Ma veniamo veramente dall’Africa?
La questione se la nostra specie abbia o non abbia origini africane è solo apparentemente una questione scientifica e si lega fortemente a tematiche ideologiche. Occorre dire per prima cosa che i regimi sotto i quali abbiamo la ventura di vivere e che si auto-definiscono come democrazie, solo apparentemente sono il regno della libertà d’espressione, ma sono all’atto pratico caratterizzati dal dominio politico degli Stati Uniti sull’Europa, da quello economico dell’alta finanza internazionale, e da una serie di poteri che sono quanto rimane dell’infiltrazione sovietica nel mondo occidentale avvenuta ai tempi della Guerra Fredda, cioè i movimenti di sinistra, oggi riadattati in modo da essere funzionali agli interessi degli USA e del capitale finanziario internazionale. E’ necessario tenere presente questo scenario politico, perché dobbiamo sapere che quella che nel nostro mondo passa per ricerca scientifica, non è affatto neutra e basata sui fatti, ma risponde a precise esigenze ideologiche.
Quello che possiamo considerare lo stigma della mentalità di sinistra, è la negazione dell’importanza dell’eredità biologica dell’essere umano. Si vuole che noi stessi siamo solo il prodotto dell’ambiente, dell’apprendimento, della cultura, nell’illusione di poter costruire attraverso gli opportuni condizionamenti ambientali la società perfetta. Di passata, questo atteggiamento coincide perfettamente con quello del grande capitalismo finanziario internazionale che vuole che l’uomo sia una cera molle, malleabile a piacere, per farne semplicemente un ingranaggio del sistema consumistico. Un dato che va considerato con grande attenzione, ad esempio, è la scomunica (perché nella nostra epoca apparentemente libertaria esiste la scomunica per i dissidenti) subita postuma da Konrad Lorenz, forse l’ultimo grande scienziato della nostra epoca, accusato di razzismo (accusa che è come un coltello svizzero, buona per tutti gli usi), per aver sostenuto che “L’uomo è per natura un animale culturale”; cioè in altre parole che la contrapposizione fra natura e cultura di cui si pasce la mentalità di sinistra è un assurdo, perché è solo la sua natura, la sua base biologica che permette all’uomo di essere un produttore e fruitore di cultura, con l’implicito corollario che, non essendo la base genetica uguale in tutti gli uomini e in tutti i gruppi umani, non lo sarà nemmeno la loro capacità di farsi creatori e portatori di cultura.
Per disgrazia del capitalismo e delle sinistre che nel loro insieme formano la galassia “democratica”, da cento anni in qua si è sviluppata la scienza genetica e dall’inizio di questo secolo e di questo millennio, la tecnica per mappare e “leggere” il DNA.
Poiché non si può negare che la base genetica esista negli esseri umani come in tutti gli altri esseri viventi, dalle balene alle querce, ai batteri, allora occorre partire dal presupposto che in tutti noi sia sostanzialmente uguale, e che quindi in definitiva non abbia alcuna importanza. Il primo a muoversi in questa direzione è stato il genetista Richard Lewontin, sostenendo che poiché è possibile trovare un qualsiasi gene di quelli che costituiscono il DNA umano un po’ dappertutto, le razze umane non esistono. Si tratta di un ragionamento palesemente fallace, che non tiene conto né della frequenza relativa in cui i geni compaiono nelle diverse popolazioni, né della correlazione fra i diversi geni, infatti, in un organismo complesso quale il nostro, quasi nessun carattere è l’espressione di un singolo gene, ma di una costellazione di essi: in pratica il “metodo” di Lewontin è quello di non vedere la foresta considerando solo un albero alla volta. Nonostante le evidenti assurdità, la trovata di Lewontin è diventata presto “l’ortodossia scientifica” ufficiale, coincidendo troppo bene con gli interessi di un potere inteso a negare ogni identità etnica, biologica e storica. Caso strano, Richard Lewontin appartiene a un gruppo etnico-religioso che mentre predica per tutti gli altri la bontà dell’universale meticciato, per sé applica la più rigorosa endogamia e segregazione rispetto agli altri gruppi umani, lo stesso gruppo cui sono appartenuti altri celebri ciarlatani della pseudo-scienza democratica, quali Karl Marx, Sigmund Freud, Albert Einstein.
Dopo Lewontin si è mosso Craig Venter, un “ricercatore indipendente” dalle qualifiche scientifiche molto dubbie, che nel 2001 ha sostenuto di aver portato a termine la decifrazione del genoma umano, di aver analizzato il DNA di centinaia di persone provenienti da ogni angolo del mondo, e di aver scoperto che le differenze genetiche fra tutti loro (e quindi fra tutti noi) sono minori di quelle che esistono all’interno di una tribù di antropoidi di una quindicina di individui strettamente imparentati. La dimostrazione “scientifica” che tutti gli uomini sono fratelli. Troppo bello (per i canoni democratici) per essere vero, e difatti non lo era. Per prima cosa, non si era trattato di una decifrazione ma di una mappatura, cioè aveva visto in quale locus di quale cromosoma si trova un determinato gene, ma senza saper quale carattere esprima, in secondo luogo, fatto più importante, ha dovuto confessare di non aver sottoposto ad analisi altro DNA che il proprio. Ovvio che somigliasse a se stesso più di un parente stretto. In seguito, Venter ha dato un ulteriore colpo alla sua traballante credibilità sostenendo di aver creato la prima forma di vita interamente artificiale, e anche stavolta è stato presto sbugiardato, si trattava semplicemente di un batterio geneticamente modificato, non “vita artificiale” ma un “volgare” OGM.
Sono questi personaggi, ciarlatani di bassa lega, che hanno creato il concetto dell’inesistenza delle razze umane, che la democrazia ha subito assunto e tende a imporre come dogma. Io mi scuso di questa lunga digressione nella fase introduttiva del nostro discorso, ma è importante capire lo sfondo concettuale da cui nasce “la teoria” dell’Out of Africa, dell’origine africana della nostra specie, creata appunto allo scopo di rafforzare questo dogma traballante sulla base di considerazioni che di scientifico non hanno nulla. Detto nei termini più semplici possibile, l’uomo si sarebbe evoluto nel continente africano da un ceppo di ominidi locali, e si sarebbe diffuso nel resto del pianeta alcune decine di migliaia di anni fa. Noi stessi e le popolazioni asiatiche, saremmo in sostanza dei neri “sbiancati” (o “ingialliti”), dal punto di vista genetico presenteremmo una pressoché uniformità, e tutte le differenze fra gli esseri umani sarebbero riconducibili a fattori ambientali, il clima, la dieta o che so io.
