mercoledì 31 ottobre 2007
Passioni e rivoluzioni attorno al sardo
Ma le forzature e la fretta
sono causa di esclusione e discriminazione
di Marinella Lőrinczi
Il 18-19 ottobre scorso si è tenuto a Cagliari un convegno scientifico internazionale, organizzato congiuntamente dagli Atenei sardi e dalla Regione, sull'uso del sardo, ma per dirla bene, sull'uso della Limba sarda comuna «comente limba giurìdicu-amministrativa». Il giorno dopo, sabato di pomeriggio, “atobiu mannu” e partecipato, con un uditorio altrettanto numeroso se non di più, e senza obbligo di firma, nel Comune di Masullas, sindaco presente, per la valorizzazione di tutte le parlate della Sardegna, a partire, chiaramente, dal campidanese-masullese (immortalato dall'anonima e celeberrima Scomuniga ottocentesca de Predi Antiogu arrettori de Masuddas).
La settimana successiva mi è capitato di essere presidente di una seduta di laurea, alla Facoltà di Lingue, durante la quale è stata presentata una tesi sugli usi linguistici infantili nel comune di Scano in Montiferro. Un condensato dunque di eventi - collegati a questioni ed atmosfere di emancipazione del sardo - a forte impatto potenziale od effettivo, anche emotivo, soprattutto se considerati insieme con le recenti iniziative della scuola cagliaritana “Randaccio” a favore del cagliaritano e del consiglio comunale di Sinnai a favore del sinnaese. E con altre più o meno recenti.
Ogni componente del fenomeno ha una sua rilevanza particolare. È anzitutto evidente che c'è una accelerazione, un aumento delle iniziative a favore del sardo, a tutti i livelli, iniziative che nel loro insieme sono senz'altro positive e promettenti. Ma per prudenza non andrebbero indicate, assecondando le parole entusiastiche dell'assessore alla cultura Maria Antonietta Mongiu, come gli inizi di una «rivoluzione copernicana». Se quest'ultima metafora, adattata al caso Sardegna, significasse spostamento da un assetto italocentrico ad un assetto sardocentrico della situazione linguistica della Sardegna, il successo del processo andrebbe comunque valutato in itinere e a posteriori, poiché le previsioni potrebbero non avverarsi o portare addirittura al fallimento, se gli interventi politici sono poi fatti con mano pesante, come avviene già adesso. Un direttivo politico diverso potrebbe persino adottare linee di condotta differenti se non contrarie.
Quanto alle esperienze del passato, usarle come modelli illustri per il presente è improprio e storicamente sbagliato, poiché gli usi ufficiali medievali del sardo si situano al culmine di un processo le cui fasi iniziali non conosciamo. Mentre ora viviamo e conosciamo le fasi iniziali di una eventuale koinéizzazione, di una eventuale e problematica formazione di una lingua unitaria, e non ne possiamo prevedere il futuro. Comunque sia, osservatori esterni raccomandano ai politici interessati e agli operatori linguistici mosse ed atteggiamenti soft, carezzevoli, cauti, insomma non impattanti sulla masse dei parlanti con usi linguistici consolidati. Forse queste raccomandazioni, che non sono mai inutili e troppe, arrivano in Sardegna un po' in ritardo, dal momento che stiamo giungendo alla logica della discriminazione, proposta con la massima tranquillità o ingenuità, a seconda dei casi. E le reazioni non sono soltanto risentite o vivaci ma possono assumere toni isterici persino durante gli incontri tra specialisti. Proprio per questo è opportuno evitare i commenti a caldo.
Il summenzionato convegno sui moderni usi giuridici e amministrativi della lingua sarda è stato presentato come un incontro scientifico. Gli incontri scientifici hanno un protocollo preciso e collaudato per garantire pari opportunità e svolgimento ordinato. Le autorità sono presenti all'ora prestabilita e se questo è reso impossibile da contrattempi istituzionali, l'evento ha comunque inizio per rispetto verso il pubblico e verso i relatori, e non con un'ora buona di ritardo. I tempi di ciascun intervento vanno dunque rispettati.
