Giovanni Spadolini e Bruno Visentini



Da Nello Ajello, “Il lungo addio. Intellettuali e PCI dal 1959 al 1991”, Laterza, Roma-Bari 1997.



Antefatto: "Il governo degli onesti"
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Governo dei tecnici, degli onesti, dei capaci. Governo sganciato dai partiti. Governo senza maggioranza precostituita, di ‘garanzia’, ‘del presidente’. Governo di ‘chi ci sta’. Fino a ieri simili definizioni avrebbero suscitato lo sdegno di intellettuali e politici: specie a sinistra, l’accusa di qualunquismo sarebbe stata fatale. Dopo il tramonto della ‘solidarietà nazionale’, per tutto il primo semestre del 1981 si continua invece a discutere, con umori assai vari, di una proposta avanzata da Bruno Visentini davanti al Consiglio nazionale del Pri, a metà dicembre del 1980.
La proposta riguarda appunto – per riprodurre le parole esatte di Visentini – un esecutivo “omogeneo e compatto, non espressione dei partiti: composto, anche, ovviamente, e per una parte importante, di uomini appartenenti ai partiti, ma presenti non in quanto delegazioni di partito, bensì per il loro impegno politico, morale e professionale”. Un governo, ha ribadito con polemica insistenza il presidente del Pri, “che non venga formato dagli incontri e dalle contrattazioni dei segretari dei partiti e dai baratti delle correnti”, che “trovi in parlamento i consensi delle forze politiche che condividono la sua azione”, e che sia “omogeneo negli impegni di libertà politiche e civili, di politica economica, di sviluppo e di avanzamento sociale e nelle scelte internazionali occidentali, europeistiche ed atlantiche”. Se non si ha il coraggio di far questo, il rischio è che “fasi illiberali e autoritarie ad un certo momento possano prendere il sopravvento”[1].
È un insolito attacco, proveniente da ambienti democratici, contro la prima Repubblica, sempre difesa e ‘presidiata’ in particolare dal Pci. Si tratta di restituire interamente al capo dello Stato la facoltà di nominare il presidente del Consiglio, e a questi la prerogativa di scegliere i ministri, senza le indebite incrostazioni con le quali la partitocrazia ha modificato di fatto la Costituzione repubblicana, riscrivendola secondo il propri comodi. Così almeno la proposta di Visentini viene interpretata dalla “Repubblica”, che per intervento del suo direttore cerca di preservare l’autorevole parlamentare repubblicano da quei “fulmini e saette” che si prepara a lanciare contro di lui “un vasto arco politico” comprendente “anche taluni settori del suo partito”. Sembra ingiusto a Eugenio Scalfari che Visentini venga presentato come “un sovversivo che, in un modo sornione ma non per questo meno pericoloso, piccona le istituzioni della prima repubblica e apre la strada al tempo stesso al Pci e ad un disegno gollista”[2]. L’accenno al partito di Berlinguer, come interlocutore privilegiato del proponente, è, come vedremo, tutt’altro che immotivato.
Visentini, pur deplorando lo stato attuale della politica italiana (contrassegnata da “impotenza”, “non governo”, “perenne litigiosità”, “prevalenza degli interessi di partito”), respinge l’etichetta di “ministero dei tecnici”, usata da “taluno per rozzo spirito polemico”, ma ripete che l’esecutivo da lui ipotizzato segnerebbe un ritorno alla Costituzione. L’ipotesi ha qualche somiglianza con quella, meno chiara, che Berlinguer ha avanzato nella ormai storica svolta di Salerno. E infatti il segretario comunista rileva che Visentini “non sbaglia nell’individuare la verità quando – pur partendo da punti di vista che non sono quelli della classe operaia e nostri, ma che riflettono un disagio diffuso nel mondo della produzione e in strati dell’opinione democratica – parla come noi di impotenza e di ‘non governo’ oggi in Italia. Maggioranza costituite di volte in volta? “Ciò non vuol dire che convergenze sulla soluzione dei problemi anche importanti non siano possibili oggi”[3].
In un momento difficile, con un partito ormai diviso in correnti e distinto da un’evidente debolezza propositiva, nessun aiuto va respinto: così può spiegarsi l’interesse del Pci verso l’ipotesi Visentini. Essa, secondo il presidente dei deputati comunisti, Fernando Di Giulio, “va valutata con molta attenzione”. In questo giudizio positivo sulla ‘dottrina Visentini’, il partito di Berlinguer è, peraltro, isolato o quasi. Al di fuori di esso, i più scettici o mal disposti vi annusano un profumo di quinta Repubblica francese. Sono soprattutto i socialisti ad additare questo precedente tradizionalmente sgradito a sinistra. “Un governo nato dall’ispirazione personale di un salvatore della patria? Sarebbe il gollismo italiano, la fine della prima Repubblica. A noi non sta bene. Noi socialisti non ci stiamo”, annunzia Claudio Martelli[4]. Queste obiezioni colpiscono di rimbalzo il Pci, e la sua asserita incoerenza politico-culturale. L’accusa di connivenza dei comunisti con la proposta Visentini diventa più esplicita nelle parole del socialdemocratico Luigi Preti, vicepresidente della Camera, e pertanto in possesso di una qualche autorità istituzionale: si tratta, egli sostiene, di una “grottesca e anticostituzionale proposta che serve solo a certi industriali, ai qualunquisti di destra, ai filocomunisti e ai comunisti per tentare di mettere in difficoltà il governo Forlani”[5].
