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    Predefinito Una risposta schumpeteriana alla crisi

    Una politica economica dell’offerta per affrontare la depressione schumpeteriana dell’economia europea

    Cristiano Antonelli* - 21 Aprile 2010

    Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’articolo del prof. Cristiano Antonelli, dell’Università di Torino, unitamente a un commento di Roberto Ciccone, docente presso l’Università di Roma Tre e membro della redazione di Economia e politica.

    Una politica economica dell’offerta per affrontare la depressione schumpeteriana dell’economia europea | Economia e Politica

    L’economia europea è ormai entrata in una evidente fase depressiva destinata a durare alcuni anni. Alcuni anni saranno necessari per tornare semplicemente ai livelli di reddito raggiunti nel 2007. L’economia europea è uscita nel corso del 2009 dalla fase più acuta della recessione innescata dalla crisi grazie al salvataggio della finanza angloamericana, la crescita esponenziale del debito pubblico e l’immissione di quantità immense di liquidità monetaria. L’intensità della crisi è stata tuttavia tale da eludere che si tratti di un elemento congiunturale più o meno accidentale. La crisi del 2007-2009 ha tutti i caratteri della classica recessione schumpeteriana in cui l’euforia finanziaria basata sulla prolungata espansione fondata sul grappolo delle innovazioni digitali ha infine incontrato il moloch della sovracapacità produttiva ed è crollata nel vortice tipico dei processi di deleveraging.

    Questo appare tanto più vero in quanto si concentri l’attenzione sull’economia europea. Altre parti dell’economia mondiale possono infatti contare sulle opportunità offerte dal processo di rincorsa basato sulle possibilità di assimilare l’enorme stock di tecnologia messo a punto nell’area OCSE e ancora poco utilizzato. L’economia europea, stretta tra la rincorsa dei paesi in via di rapida industrializzazione e il dominio del dollaro rischia di sperimentare appieno le conseguenze negative tipiche della prolungata depressione che segue nel modello schumpeteriano la fase recessiva.

    Il modello schumpeteriano diventa particolarmente rilevante per comprendere i caratteri di una crisi così grave e profonda da assumere carattere di crisi strutturale. Alla fine della recessione infatti non segue necessariamente la ripresa, come si postula nell’esigua letteratura sul ciclo economico di matrice ortodossa.

    Nel modello schumpeteriano del ciclo strutturale di lungo periodo alla recessione segue la depressione. La depressione è la fase economica, in genere assai prolungata, necessaria per diluire gli effetti dell’euforia finanziaria e dell’eccesso di investimenti che si erano prodotti nella precedente fase espansiva fondata sul grappolo di tecnologie radicali introdotte a suo tempo e culminata nella recessione. La depressione è alimentata dalla drastica selezione delle imprese, con il fallimento di quelle troppo esposte sul piano finanziario e con una struttura produttiva fragile. In questa fase si produce anche un profondo cambiamento strutturale che elimina dai mercati i settori obsoleti e facilita gli aggiustamenti alla nuova divisione internazionale del lavoro. Si ridefiniscono così i criteri della specializzazione produttiva dei singoli paesi e quindi le regole della divisione internazionale del lavoro.

    Nel modello schumpeteriano si esce dalla depressione solo quando un nuovo grappolo di innovazioni riesca a formarsi e si traduca in nuove opportunità di crescita, investimento e profitto. Il modello schumpeteriano è di straordinaria rilevanza per capire il processo in corso e la necessità di elaborare un progetto di politica economica dal lato dell’offerta.

    Gli interventi di politica economica che si sono succeduti negli anni tra il 2001 e il 2007 sono stati fallimentari proprio perché hanno avuto carattere esclusivamente finanziario ed erano privi di ogni consapevolezza della rapida involuzione in corso nell’economia reale. Quegli interventi di politica economica furono inadeguati perchè basati su una lettura esclusivamente finanziaria della crisi in atto che ignorava l’andamento dell’economia reale e, in quanto privi di ogni consapevolezza della rapida involuzione in corso nell’economia reale, hanno avuto carattere esclusivamente finanziario. Hanno di fatto accompagnato e poi tamponato la recessione, ma non evitato l’avvio della depressione.

