti e demeriti "russi" ed i "demeriti" europei.
La rivoluzione in Russia dovette porsi dei problemi in assenza di un analogo movimento rivoluzionario in Europa. Dovette porseli e li pose ad un partito comunista in maniera eminentemente concreta. Le rivoluzioni si muovono su basi reali e non conoscono ideologie; sono i partiti - e le varie organizzazioni umane - che si danno delle ideologie e che, molto spesso, scambiano per fatti reali le idee che girano nella propria testa a proposito di questi fatti reali.
Il problema, per il partito comunista in Russia, consisteva nel rimanere ancorato non all'"idea della rivoluzione", ma al programma della rivoluzione dettato dalla rivoluzione stessa e sintetizzato da Marx e da Engels già nel secolo precedente. Ancorati ad un tale programma - in un paese nel quale, una sessantina d'anni prima, lo zar Alessandro II aveva concesso il "biglietto d'ingresso" all'accumulazione originaria del capitale; in un paese che aveva mostrato, nel febbraio 1917, l'inanità della borghesia a prendere nelle proprie mani la bandiera della stessa propria rivoluzione; in un paese che deve attendere l'ottobre 1917, affinchè si realizzi il "1793" intravisto da Marx -, in un tal sconfinato paese, per il partito comunista che domina lo Stato dei Soviet e che non può contare sull'aiuto di nessuno, il problema è duplice: l) assecondare e favorire nuovo impulso a quella rivoluzione cominciata circa sessant'anni prima e 2) resistere - in attesa della rivoluzione comunista "almeno in Germania" - difronte a quei "gruppi della società che riflettono la pressione di 100 milioni di contadini"(Preobrazenskij).
Quanto tempo sarà possibile resistere tenendo saldamente in mano il potere politico, senza snaturare la propria natura di partito comunista: 20 anni? 50 anni?