Il babau del terrorismo nasconde un’economia globale che è la fonte della rabbia popolare

Di Mauro Bottarelli , il 18 luglio 2016 10 Comment




Sono sincero: quanto accaduto in Turchia mi ha spiazzato, voglio vedere come evolve la questione siriana prima di esprimermi al riguardo, visto che sarà l’atteggiamento di Ankara verso Damasco, a mio modesto avviso, a dirci chi ha vinto e chi ha perso. E, soprattutto, chi ha sobillato. E mentre il mondo pare impazzito, dietro le quinte succedono cose che passano sotto silenzio. Ma che, al netto del pericolo reale che una strisciante islamizzazione dei cittadini musulmani di Europa e Usa rappresenta per l’Occidente, ci spiegano il perché di questa rabbia cieca che sembra esplodere ovunque.
Partiamo da questi grafici,


i quali ci spiegano meglio di mille trattati sociologici da dove nasce la rabbia della ex middle class bianca statunitense, la stessa che sostiene Donald Trump, pur magari non apprezzandolo fino in fondo. Ma c’è di peggio.
Giovedì scorso, poco prima che si scatenasse l’inferno su Promenade des Anglais, parlando a Washington, il numero uno dell’FMI, Christine Lagarde, rendeva palese quale fosse il timore maggiore per l’istituto che è chiamata a guidare: il collasso dello status quo. Per la Lagarde, infatti, “la sfida maggiore che affrontiamo oggi è il rischio che il mondo faccia marcia indietro rispetto alla cooperazione globale, la stessa che ha funzionato così bene finora. Sappiamo tutti che la globalizzazione e l’aumentata integrazione hanno portato enormi benefici economici per moltissime persone”.

Una tesi, quella della globalizzazione come dinamo di benessere generalizzato, che per anni è stata anche il cavallo di battaglia del gigante della consulenza McKinsey Global Institute: l’altro giorno, però, qualcosa è cambiato. Con uno studio choc intitolato “Poorer Than Their Parents? Flat or Falling Incomes in Advanced Economies” e che ha completamente ribaltato la narrativa finora utilizzata, l’azienda ha infatti detto chiaro e tondo una cosa, graficizzandola così:

gli effetti benefici della globalizzazione sui redditi sono terminati. Come mostra il grafico, tra il 2005 e il 2014 qualcosa come il 65-70% dei cittadini di 25 economie avanzate sono terminati in segmenti reddituali fissi o in calo, un dato che tra il 1993 e il 2005 era sono del 2%! Addirittura, negli Usa quel numero è dell’81% e in Italia del 100%! Addio classe media, siamo in piena proletarizzazione e sotto-proletarizzazione a livello globale e nelle economie più forti del pianeta. Ecco da dove arriva la rabbia, oltre che dalla paura per il terrorismo e per la continua invasione di migranti, spinta proprio dalle forze globalizzatrici. La conferma anche Richard Dobbs, co-autore della ricerca, il quale interpellato da Bloomberg ha dichiarato quanto segue: “La montante crescita di risentimento a livello globale è paragonabile a una fuga di gas che interessi un certo numero di case. Prima o poi, una esploderà ma non penso che la prima sarà il Regno Unito a causa della Brexit. Siamo pronti a danneggiare la competitività per ridurre un pochino il rischio di un’esplosione?”. E questi grafici



ci mostrano plasticamente la sparizione della classe media e del potere d’acquisto negli Stati Uniti: non solo i costi per mangiare fuori stanno salendo e l’indice del comparto ristorazione cala su dati minimi dalla crisi finanziaria ma con il 2016 sono calate, drasticamente, anche le visite nei fast food, posti dove con 5 dollari si mangia almeno un hamburger con patatine e bibita. Una dinamica simile in una polveriera sociale e razziale come quella americana, non può finire bene.
E il botto potrebbe non venire soltanto da proteste popolari (la contestazione a Manuel Valls, durante il minuto di silenzio per le vittime di Nizza, oggi è stata spaventosa e senza precedenti per un Paese come la Francia che di fronte a certi eventi, tende a unirsi) ma anche dal mercato. Come ci mostra questo grafico