Gollismo? Confuse velleità tecnocratiche a sfondo autoritario? Sui giornali, simili sospetti assumono immediatamente le sembianze di Amintore Fanfani. È ancora Scalfari (il cui giornale sembra abbastanza favorevole alla proposta del presidente repubblicano) a sfatare queste voci. No, scrive, si sbaglia a individuare nel “nostro ultimo cavallo di razza”, Fanfani appunto, il personaggio “idoneo a portare avanti la proposta Visentini. In realtà, per condurre a termine un’impresa del genere non basta un uomo, ci vuole un’équipe che sia culturalmente e politicamente l’incarnazione di questi bisogni così diffusi nella pubblica opinione”[6]. Insomma, una squadra inedita (si ripensa a quella ‘caccia agli onesti’ in cui si sono esibiti quotidiani e periodici subito dopo la svolta di comunista di Salerno) che segni una decisa innovazione rispetto agli schemi correnti. “Non si può davvero pensare, nell’eventualità della caduta del governo”, afferma Visentini (e “l’Unità” ne sottolinea l’ironia), “che i problemi si potrebbero risolvere con un Cossiga tre, un Piccoli uno, o un Forlani due…”[7].
Proprio Forlani, presidente del Consiglio in carica, ha attribuito l’iniziativa di Visentini ai suoi istinti “vanesii”. Secondo altri, alla proposta del presidente repubblicano manca il pregio della novità. Un giurista autorevole, il professor Giuseppe Guarino, sostiene di aver prospettato già nel 1978 “un governo autonomo dai partiti che resti in carica per un periodo limitato, diciamo due anni, in funzione di un chiarimento parlamentare”. Ciò invece che Guarino disapprova nell’ipotesi Visentini è “la modifica della tecnica di governare” sulla quale essa sembra fondarsi, affidando l’esecutivo a “tecnici sostanzialmente estranei ai problemi dei partiti”. Proposito a suo avviso “né corretto né opportuno perché il nostro sistema dei partiti ha dato risultati eccellenti”[8].
Nel fuoco della polemica s’insinuano anche ricorsi a precedenti storici e citazioni raffinate. Il presidente del Pri ricorda che De Gasperi, nella sua “sicurezza di giudizio”, seppe circondarsi di esperti di cosa economiche come Luigi Einaudi, Donato Menichella, Gustavo Del Vecchio, Giuseppe Pella e Cesare Merzagora[9]. Bettino Craxi ha trovato invece in un grande libro di Benedetto Croce espressioni nettamente contrarie alla “confusione” e alla “sostituzione dei politici coi tecnici” o con gli “esperti”; il che, a parere del filosofo, sarebbe prova di “scemata vitalità mentale e politica”. Il capo socialista usa Croce contro Visentini. Questi contrattacca ricorrendo a un brano di Einaudi, rintracciato in “un libretto di anni lontanissimi”, e che comincia così: “Un politico che sia un puro politico è qualcosa di difficilmente definibile che a me pare un mostro dal quale il paese non può aspettarsi altro che sciagure”[10].
Questo scambio di perfidie fra socialisti e repubblicani, per interposti classici del liberalismo, rientra in una contesa al centro della quale c’è, in realtà, il partito di Berlinguer. Premesso che il ghetto in cui è ancora confinato il Pci è “il terreno della debolezza della democrazia italiana”, l’economista Massimo Riva ricorda che “era una vecchia tesi, cara a Ugo La Malfa, quella che toccasse al Psi muoversi per integrare pienamente nella Repubblica il Pci e le forze sociali in esso rappresentate. Craxi ha abbandonato questa strada per aprire una vera e propria vertenza fra i due partiti della sinistra. Non deve meravigliare se un erede di Ugo La Malfa cerca ora di colmare un simile vuoto, aggirando alle spalle il nuovo corso socialista”[11]. E un umanista prestato alla politica, Giovanni Ferrara, constata che “i socialisti tendono a vedere i repubblicani come esponenti del ‘capitalismo illuminato’, e pericolosamente inclini a coinvolgere i comunisti nella difesa del paese dall’emergenza”[12].
Un dato emerge con chiarezza: Bruno Visentini, in tanti mesi di dibattiti, pur sorretto dalla “Repubblica” e dal resto della stampa ‘progressista’, non è riuscito a convincere nemmeno il suo stesso partito della bontà della propria ‘dottrina’. Molti fra i suoi amici repubblicani ricordano, fra le lezioni lasciate da Ugo La Malfa, “l’aristocratica convinzione che i tecnici debbano fare i tecnici e non i politici e che il governo sia affare di politici e non di tecnici”[13]. A poco è valso che Visentini si sia adoperato a limare la sua proposta, a ridimensionarla e a renderla più digeribile con l’accorta collaborazione del segretario repubblicano Giovanni Spadolini. Già a marzo Bettino Craxi la dava per tramontata: “Me ne sono occupato poco, dato che hanno provveduto gli altri a farle un funerale, sia pure di prima classe”[14].