Vi dico subito che la validità di questa “teoria” a mio parere può essere esattamente quantificata, ed è ZERO. Lo storico australiano Greg Jefferys ha rilevato: “Tutto il mito dell’Out of Africa ha le sue radici nella campagna accademica ufficiale negli anni ’90 intesa a rimuovere il concetto di razza. Quando mi sono laureato, tutti passavano un sacco di tempo sui fatti dell’Out of Africa ma sono stati totalmente smentiti dalla genetica. (Le pubblicazioni) a larga diffusione la mantengono ancora”. Si tratta, ci racconta Jefferys, di un costrutto ideologico “inteso a rimuovere il concetto di razza”, costruito a prescindere dai dati scientifici e dall’evidenza, ma è il caso di osservarla più da vicino.
Cominciamo con osservare una cosa di cui il grosso pubblico non è verosimilmente informato: esistono due versioni diverse dell’Out of Africa, la prima è dotata di una certa plausibilità scientifica, la seconda invece contrasta con una serie di fatti ben conosciuti, ma è quella a cui sono legate le implicazioni ideologiche che se ne sono volute trarre e per così dire, si nasconde dietro la prima per far passare queste ultime di contrabbando, approfittando del fatto che il grosso pubblico non distingue certo fra le due cose, è una classica operazione di escamotage o, se vogliamo, di gioco delle tre carte. La differenza fra l’Out of Africa I e l’Out of Africa II sembrerebbe di poco conto, invece è sostanziale, ed è proprio questo che la somiglianza terminologica serve a nascondere. La differenza fra le due teorie è che secondo la prima, l’uscita dall’Africa sarebbe avvenuta a livello di Homo erectus centinaia di migliaia di anni fa, mentre per la seconda questa uscita dal Continente Nero si sarebbe verificata qualche decina di migliaia di anni fa da parte di un Homo già sapiens. Sembrerebbe una differenza di poco conto, e invece è essenziale, perché, mentre la prima non ci dice nulla sulle differenze razziali, dal momento che riguarda il predecessore della nostra specie, la seconda serve a negare l’esistenza delle razze umane, fa parte dell’armamentario ideologico del dogmatismo dell’ortodossia democratica a questo riguardo, e la mancata distinzione delle due serve precisamente a nascondere i “buchi” e le contraddizioni della seconda dietro la plausibilità della prima.
Come se non bastasse, c’è un ulteriore assunto sottinteso a questo discorso, raramente esplicitato, e tuttavia essenziale perché l’Out of Africa II raggiunga il suo scopo, non scientifico ma ideologico, che non ci sia distinzione fra “africano” in senso geografico e “nero” in senso antropologico, un trucco dentro un trucco, potremmo dire, per dare a intendere un’immagine completamente falsa delle nostre origini. Al riguardo, basterebbe forse il semplice riconoscimento del fatto che l’uomo di Cro Magnon, che è considerato un po’ il prototipo dell’homo sapiens paleolitico, l’autore della raffinata cultura litica magdaleniana e delle stupende pitture murali di Altamira e Lascaux, non presenta nessuna caratteristica fisica che lo riconduca ai neri subsahariani, mentre appare invece strettamente affine al tipo caucasico.
Tuttavia, prima di andare ad esaminare quello che ha da raccontarci la genetica sulle nostre origini, sarà bene considerare un risvolto piuttosto interessante di tutta la faccenda. Secondo la versione che rappresenta l’ortodossia finta-scientifica della nostra storia, ortodossia imposta dal sistema mediatico e quello cosiddetto educativo, complici entrambi – ovviamente – del sistema di potere, la nostra specie si sarebbe formata in Africa non più di qualche decina di migliaia di anni fa, e da lì si sarebbe spinta a colonizzare tutto il pianeta, mantenendo una pressoché totale uniformità genetica. Questa è la tesi antirazzista, e notiamo subito che i concetti di razzismo e antirazzismo hanno subito uno spostamento concettuale che ne fa un esempio perfetto della neolingua descritta da George Orwell in 1984: manipolare il linguaggio per ridurre nella gente la capacità di pensare: “razzista” non è più chi afferma la superiorità di una razza sulle altre, ma chi semplicemente si accorge che le razze umane esistono. Vedi, o almeno non fai finta di non vedere che i cosiddetti immigrati che oggi ci invadono e che piacciono tanto alla sinistra e al clero, hanno una pelle più scura della tua, allora sei complice dei campi di sterminio. Questa concezione incontra subito una difficoltà. Circa – diciamo – centomila anni fa, il Vecchio Mondo era popolato da varie popolazioni umane che i paleoantropologi classificano variamente come pre-sapiens o sapiens arcaiche e, caso strano, le troviamo soprattutto in Europa. L’uomo di Neanderthal è l’esempio più noto, ma possiamo ricordare Swanscombe in Inghilterra, Steinheim in Germania, Petralona in Grecia, Ceprano e Monte Circeo in Italia. Che fine hanno fatto? Possiamo pensare che si siano graziosamente estinte di loro iniziativa per lasciare il posto al nuovo venuto africano? Dato che all’epoca non esistevano né marxismo né cristianesimo a rimbecillire la gente, la cosa non è certamente credibile. Certo, possiamo pensare che sia stato appunto il nuovo venuto africano a sterminarle, ma sicuramente ciò non fa fare una figura molto bella a una “teoria” creata apposta per indurci ad accettare pacificamente l’immigrazione e la sostituzione etnica.