    Il contesto di forte globalizzazione dei mercati dei prodotti rende il modello schumpeteriano, con la sua enfasi sull’offerta, anziché sulla domanda, particolarmente cogente. Bisogna rendersi conto che, nell’attuale contesto dell’economia mondiale, interventi di politica economica ti tipo keynesiano volti ad aumentare la domanda aggregata rischiano di tradursi esclusivamente nell’aumento delle esportazioni da parte delle economie a valuta debole.

    La depressione è con noi ed è destinata ad accompagnarci per alcuni anni. Sembra del tutto ragionevole stimare che il nostro sistema economico rimarrà in una fase depressiva per un lasso di tempo stimabile da un minimo di tre a un massimo sette anni.

    Del resto i livelli e tassi della disoccupazione dimostrano la gravità della situazione. La disoccupazione ha raggiunto e superato livelli impensabili fino a pochi anni fa stabilizzandosi su una percentuale pari al 10% della popolazione attiva, a sua volta in sensibile riduzione. Nei paesi periferici la disoccupazione ha largamente superato il 10% toccando punte del 20% come in Spagna e Grecia. In tutta l’Eurozona la disoccupazione è inoltre ancora in crescita nel corso del 2010. Mentre numerosi osservatori stimano che il recupero dei livelli di prodotto interno lordo ante-crisi richiederà non meno di 5 anni, è crescente la consapevolezza che il ritorno a tassi di disoccupazione ‘fisiologica’ intorno al 5% possa richiedere oltre un decennio.

    Iniziative e comportamenti volti al contenimento del cambio dell’Euro, largamente sopravvalutato, potrebbe avere effetti efficaci, anche in quanto consentirebbe di contrastare il tentativo dell’Amministrazione Obama di scaricare sull’Europa il costo dell’aggiustamento. In questo senso la crisi finanziaria di alcuni paesi dell’Eurozona potrebbe essere colta come una opportunità per ristabilire condizioni meno asimmetriche e subordinate nel rapporto di forza con gli USA.

    In questo contesto il caso italiano appare drammatico. Nel caso italiano i margini della politica economica in Italia sono assai ristretti. Il livello abnorme dello stock di debito pubblico e il considerevole livello del deficit non consentono interventi di espansione della domanda pubblica.

    Molti paesi hanno raggiunto o raggiungeranno tra breve il livello del debito pubblico italiano in rapporto al prodotto interno lordo. L’enorme crescita del debito sovrano renderà i mercati obbligazionari internazionali particolarmente selettivi con un aumento generalizzato della volatilità e elevati livelli di rischio per l’Italia.

    Il vincolo di finanza pubblica non può diventare la giustificazione per l’assoluta inerzia e mancanza progettuale in cui si trascina la politica economica italiana. La classe dirigente italiana deve uscire da questa fase di prolungato torpore progettuale e sostanziale irresponsabilità politica.

    Un progetto di politica economica responsabile deve essere capace di distinguere gli orizzonti temporali. Si deve distinguere tra interventi di breve termine volti a contenere e ridurre la crescente disoccupazione e accelerare il ritorno a tassi di crescita adeguati, da interventi strutturali di medio periodo che sappiano finalmente porre le basi per un processo di sviluppo sostenibile. Per questo secondo livello di intervento è necessario elaborare un progetto strategico che individui il modello di specializzazione più adeguato alle capacità del paese e sia capace di organizzare vere e proprie coalizioni per l’innovazione in grado di orientare la convergenza e l’integrazione delle iniziative delle singole imprese su progetti collettivi di ampio respiro strutturale che promuovano l’introduzione di intere filiere innovative. Parte indispensabile di questo secondo livello è certamente un’azione incisiva presso la Commissione dell’Unione Europea e il Parlamento Europeo affinché le immense potenzialità dell’Unione siamo infine valorizzate per promuovere e accelerare l’emergenza dei nuovi grappoli tecnologici.

    Ma incisivi interventi politica economica dal lato dell’offerta sono urgenti e necessari nell’immediato per ridurre la crescita della disoccupazione e soprattutto per accelerare i tempi di uscita dalla depressione.