I nomi di ciascuno vanno ugualmente rispettati, per cui un invitato di nome, mettiamo, Jack White non diventa Giacomo Bianco o Jaccu Biancu/Arbu, e Carla (Marcato, professore all'Università di Udine) non dovrebbe diventare Càrula. Nel programma di un incontro scientifico, il titolo di ciascun contributo va enunciato nella lingua scelta dal relatore (e poi eventualmente tradotto), a meno che non ci siano limitazioni nelle lingue d'uso previste dal comitato scientifico. Non si tratta di pignolerie pseudofilologiche. Anche queste regole, che non sono sempre e soltanto di buona creanza o consuetudinarie, sono in parte prescritte da norme giuridico-amministrative: il nome di ciascuno, in situazioni serie e formali, va usato così come registrato negli atti anagrafici.
Ma, evidentemente, alla Regione ci si sta soltanto vezzosamente esibendo davanti all'Europa con l'uso di una koiné sarda pseudoufficiale. Con la stessa stessa disinvoltura e serietà l'ufficio stampa della Regione aveva comunicato, a maggio, che a Paulilàtino si sarebbe fatta la presentazione dell'indagine “Limba sarda comuna. Una ricerca sociolinguistica” che invece s'intitola “Le lingue dei sardi. Ecc.”. Le norme bibliografiche prescrivono l'obbligo di riportare il titolo originario di un lavoro scientifico o creativo. Se è questo che insegniamo ai nostri studenti, come mai la regola dell'esatta citazione non deve valere per l'Ufficio stampa della Regione? Perché, appunto, si gioca alla lingua sarda giuridica oppure perché si vuole ciurlare nel manico attraverso forzature, dando per acquisito e ufficiale ciò che acquisito e ufficiale non è (ancora).
Nessuna delle due risposte è esaltante, tanto meno se poi veniamo a sapere che nel punteggio per gli avanzamenti di carriera, interni alla Regione, si incomincia a computare anche le conoscenze linguistiche (di Lingua sarda comune?), secondo norme e con commissioni valutative non meglio pubblicizzate. Se fosse vero, questa è l'anticamera del famigerato patentino linguistico degli impiegati pubblici, rispetto al quale ci saranno persone preposte o autopreposte a decretare chi parla bene o male il sardo (ovviamente quello Comune, per come stanno le cose).
Il personale della Regione costituiva, infatti, la maggioranza (precettata?) del pubblico al convegno sugli usi giuridici. Venivano prese le firme di presenza. I relatori avranno per lo più riassunto o ripreso argomenti già trattati durante un precedente corso regionale di addestramento all'uso della Lingua sarda comune, e i corsisti, impiegati e funzionari, si trovavano in sala per ricevere gli ultimi insegnamenti o le ultime informazioni. Non convegno scientifico, dunque, ma corso o conclusione di corso. Tanto valeva farlo nei locali della Regione, risparmiando anche sull'affitto della sala e sui gadget (ossia accessori di propaganda) tipici dei convegni: zainetti, portadocumenti, blocchi per appunti, voci di spesa che la legge 482 permette.
Ho appreso che c'è stato anche un dibattito alla fine della seconda giornata, ma me n'ero andata prima, quasi in chiusura, poiché i relatori esterni e stranieri erano già comunque quasi tutti partiti e un dibattito affrettato in quelle condizioni (prereferendarie, per di più) non aveva molto senso, se non per poi dire e scrivere che c'è stato dibattito, dunque posizioni diverse, dunque democrazia. Sarebbe invece valsa la pena di commentare per lo meno due dei temi trattati, che hanno attinenza con il sentimento di discriminazione che molti Sardi provano dinanzi alla Lingua sarda comune e alla sua gestione.