Per uscire dall’impasse, qualcuno ha avuto un’idea che possiamo definire brillante, addirittura geniale. Come sappiamo, l’Indonesia che si trova nel cuore della “cintura di fuoco” dell’Oceano Pacifico è la regione più vulcanica al mondo. Nel nord dell’isola di Sumatra che è la maggiore dell’arcipelago indonesiano, si trova un lago, il lago Toba, che in realtà copre una vasta caldera vulcanica. Sembra che in un’epoca stimata fra i 70 e i 50.000 anni fa, questo vulcano abbia prodotto un’eruzione di portata molto ampia, maggiore di quella del Krakatoa avvenuta nel XIX secolo, al punto che ceneri vulcaniche prodotte da questa eruzione sarebbero state trovate, ad esempio in India. Ecco la risposta! I sostenitori dell’origine africana della nostra specie hanno ipotizzato che quest’eruzione avrebbe, disseminando enormi quantità di ceneri nell’atmosfera, provocato qualcosa di simile a un inverno nucleare che avrebbe portato all’estinzione tutti i gruppi umani allora esistenti, tranne un pugno di superstiti africani da cui tutti noi discenderemmo. Peccato solo che questa ipotesi sia, più che inconsistente, ridicola. E’ mai possibile che una catastrofe planetaria porti una specie – la nostra – sull’orlo dell’estinzione senza lasciare segni visibili sul resto della flora e della fauna?
Ma non basta: come dice il proverbio, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Qualche tempo dopo la formulazione di questa brillante ipotesi del vulcano Toba, sempre in Indonesia, nell’isola di Flores sono stati ritrovati i resti di alcuni piccoli uomini denominati Homo Floresiensis o più familiarmente hobbit come i personaggi del Signore degli anelli di Tolkien. Non si tratterebbe di sapiens ma di una forma nana (nanismo insulare) di erectus, quindi di origine molto antica, e sarebbero vissuti sulla loro isola che su scala planetaria si trova a un passo dall’epicentro della presunta catastrofe globale, fino a 20.000 anni fa, quindi fino a ben dopo 30-50.000 anni dopo quest’ultima che li ha lasciati indisturbati. Nel tentativo di salvare l’ipotesi del vulcano Toba e con essa l’Out of Africa, alcuni “scienziati antirazzisti” (chiamiamoli così, sebbene mi sembra quasi un ossimoro) sono giunti a ipotizzare che non si trattasse di erectus ma di sapiens affetti da sindrome di Down. Qui sono stati decisamente varcati i limiti del ridicolo: Un’intera popolazione di Down, e perché non di ciechi o di paraplegici? Cari piccoli hobbit, per dirla con Tolkien, che costituiscono la prova se non proprio vivente, perlomeno vissuta, della falsità dell’ipotesi del vulcano Toba e hanno dato un memorabile scrollone all’Out of Africa.
Ma è senz’altro venuto il momento di esaminare cosa ha da dirci a questo riguardo la genetica. Nel 2012, due genetisti russi, Anatole A. Klyosov e Igor L. Rozhanski hanno pubblicato l’articolo Re-Examing the “Out of Africa” Theory and the Origin of Europeoids (Caucasians) in the Light of DNA Genealogy. I due ricercatori hanno studiato gli aplogruppi (le varianti genetiche, possiamo dire semplificando) del cromosoma Y in un campione di più di 7.500 soggetti, africani e non africani, e da questo studio non è emersa nessuna prova della derivazione dall’Africa degli aplogruppi non africani. La cosa curiosa è che oggi sembra di assistere a una sorta di rinnovata Guerra Fredda a parti invertite. Laddove i ricercatori russi non sono oggi sottoposti a pressioni ideologiche di alcun tipo e sono liberi di lasciar semplicemente parlare i fatti, gli americani sono costretti a non mettere in discussione l’Out of Africa considerata una specie di supporto “scientifico” a quell’ideologia della political correctness ritenuta indispensabile alla sopravvivenza senza troppi conflitti di una società multietnica com’è quella statunitense.
Ora, caso strano, la genetica, piuttosto che un’uniformità pressoché totale della nostra specie, sembra rivelare un grado di differenziazione che corrisponde proprio alle differenze fenotipiche che si riscontrano tra un essere umano e l’altro, tra una popolazione e l’altra, che palesemente non sono se non in piccola parte il risultato di fattori ambientali, e se risaliamo indietro nel tempo alle decine di migliaia o alle centinaia di migliaia di anni fa, scopriamo che non tutti hanno gli stessi antenati.
A questo riguardo sono rilevanti i contributi della paleogenetica, lo studio dei DNA antichi, una scienza che ha avuto il suo padre fondatore nel biologo svedese Svante Paabo, e insignito nel 1992 del premio Leibniz della Deutsche Forschung Gemeinschaft (la massima onorificenza scientifica tedesca), Ciò che è emerso in questi anni grazie a questa disciplina è davvero notevole. Per prima cosa, si è scoperto che devono essere avvenuti nel corso del tempo diversi incroci, incroci fertili fra le diverse sottospecie umane. Noi europei e gli asiatici, ma non i neri africani, condividiamo fino al 4% di geni dell’uomo di neanderthal nel nostro patrimonio genetico.
Noi dobbiamo essere consapevoli del fatto che questo antico uomo la cui eredità continua a vivere in noi, l’abbiamo gravemente sottovalutato, e alcune scoperte recenti lo pongono in una luce molto diversa da come eravamo abituati a considerarlo. C’è fra le scoperte più recenti a tale proposito, quella che può essere considerata la più antica struttura architettonica conosciuta al mondo: il doppio cerchio di stalagmiti che gli uomini di Neanderthal avrebbero realizzato nella grotta francese di Bruniquel: un lavoro che ha richiesto coordinazione e certamente una notevole abilità, lavorando a centinaia di metri sotto terra, e le cui finalità non sembrano essere state di natura pratica, ma di culto. Questi nostri predecessori avevano probabilmente un mondo interiore e spirituale non meno ricco del nostro.
Come se ciò non bastasse, questi uomini avevano una buona conoscenza del mondo che li circondava, al punto che la si potrebbe definire scientifica, con conoscenze che i loro discendenti hanno riscoperto solo molte decine di millenni più tardi, ad esempio una buona conoscenza delle piante officinali e della farmacopea. E’ quanto è emerso da una ricerca condotta in tempi recenti dall’Australian Centre for Ancient DNA (ACAD) dell’università di Adelaide in collaborazione con l’università inglese di Liverpool. In particolare, studiando i resti di un uomo di Neanderthal ritrovati a El Sidron in Spagna, si è visto che la sua placca dentaria conservava tracce dell’uso di corteccia di salice (che contiene l’acido salicidico, il principio attivo dell’aspirina) e di muffa del genere penicillum (da cui si ricava la penicillina). L’uomo soffriva di un ascesso dentario e di un parassita intestinale, però gli antidolorifici e gli antibiotici, cioè le armi di punta della farmacopea odierna, erano già noti alla comunità di cui faceva parte.