su dati di Standard&Poor’s, da inizio anno il numero di default corporate a livello globale ha appena toccato quota 100, un aumento del 50% rispetto allo stesso periodo del 2015. E non basta: se le tre cifre sono state raggiunte la scorsa settimana a causa di quattro default nel comparto gas&oil statunitense, portando il controvalore di debito in default a 154 miliardi di dollari, avanti di questo passo, il 2016 potrebbe battere il record registrato nel 2009, l’annus horribilis post-Lehman. E questo altro grafico

ci mostra come il ciclo di default corporate sia solo all’inizio, trasformando l’inevitabile tsunami di bancarotte che ne deriverà nel catalizzatore che obbligherà le Banche centrali a perdere il controllo o a imbarcarsi, come sta per fare il Giappone, nell’esperimento senza precedenti dell’helicopter money.
E attenzione all’Europa, perché l’estate si avvicina, stagione ideale per attacchi speculativi, visti i bassi volumi del mercato e il fatto che i governi siano con la guardia abbassata causa ferie. Come ci mostra questo grafico,

la percezione di rischio del Portogallo misurata attraverso il credit default swap ha superato quella del Brasile in recessione ufficiale e dilaniato dalla corruzione. E’ la prima volta dal 2014 che Lisbona viene percepita come più rischiosa della sua ex colonia, dato che a detta dell’economista Alvaro Bandeira, “il governo ad interim brasiliano sembra che abbia imboccato la direzione giusta, almeno stando al giudizio degli investitori”. E attenzione, perché l’Ecofin ha appena aperto formalmente una procedura di infrazione proprio contro Portogallo e Spagna, a causa dello sforamento del parametro del 3%. Un qualcosa che potrebbe mettere a rischio la tenuta del governo, la cui componente di sinistra ha già detto che sanzioni europee rappresenterebbero “una dichiarazione di guerra al Portogallo”. Paese che, giova ricordarlo, vede i suoi bond comprati dalla Bce grazie al rating investment grade garantitogli dalla sola agenzia canadese RDSB, visto che per le “tre sorelle” il debito lusitano è junk.

Se dovesse operare un downgrade, anche a causa della bocciatura dei conti pubblici da parte di Bruxelles, l’accesso al mercato per finanziarsi diverrebbe costosissimo per Lisbona. E una nuova crisi del debito potrebbe aprirsi in fretta, travolgendo la molto esposta Spagna e subito dopo l’Italia, già nel mirino con il suo comparto bancario, pieno di sofferenze ma anche di titoli di Stato. E attenzione, perché a quel punto sarebbe pronto a scattare il doom loop su tutto il comparto bancario. L’esposizione totale delle banche francesi al nostro debito è superiore ai 250 miliardi di euro, il triplo delle detenzioni del secondo Paese più esposto, quella Germania che nel 2011 ha scaricato tutti i nostri BTP e che oggi invece vede le sue banche esposte per 83,2 miliardi di euro, con la sola Deutsche Bank che ha nei suoi bilanci qualcosa come 11,76 miliardi di controvalore di carta italiana.

Gli altri settori bancari a maggior rischio di contagio sono quello spagnolo (44,6 miliardi), quello statunitense (42,3 miliardi), quello britannico (29,77 miliardi) e quello giapponese (27,6 miliardi). Mentre il mondo guarda alle piazze cittadine, sarebbe il caso di tenere d’occhio quelle azionarie e obbligazionarie. Perché nulla come il gesto di un utile idiota fa comodo alle elites per prepararsi al botto, mettendosi in salvo. E lasciando il conto da pagare ai soliti noti, troppo impegnati ad aver paura di tir impazziti o kamikaze improvvisati.

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