    La depressione si accompagna da processi di trasformazione strutturale e di selezione che è necessario agevolare ed accelerare: non bisogna difendere il passato, ma costruire il futuro. La riduzione delle barriere all’entrata e soprattutto all’uscita in questo momento è più che mai necessaria. Si deve potenziare la capacità del sistema di adattarsi alle mutate condizioni della competizione. L’abbandono di parti consistenti del sistema manifatturiero è ormai una necessità evidente. La sua difesa attraverso il continuo incremento dell’offerta di lavoro, ottenuto attraverso la difesa e talora l’incoraggiamento delle impetuose ondate di immigrazione clandestina, è fallace e destinato al fallimento.

    La riduzione della spesa pubblica si impone come una necessità assoluta al fine di mobilizzare le risorse necessarie e non altrimenti disponibili, per sostenere l’ uscita dalla depressione. Il prolungamento dell’età pensionabile e il congelamento dei salari dei lavoratori pubblici, cresciuti in misura del tutto eccessiva negli ultimi anni, sono provvedimenti ormai necessari.

    Dal lato delle entrate si impone l’aumento netto del prelievo fiscale sulle rendite patrimoniali. Per quanto riguarda le rendite della ricchezza mobiliare è evidente che è urgente adeguare le aliquote fisse alle medie europee pari al 20%. Conviene poi riflettere seriamente sull’opportunità di includere le rendite mobiliari nel calcolo del reddito sottomesso all’IRPEF con i conseguenti effetti di tassazione progressiva. Appare infatti sorprendente la ricorrente difesa dei meriti della progressività dell’imposizione fiscale per poi applicarla, di fatto, ai soli redditi da lavoro. Per quanto riguarda le rendite immobiliari è urgente il ritorno all’ICI applicato su tutto il patrimonio immobiliare, sia esso costituito da prime o seconde case. La diretta partecipazione delle amministrazioni comunali ad una quota del ricavo consentirà di coinvolgerne le superiori capacità di accertamento e ridurre l’elevata evasione fiscale.

    Le risorse così liberate valutabili nell’ordine di 5-6 miliardi di Euro all’anno potranno essere utilizzate per sostenere la crescita delle imprese più efficienti e che siano capaci di esprimere tassi di crescita non sporadici dell’occupazione. Solo concentrando le risorse sulle imprese che si dimostrano effettivamente capaci di uscire dalla depressione, si potrà favorire la crescita del paese nel suo complesso.

    Gli interventi a sostegno dell’occupazione e della crescita delle imprese più dinamiche devono poi essere rafforzati con interventi mirati nelle filiere più promettenti dell’economia italiana come l’ampio agglomerato delle industrie del lusso, il comparto dei beni capitali e nelle filiere delle energie rinnovabili e della biomedicina al fine di trascinare l’insieme del sistema economico dalle secche depressive in cui è impantanato accelerando i tempi di ripresa.

    In conclusione, la crisi in corso ha ormai assunto, soprattutto per l’economia europea, i caratteri di una depressione destinata a durare alcuni anni. Il contesto dell’economia mondiale rende irrilevanti se non perniciosi interventi dal lato della domanda. Interventi incisivi di politica economica dal lato dell’offerta sono urgenti. La riduzione della spesa pubblica e dei trasferimenti da un lato e l’aumento del prelievo fiscale sulle rendite patrimoniali dall’altro sono assolutamente necessari per concentrare le risorse sull’accelerazione della crescita delle componenti più forti e attive del sistema economico nazionale.

    Sono questi provvedimenti necessari per contenere la crescita della disoccupazione e accelerare l’uscita dalla depressione che è meglio prendere in condizioni di relativa autonomia decisionale piuttosto che sotto il tallone di una crisi finanziaria imminente che renderebbe necessarie le stesse misure, ma a quel punto destinate al solo fine di tagliare deficit e debito pubblico.

    La classe dirigente italiana deve uscire dal suo torpore e formulare proposte di politica economica adeguate a fronteggiare una vera e propria depressione schumpeteriana.



    *Università di Torino e Collegio Carlo Alberto.