Viene da pensare che questo nostro antenato, e certamente lo era, prima di passare il testimone all’uomo di Cro Magnon, avesse già imboccato la via destinata a giungere alla fine alla civiltà, ed è fortissima la tentazione di correlare il fatto che i neri subsahariani non abbiamo mai fatto alcun passo verso di essa, con la mancanza in questi ultimi della sua impronta genetica.
I resti di un’altra sottospecie umana diversa sia dall’uomo di Neanderthal sia da quello di Cro Magnon sono stati poi ritrovati nella grotta di Denisova nell’Altai. Sebbene i resti per ora conosciuti dell’uomo di Denisova siano molto scarsi, sembra aver lasciato una traccia genetica notevole nelle popolazioni umane attuali: fino al 6% del patrimonio genetico di asiatici e australoidi, ma in alcune popolazioni, come i Melanesiani che presentano una spiccata diversità genetica rispetto ad altri tipi umani, questa proporzione, sembrerebbero indicare alcune ricerche successive, potrebbe essere molto più alta.
Ancora non basta, perché i ricercatori dell’IBE, l’Istituto di Biologia Evolutiva di Barcellona, studiando il patrimonio genetico dei nativi delle isole Adamane, avrebbero trovato l’impronta genetica di un quarto uomo, né Cro Magnon, né neanderthaliano né denisoviano di cui non ci sono per ora evidenze fossili (è la prima delle due “specie fantasma” di cui ci dobbiamo occupare, l’altra, come vedremo, è quella africana. Ma procediamo con ordine, questo lo vedremo più avanti). In Italia e in lingua italiana, la notizia è stata riportata da un articolo apparso sul sito ecologista “Greenreport” (Greenreport: economia ecologica e sviluppo sostenibile), Scoperto un nuovo misterioso antenato degli esseri umani moderni, di data 26 luglio 2016.
Tutto ciò ha spinto alcuni esaltatori (ed esaltati) del suprematismo africano – tutti rigorosamente di sinistra – a dichiarazioni dal forte sapore razzista, e se ne trovano con facilità scartabellando in internet, a inneggiare al “puro sapiens” africano in confronto a noi, poveri ibridi di Neanderthal e di Denisova. Questo ci porta a contatto con una realtà di cui ci si ostina a negare l’esistenza, sebbene se ne assista spesso a dimostrazioni plateali, il razzismo di sinistra, razzismo plateale e delirante quanto altri mai, espressione di un autentico masochismo etnico che va a colpire i propri connazionali. Si tratta di individui che manifestano un fondamentale disprezzo per i propri connazionali e in generale per chi ha la ventura di essere nato da genitori della stessa etnia e di continuare a vivere negli stessi luoghi in cui i suoi genitori sono nati. Veramente, quando costoro accusano di razzismo i difensori dell’identità etnica, ricordano in maniera impressionante la storiella del bue che dà del cornuto all’asino.
Sono ovviamente le stesse persone che cercano di venderci i cosiddetti migranti come risorse – il che è come esporre l’immondizia nelle vetrine dei gioiellieri – e naturalmente non tengono conto del fatto che questi “puri” africani hanno un quoziente intellettivo medio di trenta punti inferiore a quello di europei e asiatici, il che li pone al limite del ritardo mentale, che hanno una propensione ai reati violenti cinque volte superiore, e dieci volte superiore agli stupri.
Tutto questo ovviamente non sarebbe ancora nulla se non vedessimo continuamente il razzismo di sinistra (e della Chiesa cattolica) tradursi nella pratica, una pratica vergognosa di discriminazione nei confronti dei nostri connazionali che si vedono continuamente anteposti i nuovi arrivati nell’accesso alle case popolari, agli asili nido, alle scuole materne, alle facoltà universitarie, ai posti di lavoro, e via dicendo, sembra quasi che alla nostra gente di stirpe caucasica sia consentito di esistere ancora al solo scopo di mantenere questi individui perlopiù nullafacenti o intenti a riprodursi come roditori.
Di nuovo, la ricerca scientifica ha smentito in modo clamoroso questi esaltatori dell’africanità. Il 2 agosto 2012 “Le scienze” ha pubblicato un articolo a firma di Gary Stix, In Africa i primi umani moderni si incrociarono con altre specie, che è un’intervista con Sarah Tishkoff, una ricercatrice che l’articolista definisce “una star della genetica delle popolazioni”. La Tishkoff riferisce i risultati di uno studio genetico condotto su tre popolazioni di cacciatori-raccoglitori africani, e i risultati sono sorprendenti: per prima cosa, nel genoma di queste popolazioni non è stata trovata nessuna traccia di DNA risalente all’uomo di Neanderthal o a quello di Denisova, in compenso però:
“Abbiamo visto molti dati che testimoniano incroci con un ominide che si è separato da un antenato comune circa 1,2 milioni di anni fa”. Di questo ominide che si sarebbe re-incrociato con le popolazioni africane, per ora abbiamo le tracce nel genoma dei suoi discendenti odierni, ma non evidenze fossili. E’ ovvio che l’assenza della traccia genetica di questo ominide nel DNA delle popolazioni europee e asiatiche rende ancora meno credibile la loro presunta origine africana.
Tuttavia, come se ciò non bastasse, la constatazione che il “puro” nero africano ben lungo dal rappresentare il modello archetipo della nostra specie, è non meno ibrido di quanto lo siamo noi, nel 2017 è stata ampliata da una nuova scoperta che riguarda non i fossili, di cui per ora non abbiamo evidenze, ma la genetica (sebbene questo registro del nostro passato che portiamo in noi stessi sia ancor più conclusivo e probante), o meglio ancora in questo caso lo studio delle proteine, che sono l’espressione diretta della base genetica (una proteina è composta di aminoacidi, e ogni aminoacido è codificato in maniera univoca da una tripletta di basi accoppiate del DNA).