Si sentono discriminati e temono l'emarginazione, immagino, gli italofoni sardi adulti professionisti, per i quali l'italiano è lingua dominante al 90% come minimo se non al 99%. Possiamo affermare, per la maggiore gioia di chi era già raggiante per le numerose autoattestazioni di conoscenza del sardo rilevate nell'inchiesta Oppo (Le lingue dei sardi), che chi vive in Sardegna da più anni ha necessariamente una minima competenza attiva del sardo; questo vale anche per gli immigrati intellettuali e non intellettuali, ma soprattutto per questi ultimi: sanno spiccicare o intercalare qualche frase in sardo. Così i bambini delle città; anche se succede, al limite, come è successo qualche settimana addietro, che un ragazzino torni felice da scuola vantandosi: «Mamma, so parlare il sardo.» «E cioè?» «A sa facci tua.» «E cosa significa, secondo te?» «Vacci tu.»
Che cosa illustra quest'aneddoto? Numerosi sono gli intellettuali sardi, nati e soprattutto cresciuti in città, per i quali il sardo è un idioma di tipo gergale-confidenziale imparato ed usato con i coetanei, nei giochi e a scuola (come sta capitando a quel bambino). Questi intellettuali sanno il sardo, ma come lingua d'antan, come lingua coesiva di gruppi/bande giovanili che poi viene abbandonata, lasciata sopita, messa in stand-by ossia sleep mode, fenomeno ben studiato d'altronde.
Questa categoria di italo(-sardo)parlanti adulti, importante professionalmente, non è nemmeno intervistabile direttamente, a mio avviso, sulla questione dell'emancipazione del sardo, perché si mettono subito in guardia. Fanno i puristi riguardo al sardo, cercano il pelo nell'uovo rispetto a questi primi tentativi di traduzioni di documenti ufficiali dall'italiano in sardo. Forse non sanno che ogni tradizione scrittoria o traduttoria ha inizi difficili ed esitanti (la storia delle traduzione bibliche è più che istruttiva: è esemplare); che le equivalenze terminologiche vanno create; che gli xenismi, i forestierismi (che però spesso sono internazionalismi e non solo italianismi) sono inevitabili a meno che non si ricorra ad arcaismi (potremmo dire, perché no, Rennu o Logu Sardu anziché Regioni, Regione Sarda ecc.); che si deve tradurre e ritradurre per imparare a tradurre.
Se si sta cercando di creare una nuova lingua, o, meglio, nuovi stili di lingua adatti a nuovi argomenti e circostanze, alla modernità anzitutto, il primo risultato inevitabile è una lingua piena di italianismi anche nella sintassi, percepita, come è normale che sia, aliena e brutta finché non ci si fa l'abitudine e/o finché non si affinano i mezzi linguistici interni. Proprio per questo, nonché per creare la necessaria assuefazione, il pianificatore dovrebbe muoversi con circospezione, senza impartire lezioni ma soltanto proponendo.
Ma alla Regione si rendono pubblici nel sito i primi vagiti di traduzione, validati da chi?, e si insegnano pure come modelli. E gli italofoni colti sbuffano sdegnati, mentre contemporaneamente sappiamo, per esperienza e attraverso la ricerca, che il sardo sta sviluppando comunque e da tempo, per adeguamento pragmatico spontaneo, varianti sempre più italianizzate anche se si tratta di varianti a basso prestigio e non ad alto prestigio come dovrebbe essere una lingua ufficiale. Dunque, dov'è il problema? Il problema non è il sardo, non è il problema tecnico degli italianismi sì o degli italianismi no, ma il sentimento di emarginazione da tale processo, che rende aggressivi. Vanno anche loro compresi: l'italofonia non è un delitto antipatriottico.
C'è un altro aneddoto a questo proposito. In un altro incontro simile dell'anno scorso (al Lazzaretto di Sant'Elia) un giovane sotto la trentina ha dichiarato che a lui il sardo non lo avevano insegnato, parlava perciò solo l'italiano e non si sentiva per niente colonizzato. Un signore anziano l'ha rimproverato per questo, parlando in sardo, senza però rendersi conto che era la sua generazione che aveva peccato, se vogliamo metterla in questi termini, di mancata trasmissione del sardo ai giovani. I figli pagano per i torti commessi dai padri? Voler usare o preferire l'italiano è un delitto antipatriottico? Perché il principio della polinomia linguistica, includente l'italiano, non può essere adottato?
