Alcuni critici di Mazzini dubitavano della sincerità del suo impegno democratico; altri, più plausibilmente, videro nel suo Partito d’Azione il primo movimento veramente democratico della storia italiana. Mazzini non ignorava che l’idea di democrazia poteva essere interpretata in molti modi diversi, e nemmeno che essa poteva essere manipolata o sfruttata da un tiranno come Napoleone III o anche da una Chiesa autoritaria. Sapeva anche che il suffragio universale esigeva un elettorato politicamente consapevole, che in Italia era assente, e che in ogni caso sarebbe stato lontano dal garantire un buon governo. Tuttavia l’estensione del diritto di voto a un gran numero di cittadini era la premessa essenziale alla diffusione della coscienza sociale del senso di una individuale responsabilità politica. L’esperienza di tutta una vita non gli aveva fatto cambiare idea su questioni come quelle. Insisteva anche nel dire che il governo doveva essere responsabile davanti al popolo e che la sua sopravvivenza doveva dipendere da un voto popolare; altrimenti, come era avvenuto in Italia a partire dal 1860, una ristretta classe di politici sarebbe stata tentata di governare nel proprio interesse, dopo aver dato egoisticamente per scontato che quell’interesse si identificava con quello dell’intera comunità. A dispetto di tutti i suoi discorsi sulla sovranità popolare, Mazzini sapeva che il Risorgimento era inevitabilmente un movimento di minoranza, e tuttavia era assolutamente convinto che il suo successo finale sarebbe dipeso dalla sua capacità di assicurarsi l’appoggio delle masse facendole maggiormente partecipi delle proprie conquiste.
Da D. Mack Smith, “Mazzini”, Rizzoli, Milano 1993, pp. 276-284.
Marx tuttavia lo accusò di essere un “borghese reazionario” che, forse senza accorgersene, stava aiutando le classi privilegiate ad erigere, nell’Italia unita, un regime corrotto e tirannico. Tale accusa era una replica al violento attacco ai socialisti francesi, da lui accusati di aver favorito l’ascesa al potere di Napoleone III inimicandosi le classi medie coi loro discorsi gratuiti sulla confisca della proprietà privata. Mazzini aveva paura che, in Italia, una guerra di classe avrebbe prodotto facilmente una reazione simile a quella, avrebbe sicuramente ritardato sia la conquista totale dell’indipendenza nazionale sia lo sviluppo economico del paese. Aveva osservato che la borghesia era volubile, e l’appoggio più costante gli proveniva dagli operai, ma appartenevano alla classe media molti degli italiani più patriottici, più impegnati nel lavoro, più consapevoli politicamente; il loro contributo era assolutamente indispensabile, sia nel movimento sia alla testa del movimento. Era uno dei motivi che lo inducevano a insistere nel denunciare la divisione provocata dal comunismo, che, a suo vedere, non soltanto si basava su di una teoria economica sbagliata, ma si traduceva in un espediente illiberale e oppressivo, mediante il quale un piccolo gruppo di intellettuali intendeva impadronirsi del potere assoluto sull’intera comunità. Benché il comunismo rappresentasse una falsa utopia, Mazzini era certo che un giorno le classi lavoratrici si sarebbero viste riconoscere il loro ruolo di componenti primarie della società. Di ciò ci si sarebbe dovuti rallegrare; soltanto, si augurava “che, a forza di perseguire smodatamente i propri interessi materiali, non finissero per diventare, a loro volta, una nuova borghesia”. Del resto, non sarebbe stato tollerabile che una tale rivoluzione sociale venisse effettuata mediante la violenza e senza il consenso generale: come Mazzini disse a un amico, ogni ordinamento messo in atto mediante la violenza, anche se è in sé superiore a quello precedente, è sempre tirannide.
Tuttavia Mazzini continuò a credere fino al termine della sua vita che il risorgimento politico sarebbe stato incompleto e avrebbe anche potuto fallire, se non avesse condotto a un mutamento di ciò che chiamava la scandalosa realtà degli attuali rapporti sociali. Ammetteva, come aveva già fatto in passato, che la Rivoluzione francese aveva fatto molto per l’affermazione delle libertà individuali; ma i risultati ottenuti non bastavano, perché, anche se grazie ad essi alcuni avevano raggiunto un benessere molto maggiore, non erano però state rimosse le ingiustizie sociali, e per la maggior parte della popolazione il livello di vita era migliorato di poco – se pure era migliorato. Non ci si poteva aspettare che sostenesse la legge e l’ordine una maggioranza popolare a cui erano quasi del tutto inaccessibili la giustizia e i tribunali. La sfrenata concorrenza generata dalla politica del laissez-faire, che, si diceva spesso, avrebbe inevitabilmente condotto a un aumento della produzione, aveva talvolta in pratica risultati opposti, in quanto abbassava i salari e riduceva le possibilità economiche dei comuni cittadini. Un motivo dell’arretratezza dell’Italia era – stranamente, forse – l’eccessivo individualismo. Soltanto da una maggiore cooperazione e da un più forte senso della comunità e dei doveri sociali sarebbe nata un’Italia prospera e veramente liberale; e soltanto se gli economisti avessero studiato la distribuzione tanto quanto la produzione, i necessari cambiamenti politici avrebbero avuto luogo con il consenso generale.
A metà degli anni 1860 Mazzini, in anticipo sul suo tempo, chiedeva, fra le necessarie riforme sociali, l’assicurazione obbligatoria contro le malattie e la vecchiaia. Chiedeva anche l’abolizione della coscrizione: l’esercito di volontari di Garibaldi si era dimostrato assai più efficiente di quello regolare, e poi la relativa regolamentazione italiana era di un’iniquità spaventosa, in quanto consentiva ai ricchi di comperarsi l’esonero dal servizio militare, lasciando ai poveri il compito di combattere per un paese che negava loro il diritto di voto. Anche il sistema fiscale favoriva pesantemente gli interessi dei proprietari terrieri e doveva essere cambiato radicalmente, per ragioni di bilancio come di equità. Mazzini voleva la soppressione delle imposte indirette sui generi alimentari di prima necessità, che, oltre ad essere le più onerose a riscuotersi, gravavano soprattutto sui più poveri, su quelli, cioè, che riuscivano a mala pena a provvedere alle proprie più elementari necessità. In luogo di tali imposte si sarebbero dovute istituire un’imposta sul reddito proporzionata alla ricchezza e un’imposta sull’eredità che gravasse sulle grandi proprietà terriere. A sentire Myers, un suo amico inglese, l’idea di ricavare il grosso delle entrate fiscali da un’imposta sui redditi era, nella politica economica proposta da Mazzini, l’unico punto su cui si sarebbe trovato d’accordo un politico liberale del parlamento britannico.
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