In questo caso si tratta di una ricerca dell’Università di Buffalo che è stata pubblicata su “Molecular Biology and Evolution” in data 21 luglio, gli autori sono il biologo Omer Gokcumen dell’Università di Buffalo e Stefan Ruhl, docente di biologia orale alla Scuola di Medicina Dentale. La ricerca e il suo interessante esito sono stati ripresi e commentati su diversi siti on line, in particolare phys.org.news del 21 luglio 2017 con il titolo In saliva, clues to a ‘ghost’ species of ancient human e da “Paleoanthropology” del 22 luglio in un articolo intitolato Gene Study Suggests Homo sapiens Migrated into Africa, Not Out of the Continent – Interbreeding with Local Hominins 150,000 Years Ago, a firma di Bruce R. Fenton. Una versione alquanto sintetica dello stesso articolo, limando i punti più “scottanti” è apparsa in lingua italiana su “Le scienze” del 24 luglio.
A prima vista, l’articolo sembrerebbe semplicemente una conferma di quel che la ricerca di Sarah Tishkoff aveva già evidenziato, ma in effetti ci dice molto di più. I due biologi hanno studiato una proteina, una mucina, la MUC7, presente nella saliva umana, sono risaliti ai geni che la codificano, e hanno scoperto che essa si presenta nei neri subsahariani e i geni che la codificano si presentano in una forma diversa rispetto agli altri gruppi umani, viventi ed estinti, caucasici, asiatici, ma anche gli uomini di Neanderthal e di Denisova. Per questi ultimi, ovviamente, non si è potuta esaminare la saliva, ma solo le sequenze di DNA ricavate dalle ossa.
La conclusione a cui i due ricercatori sono giunti, è che questa proteina deve essere l’eredità di un antenato esclusivamente africano, un homo arcaico o un ominide con cui i sapiens antenati dei neri subsahariani si sarebbero re-incrociati. Fino a questo punto, come si vede la conclusione a cui i due ricercatori sono giunti, è semplicemente una conferma di quanto emerso dalle ricerche di Sarah Tishkoff, ma i nostri ricercatori si spingono alquanto più in là, innanzi tutto, l’assenza assoluta presso qualsiasi altra popolazione al mondo della variante “africana” di questa proteina mette seriamente in dubbio che le popolazioni sapiens sparse per il mondo possano essere derivate da antenati africani, perché in questo caso essa sarebbe dovuta essere presente anche altrove, sia pure in proporzioni minoritarie. E’ di gran lunga più verosimile, sostengono gli autori, che homo sapiens sia nato in Eurasia e da qui abbia colonizzato l’Africa incontrandosi e incrociandosi con questo antico homo od ominide che, con un tocco di poesia, gli autori definiscono “specie fantasma” (“Ghost Species”) per l’assenza di riscontri fossili (non è verosimilmente la sola “specie fantasma”, la stessa cosa si può dire del “nonno” degli isolani delle Andamane le cui tracce i ricercatori spagnoli dell’IBE di Barcellona avrebbero scoperto nel DNA dei suoi discendenti, ma di cui non abbiamo evidenze fossili). Omer Gokcumen e Stefan Ruhl hanno il coraggio di affermarlo esplicitamente: homo sapiens è nato in Eurasia, e ha colonizzato l’Africa attorno a 150.000 anni fa (i 70.000 anni che ci concede “la teoria” del Toba sono veramente troppo pochi), con un movimento che è il contrario di quello che viene solitamente descritto.
A questo punto sembra che si sia innescato un effetto domino, perché qualcuno ha rintracciato un articolo già apparso su “Scientific american” in data 8 agosto 2007, e che non mi risulta fosse finora apparso su “Le Scienze” che è la versione italiana di questa pubblicazione, né altrove nella nostra lingua (ma su questo punto mi posso sbagliare). E tuttavia la cosa non è sorprendente, perché il sistema mediatico è “stranamente” riluttante nel far circolare informazioni che contraddicono l’ortodossia sedicente scientifica che ci viene “democraticamente” imposta.
In questo articolo a firma di Nikhil Swaminathan dell’8 agosto 2007: Is the Out of Africa Theory out? (ricordiamo che l’inglese “out” andrebbe in questo caso tradotto come “fuori causa”, “fuori combattimento”), l’autore riferisce di una ricerca condotta da Maria Matinòn-Torres, paleobiologa del Centro Nazionale di Ricerca sull’Evoluzione Umana di Burgos (Spagna), che ha studiato la conformazione di ben 5000 denti di esseri umani moderni e preistorici, concentrandosi in particolare sulla conformazione delle corone dentarie, che non è influenzata dall’ambiente, ma è praticamente il riflesso del genotipo di una persona. Questo ha permesso di ricostruire una sorta di albero genealogico delle popolazioni attuali, che ne porrebbe l’origine non in Africa ma in Eurasia.
E’ come se con la ricerca dei due biologi dell’Università di Buffalo fosse saltato un tappo. D’improvviso sono comparse altre ricerche e teorie che mettono i sostenitori dell’Out of Africa in una posizione sempre più imbarazzante. E’ saltata fuori un’ipotesi formulata nel 2016 da Úlfur Árnason, neuroscienziato presso l’Università di Lund in Svezia, e questo ricercatore ha fatto un’osservazione sconcertante nella sua semplicità e ovvietà, un bellissimo uovo di Colombo di quelli che spingono a chiedersi come nessuno ci sia mai arrivato prima: delle tre sottospecie umane che hanno preceduto l’umanità moderna: Cro Magnon, Neanderthal e Denisova, in Africa non si trova alcuna traccia né di neanderthaliani né di denisoviani, né allo stato fossile né nel DNA delle popolazioni “nere”. La tripartizione-Cro Magnon-Neanderthal-Denisova deve quindi essere avvenuta in Eurasia, e con questa tripartizione l’origine della nostra specie che Árnason pone attorno ai 500.000 anni or sono. Ottimo, verrebbe da dire, goal e palla al centro.