  2. #2
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    Predefinito Rif: Una risposta schumpeteriana alla crisi

    Le politiche della domanda sono necessarie e possibili. Commento ad Antonelli

    Roberto Ciccone - 21 Aprile 2010

    Le politiche della domanda sono necessarie e possibili. Commento ad Antonelli | Economia e Politica

    Una premessa dell’articolo di Cristiano Antonelli è del tutto condivisibile: il pessimismo circa la capacità del sistema economico di superare spontaneamente la crisi attuale e tornare a livelli di attività e tassi di crescita relativamente elevati. Mi trovo invece in disaccordo sulle linee di intervento, in particolare per l’economia italiana, che Antonelli propone, e che in parte discendono dalla interpretazione che egli dà delle cause della grave situazione economica che stiamo vivendo.

    Un dissenso di carattere generale riguarda l’impostazione complessiva delle politiche proposte da Antonelli, che, come egli tiene a sottolineare, dovrebbero consistere di politiche “dell’offerta”, piuttosto che di politiche della domanda, e ciò sia in riferimento alle esigenze più immediate di uscita dalla depressione, sia, su un orizzonte di più lungo termine, con riguardo allo sviluppo dell’economia italiana. Per l’uno e per l’altro ordine di problemi la strategia che Antonelli suggerisce consiste nell’innalzare il grado di specializzazione dell’apparato produttivo italiano: nel breve periodo evitando di frapporre ostacoli alla contrazione delle attività meno competitive e concentrando il sostegno pubblico sui settori più promettenti in termini di efficienza, e nel lungo periodo mediante un intervento pubblico volto a dare forte impulso all’innovazione tecnologica nell’ambito del “modello di specializzazione” ritenuto più adeguato alla nostra economia. In questa linea di azione, incentrata dunque su un severo processo di selezione, non trovano alcuno spazio manovre espansive della domanda aggregata. Secondo Antonelli le politiche ‘keynesiane’ sarebbero in generale scarsamente efficaci per l’area economica che le mettesse in atto in quanto, data l’integrazione dei mercati, si risolverebbero in aumenti di importazioni piuttosto che del prodotto interno. In particolare per l’Italia, poi, a questo argomento Antonelli aggiunge che l’esistenza di già elevati livelli del debito pubblico non consentirebbe ulteriori aumenti della spesa pubblica.

    L’idea che il sostegno alla innovazione tecnologica, concentrato sulle industrie meglio in grado di reggere la concorrenza (lasciando che ‘il mercato’ sgombri il resto del campo) possa essere un intervento sufficiente per l’uscita dalla depressione e la ripresa dello sviluppo si lega alla lettura riduttiva che Antonelli dà delle cause della crisi. Secondo Antonelli questa è interamente riconducibile all’eccesso di capacità produttiva generato da precedenti ondate di investimenti tecnologici, e il suo superamento richiede quindi che una ulteriore serie di innovazioni tecnologiche apra nuove opportunità di investimento. Vengono così del tutto ignorati quei fattori di carattere strutturale che almeno una parte degli economisti ritiene essere alle radici della crisi, e cioè il rilevante cambiamento nella distribuzione del reddito, dalle fasce basse o centrali a quelle più elevate in termini di reddito pro-capite, avvenuto negli ultimi decenni in molta parte del mondo, e i suoi effetti depressivi sulla domanda aggregata—in alcuni casi, come negli USA, compensati per un certo periodo dall’aumento dell’indebitamento delle famiglie, fino al redde rationem della crisi finanziaria che ha coinvolto parte del sistema bancario.

    Questa visione delle origini della crisi suggerisce che la via d’uscita dalla depressione non può prescindere da una correzione delle tendenze in atto, sia con riguardo alla distribuzione del reddito che alla domanda aggregata. Nella situazione presente il problema distributivo, che in larga misura coincide con la diminuzione della quota dei salari sul reddito nazionale, è accentuato dall’aumentata disoccupazione e dalla conseguente difficoltà che un recupero salariale è destinato ad incontrare nella contrattazione tra lavoratori e imprese. Sorge quindi la necessità di una azione redistributiva da parte dello Stato (o in generale del settore pubblico) mediante la politica fiscale, nelle varie modalità che questa può assumere. Ma la gravità della situazione consiglia di affiancare alla politica redistributiva, presumibilmente attuabile solo in modo graduale, un aumento dei livelli di domanda che si presenti come sufficientemente stabile, e che possa quindi incidere positivamente, oltre che sui livelli correnti di produzione, sulle prospettive di aumento della capacità produttiva, e perciò sugli investimenti. Le condizioni attuali sono lontane dal giustificare l’attesa di una espansione spontanea e persistente della domanda privata; ne segue che anche su questo fronte appare necessario l’intervento della politica fiscale, e in particolare un programma di spese pubbliche che innalzi il trend dei livelli di attività economica sia direttamente, sia negli effetti indotti sulla spesa privata.