[1] Giorgio Rossi, Via i partiti dal governo, in “la Repubblica”, 14-15 dicembre 1980.

[2] Eugenio Scalfari, Attenti a Visentini, sovversivo e gollista, ivi, 18 febbraio 1981.

[3] Giorgio Rossi, Non diciamo no a Visentini. Cauta apertura dei comunisti, ivi, 17 febbraio 1981.

[4] Donat Cattin attacca Visentini e mezza Dc, ivi, 8-9 marzo 1981.

[5] Ibid.

[6] Eugenio Scalfari, Fanfani e Visentini, la strana coppia, ivi, 1-2 marzo 1981.

[7] Visentini rilancia la sua proposta: governo di programma, in “l’Unità”, 12 aprile 1981.

[8] Parla Guarino: l’avevo detto tre anni fa, in “Il Mondo”, 20 marzo 1981.

[9] Giorgio Rossi, Fra Visentini e Forlani nuovo round polemico sulla politica economica, in “La Repubblica”, 11 aprile 1981.

[10] Marco Marozzi, Visentini replica a Craxi, ivi, 26-27 aprile 1981. L’accenno d Croce ai ‘tecnici’ in politica è in La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1938, pp. 186-87.

[11] Massimo Riva, E così sta finendo il centro-sinistra bis, in “La Repubblica”, 29-30 marzo 1981.

[12] Giovanni Ferrara, Tra Craxi e Visentini, ivi, 28 aprile 1981.

[13] Andrea Manzella, Il tentativo La Malfa, Il Mulino, Bologna 1980, p. 48.

[14] Così Bettino Craxi alla Tribuna politica televisiva del 10 marzo 1981.