Se noi andiamo a scorrere il grande oracolo dei nostri tempi, cioè Wikipedia, scopriamo che a suo dire l’ipotesi dell’Out of Eurasia, dell’origine eurasiatica della nostra specie, un tempo popolare fra i ricercatori, sarebbe stata progressivamente abbandonata dalla maggior parte di essi a favore dell’Out of Africa, in particolare nella versione II che suppone la nostra specie uscita dal grembo africano non prima di 200.000 anni fa (ma in alcuni casi si suppone anche molto più tardi), con l’eccezione dei paleoantropologi cinesi che ne sostengono l’origine asiatica per motivi nazionalistici. Ora, se settant’anni di democrazia postbellica non hanno fatto del tutto abbandonare l’antico costume di attenersi ai fatti, dovrebbe verificarsi il fenomeno contrario e l’ipotesi eurasiatica tornare a prevalere su quella africana, ma non è detto che sia così, perché le motivazioni ideologiche di quest’ultima sono forti a dispetto della realtà delle cose. Se la partita si giocasse sul terreno dei fatti e delle conoscenze, noi potremmo invece dire che “la teoria” dell’Out of Africa sarebbe giunta al capolinea, e potremmo osservare, non senza una particolare soddisfazione che la pietra tombale su di essa dovrebbe venire proprio dal lavoro di una ricercatrice italiana.
A ottobre 2017, il sito “Classic Cult” (cult.it - Diese Website steht zum Verkauf! - Informationen zum Thema cult. ) ha pubblicato un articolo: Due acheuleani, due specie umane che presenta il lavoro di Margherita Mussi del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università La Sapienza di Roma, direttrice delle ricerche archeologiche a Melka Kunture in Etiopia, articolo che peraltro sintetizza un testo già apparso sul “Journal of anthropological Sciences”. L’acheuleano è l’industria litica che si ritiene generalmente associata all’homo erectus, e copre un periodo temporalmente molto ampio che va da 1,8 milioni fino a 100.000 anni fa. Ebbene, proprio studiando gli strumenti acheuleani etiopi, Margherita Mussi è giunta alla conclusione che esistono due acheuleani diversi, quello africano e quello eurasiatico, ma occorre tenere presente che fino alla comparsa di sapiens l’evoluzione degli strumenti litici è andata di pari passo con quella del cervello, c’è un legame strettissimo tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. Questo porta a una conclusione ovvia quanto imbarazzante per alcuni: fino al Paleolitico superiore sarebbero esistite due umanità, mentre in Africa l’homo erectus sarebbe rimasto pressoché immutato, in Eurasia si sarebbe evoluto nel più avanzato heidelbergensis da cui sarebbe poi nato sapiens. Combinando questa ipotesi con quella avanzata dai ricercatori dell’università di Buffalo, tutto diventa più chiaro: la “specie fantasma” da cui i neri subsahariani avrebbero ereditato la loro variante della proteina MUC7, altro non sarebbe stata che il “vecchio” Homo erectus con cui i sapiens giunti in Africa dall’Eurasia si sarebbero incrociati.
A questo punto, che la nostra specie, homo sapiens, non sia nata in Africa mi pare del tutto evidente, tuttavia sappiamo fin troppo bene che la realtà dei fatti importa ben poco a un sistema mediatico ed educativo strettamente legato al sistema di potere, e che si preoccupa in primo luogo di diffondere le falsità che fanno comodo all’ortodossia sedicente democratica, cioè al potere stesso. Ne abbiamo un esempio estremamente chiaro con la questione delle origini della civiltà. Ci sono prove quante se ne vuole che la civiltà ha avuto origine in Europa e non in Medio Oriente: dai grandi complessi megalitici (Stonehenge in Inghilterra, Newgrange in Irlanda, Carnac in Bretagna, Externsteine e Gosek in Germania, i complessi nuragici in Sardegna, i templi dell’isola di Malta) di almeno un millennio più antichi delle piramidi egizie e delle ziggurat babilonesi (ma Gosek in Germania sembra essere molto più antico) alla scoperta dei metalli (il più antico attrezzo metallico conosciuto è l’ascia di rame dell’uomo del Similaun), a quella della scrittura (i pittogrammi delle cosiddette tavolette di Tartaria appartenenti alla cultura Vinca dell’area danubiana sono di un buon millennio più antichi dei più antichi pittogrammi sumerici) all’allevamento di animali (la tolleranza al lattosio in età adulta, conseguenza dell’antichità dell’adattamento al consumo di latte vaccino, è massima nell’Europa centro-settentrionale, e decresce man mano che ci si sposta verso l’est e il sud).
Tutte cose ben note da lungo tempo, ma ciò non impedisce che si continui ad ammannire la favola della Mezzaluna Fertile nei libri e nei programmi divulgativi, ma anche in tutti i testi dalle elementari all’università. Vogliamo scherzare? Far trapelare qualcosa che possa ridare agli Europei l’orgoglio delle loro origini quando si vuole che si rassegnino passivamente alla sostituzione etnica! Come la favola dell’origine mediorientale della civiltà, è probabile che anche quella dell’Out of Africa rimanga ugualmente in circolazione nonostante le evidenze contrarie, ma noi sappiamo che appunto si tratta di favole e di null’altro.
L’arte della menzogna efficace richiede una tecnica complessa: da un lato essa deve appoggiarsi a qualcosa di vero o almeno credibile, dall’altro gli aspetti più palesemente falsi, che possono essere facilmente contraddetti, devono essere oggetto di allusioni, sottintesi, dati per scontati, senza essere mai affermati esplicitamente. Il gioco delle tre carte out of africano funziona proprio in questo modo. Da un lato esso si appoggia alla “teoria” certamente più credibile dell’Out of Africa I, considerando che il grosso pubblico non baderà troppo alla distinzione fra le due teorie omonime che, come abbiamo visto, hanno nella realtà dei fatti un significato molto differente, dall’altro lascia a intendere, senza mai affermarlo esplicitamente, che “veniamo dai neri” e perciò le razze umane non esistono. Quest’ultimo aspetto dell’Out of Africa è quello che conta davvero, perché senza di esso non si capirebbe la rilevanza ideologica di questa presunta teoria sulle nostre origini, ebbene esso non è mai affermato esplicitamente da nessun ricercatore perché potrebbe essere facilmente smentito, ricorre tuttavia spesso nei media divulgativi, benché sia una smaccata falsità: l’uomo di Cro Magnon, l’uomo del Paleolitico superiore la cui eredità vive in tutti noi, l’autore della colonizzazione di tutto il Vecchio Mondo, l’artista delle splendide pitture parietali di Altamira e Lascaux, era innegabilmente vicino al ceppo caucasico e non presentava caratteristiche né subsahariane né mongoliche di sorta, le une e le altre appaiono relativamente tardi nella documentazione fossile e, come abbiamo visto, sono il risultato vuoi dell’ibridazione con ceppi collaterali della nostra storia biologica, l’uomo di Denisova e il vecchio erectus africano, vuoi dell’adattamento a condizioni ambientali particolari. In sostanza viene introdotta la premessa implicita e assolutamente fallace che “africano” in senso geografico debba essere la stessa cosa che “nero” in senso antropologico. E’ una vera presa per i fondelli, e si potrebbe citare un lungo esempio di personaggi nati su suolo africano che di nero non avevano nulla: Cleopatra, Giuseppe Ungaretti, John R. R. Tolkien, Christian Barnard per citarne alcuni.