    Alle proposte ora sommariamente formulate sembrerebbero applicarsi le già ricordate obiezioni sollevate da Antonelli, l’una relativa all’aumento di importazioni provocato da una espansione della domanda , e l’altra connessa all’ostacolo che un già elevato debito pubblico costituirebbe per politiche fiscali espansive. Partendo dalla seconda questione, se si accetta che il rapporto tra lo stock di debito pubblico e il prodotto interno costituisca una misura significativa della dimensione del debito (come d’altra parte prevedono le regole dell’unione monetaria), allora gli effetti sul detto rapporto di un programma di politica fiscale devono essere valutati tenendo conto non soltanto dell’eventuale aumento del debito, ma altresì dell’aumento dei livelli del prodotto interno che quelle politiche sono in grado di determinare, sia direttamente che indirettamente; cosicché è concepibile che tali politiche possano produrre una diminuzione del rapporto debito/pil rispetto a quello che altrimenti si realizzerebbe. Sarebbe comunque difficile negare che un valore maggiore del rapporto debito/pil associato a più elevati livelli di produzione e occupazione sia ‘paretianamente’ preferibile, per la collettività, ad un più alto valore del rapporto stesso causato da un prodotto interno discendente o stagnante.

    Quanto all’aumento delle importazioni, è difficile concordare con Antonelli circa la possibilità che più elevati livelli di domanda aggregata si rivolgano esclusivamente, o fosse anche prevalentemente, a prodotti esteri: non si vede infatti perchè tale drastica evenienza dovrebbe verificarsi solo per gli eventuali aumenti della domanda e non già per i livelli attuali—come evidentemente non è. Il problema da discutere è piuttosto quello, certo non nuovo, del maggior volume di importazioni, e quindi del deficit commerciale, che potrebbe determinarsi per effetto di un aumento del prodotto interno. In via preliminare è opportuno precisare che si tratterebbe appunto di una eventuale conseguenza della crescita dell’economia, e non, come Antonelli presenta la cosa, una particolare prerogativa di politiche di espansione della domanda: in altri termini il problema attiene al processo di sviluppo, e si porrebbe anche rispetto agli effetti sperati di politiche per la crescita definibili “di offerta”—come le tradizionali ricette basate sul contenimento dei salari e sulla flessibilità nell’impiego del lavoro. Ciò detto, interventi come quelli proposti da Antonelli e, più in generale, strategie di politica industriale che aumentino le capacità di esportazione possono allora utilmente affiancarsi alle misure di espansione della domanda; per le quali misure sono peraltro concepibili articolazioni a basso, o persino nullo, contenuto diretto di importazioni, come presumibilmente sarebbe il caso, ad esempio, di investimenti in infrastrutture o in edilizia pubblica. Non va trascurato, infine, il fatto che l’adesione all’unione monetaria europea, che per un verso ha tolto alla nostra economia lo strumento del tasso di cambio, implica, per un altro verso, il vantaggio che un deficit commerciale nei confronti dell’area dell’euro non genera indebitamento in valuta estera. E, per concludere con ciò che sarebbe quasi ovvio, ed appare invece utopico rispetto alla presente filosofia della politica economica europea, i paesi aderenti all’unione monetaria trarrebbero un beneficio generalizzato e moltiplicato se le politiche espansive venissero applicate (magari in modo coordinato) a livello dell’intera area dell’unione, che alla valuta comune unisce il fatto che una quota importante degli aumentati flussi commerciali resterebbe interna all’area stessa.