Un'altra discriminazione si sta inoltre compiendo ai danni di quei parlanti che non usano le varianti centro-logudoresi. Qui la plurisecolare teoria accademica, che ho da sempre percepita come perniciosa, sulla superiorità del sardo-logudorese o del sardo-nuorese, propagandata a generazioni di studenti, sta dando i suoi frutti più vischiosi. Sia il progetto della Lingua sarda unificata, sia il progetto della Lingua sarda comune discendono da tali teorizzazioni, a loro volta sorrette da luoghi comuni culturali di antica data che situano nelle aree centrali e montuose della Sardegna il prototipo della sardità intatta, inglobante anche analoghe caratteristiche linguistiche.
«Prescegliamo il dialetto del Logodoro, ch'è il più primigenio, più chiaro, e più puro che l'altro, del Capo di Cagliari.» Questo non è stato scritto adesso, ma nel Settecento, da Matteo Madao, e riecheggia ancora puntualmente nelle premesse sia della LSU sia della LSC. Oggi si direbbe più in generale (non cito la fonte): «La montagna, più che la pianura, rappresenta infatti un luogo privilegiato, nel quale si osserva come il radicamento e il mantenimento della tradizioni linguistiche e culturali, rientrino all'interno di reti relazionali che si sviluppano dentro allo stesso ambiente geografico.» Non so cosa ne penserebbero i Mongoli, pastori nomadi per tradizione, in un ambiente di steppa, o gli abitanti degli altopiani. Avranno problemi esistenziali tremendi: siamo montagna o siamo pianura?
Le varianti sarde che hanno limba (e non lingua) sarebbero perciò più identitarie. È scritto a chiare lettere. Altrettanto chiaramente è stato enunciato nel convegno, con semplicità, che scrivere in un modo e leggere in modi diversi sta nella natura delle cose linguistiche-grafiche: vedi il cinese. E allora perché non scrivere tutti chelu, ad esempio, che a seconda dei sistemi fonetici locali potrà essere pronunciato kelu oppure celu; in fondo il digramma, cioè l'insieme di lettere <ch> ha in italiano il valore fonetico di Casa e in spagnolo il valore di CHocolate. Semplice, no?
I Campidanesi imparerebbero in fretta, con un po' di buona volontà, che abe sta per abi, abes sta per abis, domo sta per domu, iscola sta per scola, pische, pronunciato alla tedesca, sta per pisci, cantare sta per cantai, cantadu sta per cantau, ruju sta per arrubiu. Non si è osato dire che sos, sas stanno ovviamente per is; sarebbe stato troppo. Né si è giustificato perché i Campidanesi, maggioritari, dovrebbero fare tale sforzo, con la Regione che ha la sua sede a Cagliari. L'abate Madao, che ha lavorato anche in altre direzioni assai più meritorie, non è stato scomodato come testimonial.
Indignati, quindi, i Campidanesi a Masullas, indipendentemente da quanto raccontato sopra. Bella locandina, pubblico folto, tutti attenti per oltre tre ore di fila senza pausa, discorsi vivaci, numerosi e variegati sia in sardo sia in italiano. Atmosfera ravvivata da alcune esibizioni artistiche di launeddas e di chitarra e da improvvisazioni elaborate a s'arrepentina. È stato tra le altre cose contestato, sul piano storico e sul piano della prassi, ciò che compare purtroppo ancora in tesi di dottorato o di laurea (come quella a cui ho assistito come commissaria): che è il logudorese ad essere stato usato maggiormente per finalità creative, artistiche. Se è vero, com'è senz'altro vero ciò che sostiene lo studioso francese Louis-Jean Calvet, noto per i suoi studi di ecologia linguistica, secondo cui gli idiomi non sono uguali tra di loro, e che la disuguaglianza può generare situazioni di conflitto ma è anche un principio organizzatore, è altrettante vero - prosegue lo studioso - che la situazione ecolinguistica, dei rapporti reciproci tra le lingue, può cambiare sotto le spinte sociali. A maggior ragione se il disequilibrio è un costrutto, una invenzione, una favola, senza corrispondenza effettiva nella realtà.