E non manchiamo di notare lo slittamento di significato da lessico orwelliano che hanno avuto i termini “razzismo” e “antirazzismo”, secondo i canoni della neolingua immaginata da George Orwell in 1984, creata apposta per impedire alla gente di pensare: “razzismo” non significa più l’affermazione della superiorità di una razza sulle altre, ma il fatto di accorgersi che le razze umane esistono. Ti accorgi, vedi o almeno non fai finta di non vedere che i clandestini che ONG, scafisti e organizzazioni malavitose riversano in abbondanza sulle nostre coste sono di pelle più scura della tua, e allora sei un complice dei campi di sterminio.
Come abbiamo visto, il gioco delle tre carte out of africano si basa sull’omonimia delle due teorie Out of Africa I e II; la prima postula l’uscita dall’Africa di un homo erectus attorno al mezzo milione di anni fa, la seconda di un homo sapiens nostro presunto antenato diretto qualche centinaio o qualche decina di migliaia di anni fa, da un massimo di 200.000 a un minimo di 50.000 anni or sono. Non è la stessa cosa, soprattutto in ordine alla differenziazione dell’umanità in razze.
Bene, qui arriva il colpo di scena, perché anche l’Out of Africa I non è per nulla così plausibile come si riteneva un tempo. Il suo assunto di base è molto semplice, assume la forma del sillogismo lineare: homo deriva dagli ominidi, gli ominidi sono africani, dunque il genere homo (distinto nella specie erectus e in quella sapiens cui apparteniamo, più altre forme di tassonomia incerta come heidelbergensis) deve essersi formato in Africa.
Per essere chiari, gli ominidi sarebbero stati creature intermedie fra la scimmia antropomorfa e l’uomo. Rispetto alle antropomorfe sarebbero stati caratterizzati da un adattamento alla vita terricola invece che sugli alberi, dalla stazione eretta che lasciava le mani libere per manipolare l’ambiente, dalla mancanza del grande canino tipico dei maschi delle scimmie antropomorfe e da un’arcata dentaria tondeggiante di un modello che anticipa quello umano, invece che “a scatola”. La differenza nella dentatura indicherebbe, più che una diversità nella dieta, un diverso modello di organizzazione sociale, dominanza sessuale nei maschi, e la sua assenza negli ominidi testimonierebbe un’organizzazione sociale a nuclei familiari invece che ad harem. Bene, come ci hanno insegnato quando eravamo studenti, la validità di un sillogismo dipende dalla validità delle premesse, e sembra che sull’africanità degli ominidi oggi si possano avanzare seri dubbi.
Agli inizi del 2017, una scoperta ha fatto discutere molto, quella dei resti di un ominide risalente alla bellezza di 7,2 milioni di anni fa, non in Africa, ma nella Penisola balcanica e precisamente in Grecia, a cui è stato dato il nome di Graecopithecus Freybergi o, più confidenzialmente, “El Greco”. E’ chiaro che nel momento in cui si cominciano a trovare resti ominidi fuori dall’Africa tutto l’impianto della “teoria” Out-of-africana – la cui reale importanza non è scientifica ma ideologica – rischia di crollare miseramente. Questo spiega probabilmente perché questa scoperta a suscitato reazioni isteriche in taluni ambienti, reazioni isteriche di cui è un buon esempio l’articolo a firma di tale “Kirk” (mai che questa gente si firmi coi loro veri nomi) apparso su Ethnopedia. Nemmeno che accanto alle ossa di “El Greco” fosse stata rinvenuta una tessera fossile del PNF o del NSDAP!
Diciamo pure che tanto accanimento è fatica sprecata, perché “El Greco” non è il primo ominide i cui resti sono stati scoperti fuori dall’Africa. Sono da tempo noti i resti di un ominide indiano, inizialmente classificati come due specie distinte, Sivapithecus e Ramapithecus (dal nome di due divinità del pantheon induista) e poi riconosciuti come appartenenti ad un’unica specie, ma resti ominidi sono noti da tempo anche in Europa. In Italia, nell’area centrale della nostra Penisola sono emersi più volte i resti di una creatura nota come Orepiteco, Oreopithecus Bambolensis, il cui primo esemplare ritrovato fu estratto da una cava di lignite a Monte Bamboli in Toscana. Questa creatura è stata classificata come scimmia antropomorfa, ma presenta proprio quelle stessa caratteristiche che hanno permesso di identificare in Lucy e negli altri ominidi africani dei precursori dell’umanità: stazione eretta, canini piccoli, arcata dentaria tondeggiante.
Potremmo rievocare una vicenda davvero incredibile: il ritrovamento a Savona durante dei lavori di sbancamento, dei resti di una creatura umana o ominide in uno strato di arenaria risalente a due milioni di anni fa, i cui resti sono andati “stranamente” dispersi prima che si compisse alcun serio studio su di essi.
Nel 1983 era stata data la notizia del ritrovamento in Sicilia di resti di australopiteco, poi stranamente anche di questo fossile non si è più parlato, è letteralmente scomparso. E’ vero che la Sicilia è la più meridionale e la più vicina all’Africa delle regioni italiane, ma siamo un bel po’ lontani dalla zona subsahariana e dalla Rift Valley dove sarebbero vissuti Lucy e gli ominidi suoi congeneri. Per la cronaca, un ampio servizio sull’Australopiteco Siculo fu pubblicato da “L’Espresso” che, come tutti sanno, è un periodico di estrema, estremissima destra.