  3. #3
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    Predefinito Rif: Una risposta schumpeteriana alla crisi

    W il coraggioso Antonelli

  4. #4
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    Predefinito Rif: Una risposta schumpeteriana alla crisi

    Gran parte dei nostri guai odierni dipendnono da queste politiche di stimolo e incentivo ma una cosa colpisce sempre.
    Come fa questa gente a sapre quli siano "i settori piu' promettenti dell'economia" italiota?

  5. #5
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    Predefinito Rif: Una risposta schumpeteriana alla crisi

    Citazione Originariamente Scritto da Phileas Visualizza Messaggio
    Gran parte dei nostri guai odierni dipendnono da queste politiche di stimolo e incentivo ma una cosa colpisce sempre.
    Come fa questa gente a sapre quli siano "i settori piu' promettenti dell'economia" italiota?
    Allo stesso modo in cui ci riesce un imprenditore :gluglu:

  6. #6
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    Predefinito Rif: Una risposta schumpeteriana alla crisi

    Citazione Originariamente Scritto da Manfr Visualizza Messaggio
    Allo stesso modo in cui ci riesce un imprenditore :gluglu:
    Con la differenza che un imprenditore ci investe risorse proprie, correndo il rischio di perderle. Un politico, mal che vada, ci rimette qualche ciancia.

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    Predefinito Rif: Una risposta schumpeteriana alla crisi

    Citazione Originariamente Scritto da Manfr Visualizza Messaggio
    Allo stesso modo in cui ci riesce un imprenditore :gluglu:
    Allora avrai capito che la differenza è enorme: la prova del profitto o della perdita non esiste in una decisione politica che non ha quindi nessuna bussola per scegliere dove allocare risorse che fra l'altro non sono neppure sue

  8. #8
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    Predefinito Rif: Una risposta schumpeteriana alla crisi

    Citazione Originariamente Scritto da Manfr Visualizza Messaggio
    Allo stesso modo in cui ci riesce un imprenditore :gluglu:
    E' proprio questo il punto. E tu hai ragione a dire che neppure l'imprenditore sa qual'e' il settore piu' promettente, cioe' quali sono i prodotti per i quali i consumatori sono disposti a spendere.

    Infatti la differenza tra stato e privato non sta tanto nella condizione iniziale, che li vede entrambi "ignoranti". La diferenza sorge dopo, infatti succede che l'imprenditore investe per produrre una certa merce/servizio (gia' il fatto che i soldi siano usciti dalle sue tasche lo rende molto piu' prudente... ma questo e' un dato di contorno)... e mette questa merce in vendita alla vista dei consumatori. A questo punto i consumatori possono comprarla (spendendo del loro) oppure no... e questo fornisce IMMEDIATAMENTE all'imprenditore l'informazione fondamentale di cui ha bisogno, quella di sapere se la merce, ad insindacabile giudizio degli acquirenti, vale il prezzo che costa, oppure no. Nel secondo caso egli iniziera' a modificare il suo comportamento tentando di interpretare le preferenze della clientela... modificando il prodotto... abbassando il suo prezzo... in un processo continuo di tentativi ed errori. Se alla fine egli riesce nel suo intento si ripaghera' dell'investimento e prosperera', viceversa sara' costretto a chiudere per mancanza di fondi.

    Nel caso dello stato invece succede una cosa ben diversa. Il politico che vuole offrire un nuovo servizio perche' pensa che esso sia "utile" raccoglie i soldi in base a criteri del tutto diversi. Egli "tassa" tutti in base al reddito... o in base a quanta benzina o sigarette consumano (accise) ... o in base alla loro preferenza per il consumo rispetto al risparmio (iva). A questo punto, con quei soldi ecco che il servizio viene messo a disposzione di "utenti" che possono usufruire gratuitamente. Il servizio e' gratis, quindi alcuni certamente lo useranno... ma il politico come fa a sapere se esso e' davvero utile, se cioe' le stesse persone che lo usano spenderebbero i soldi che costa ??? Non puo' !!! ... dato che lui continua a incassare i soldi che servono a finanziarlo (le tasse sono obbligatorie) e continua a vedere che della gente effettivamente usa il servizio. Cosi il politico, non avendo alcun elemento oggettivo andra' avanti all'infinito a dire di fornire un servizio utile senza accorgersi che sta distruggendo ricchezza.
    Te capi' ?

 

 

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