Il 2017 è stato letteralmente l’anno delle sorprese: come se non fossero bastati la scoperta di El Greco, le ricerche dei biologi dell’Università di Buffalo sulla proteina MUC7 e la scoperta di Margherita Mussi sui due acheuleani, c’è da segnalare il rinvenimento nell’isola di Creta di una serie di impronte fossili di aspetto umano, risalenti a 5,7 milioni di anni fa.
Nella stessa direzione va una scoperta di cui abbiamo recentemente avuto notizia dalla Germania, anche se è riportata da un quotidiano inglese, “The Independent” del 21 ottobre 2017, il ritrovamento vicino a Francoforte di alcuni denti fossili ominidi, risalenti a poco meno di nove milioni di anni fa.
Infine, come se tutto ciò ancora non bastasse, sul sito “Il Timone” recentemente è apparsa una notizia davvero sorprendente: un team anatomisti fra cui lo studioso di fama mondiale lord Solly Zuckerman, ha riesaminato le ossa della famosa Lucy, ed è giunto alla conclusione (che costituisce anche il titolo dell’articolo), che: L’australopiteco Lucy era una scimmia e non c’entra nulla con l’uomo. Sale sulla ferita, coltello rivoltato nella piaga, che si fa sempre più purulenta, dei sostenitori dell’Out of Africa.
La mia personale idea è che un ruolo di fondamentale importanza l’abbiano giocato le variazioni stagionali che caratterizzano il nostro continente. Il fatto di passare regolarmente da periodi di clima confortevole e abbondanza di risorse a quelli invernali caratterizzati invece da penuria alimentare e dalla necessità di ripararsi dalle intemperie, ha favorito lo sviluppo della preveggenza, della capacità di pianificare la propria vita su tempi lunghi. Quando si poteva parlare liberamente di queste cose prima che l’ortodossia democratica mettesse al bando la possibilità stessa di sollevare simili questioni (che poi non solo questioni ma dati di fatto), era osservazione comune di chiunque avesse avuto modo di osservare da vicino le differenze di comportamento legate alla razza, che il bianco vive pensando ai prossimi decenni, mentre il nero vive pensando alle prossime ore.
Non è probabilmente un caso che il più antico segno di misurazione del tempo giunto fino a noi lo ritroviamo sul suolo europeo, precisamente in Scozia a Warren Fields, dove sono state trovate le tracce di un calendario lunare di età mesolitica (si veda Le altre Stonehenge, seconda parte), più antico di ben cinquemila anni dei più antichi analoghi calendari mediorientali. Età mesolitica significa un’epoca già agricola, e per un agricoltore conoscere il ritmo delle stagioni è fondamentale, ma prima che per lui lo era anche per un cacciatore che vivesse là dove la disponibilità di selvaggina era soggetta a forti fluttuazioni legate alle variazioni stagionali a differenza di quel che avveniva e avviene in Africa.
Un’altra profonda differenza le cui origini vanno con ogni probabilità ricercate nella diversità dell’ambiente europeo rispetto a quello africano, è l’atteggiamento nei confronti della prole. Le statistiche che abbiamo soprattutto provenienti dagli Stati Uniti (e ricordiamo che gli afroamericani non sono neri puri) sono impressionanti. I tassi di separazioni, abbandoni del tetto coniugale e via dicendo, sono altissimi, si può dire che il maschio di colore tende a non occuparsi per nulla dei figli, ricalcando in pieno, nonostante le differenze ambientali fra USA e Africa al disotto del Sahara, lo stesso atteggiamento dei propri antenati africani che lasciavano esclusivamente alle donne la cura della prole. Per quanto riguarda l’Africa, è interessante rilevare il fatto che le agenzie di microcredito che cercano di promuovere iniziative che la sollevino dalla povertà endemica, fanno i loro prestiti esclusivamente a donne, ben sapendo che gli uomini non farebbero altro che sperperarli. L’atteggiamento del maschio di colore, al riguardo, ricalca puntualmente quello degli antropoidi che affidano le loro possibilità di trasmettere i loro geni a una discendenza, non alla cura dei propri figli, ma cercando di ingravidare più femmine possibile.
Preveggenza, responsabilità, preoccupazione per il futuro, cura ed educazione dei propri figli. Questi sono frutti germogliati sul suolo europeo, sono le basi che hanno permesso all’Europa di essere la madre della civiltà umana (qui il discorso si collega a un’altra tematica che ho ampiamente trattato, la nascita della civiltà non in Medio Oriente come mente la maggior parte dei testi “di storia”, ma sul suolo europeo).
Noi siamo figli dell’Europa in ogni senso, su questo non si possono nutrire dubbi, e credo che la migliore affermazione di ciò ce l’abbia data non uno scienziato ma un combattente, un uomo che si è volontariamente immolato per denunciare con la sua morte lo spaventoso delitto che il potere mondialista sta commettendo contro i popoli europei, provocando la loro estinzione attraverso il declino demografico imposto, l’immigrazione allogena e il meticciato, Dominique Venner, questo samurai della causa europea, le cui parole meritano una particolare reverenza, proprio perché suggellate con il sangue e il supremo sacrificio:
“Io sono figlio della terra degli alberi e delle foreste, delle querce e dei cinghiali, delle vigne e dei tetti spioventi, delle epopee e delle fiabe, del Solstizio d’inverno e di San Giovanni d’estate…Il santuario in cui vado a raccogliermi è la foresta profonda e misteriosa delle mie origini. Il mio libro sacro è l’Iliade così come l’Odissea, poemi fondatori e rivelatori dell’anima europea.
Questi poemi attingono alle stesse fonti delle leggende celtiche e germaniche, di cui manifestano la spiritualità implicita. Del resto non tiro affatto una riga sui secoli cristiani. La cattedrale di Chartres fa parte del mio universo allo stesso titolo di Stonehenge o del Partenone. Questa è l’eredità che occorre assumere. La storia degli Europei non è semplice. Essa è scandita di rotture al di là delle quali ci è dato di ritrovare la nostra memoria le la continuità della nostra Tradizione primordiale”.
Ma veniamo veramente dall'Africa?, terza parte ? Fabio Calabrese - EreticaMente - EreticaMente