Il mio blog
Gli stati più liberisti sono quelli meno corrotti
Gli scandali a cui assistiamo in questi giorni sono legati a un rapporto patologico tra politica e affari
di Carlo Stagnaro
Lettera al Direttore de Il Foglio
Il privato è il padre dei vizi? Per Massimo Mucchetti (Corriere della Sera, 14 luglio 2010) dietro la "nuova Tangentopoli" ci sarebbe "il crac del capitalismo finanziario anglosassone" cioè "l'idea che la mera privatizzazione dell'economia potesse restituirci un'etica pubblica". Nel ragionamento di Mucchetti c'è un non sequitur: se infatti il problema sta nel passaggio di aziende e interi settori da mani pubbliche a mani private, come mai gli scandali a cui assistiamo in questi giorni sono legati a un rapporto patologico tra politica e affari, e non sfiorano mercati poco politicizzati? Mucchetti ha ragione nel sottolineare che Mani pulite ha sgominato un sistema nel quale "l'industria parastatale e la Pubblica amministrazione erano piegate al finanziamento dei partiti e dei loro dirigenti, spesso associati all'industria privata'; mentre oggi "sono i faccendieri e le lobby che, materialmente o culturalmente, comprano i governanti, asservendoli".
Il comune denominatore tra queste due situazioni apparentemente diverse sta nel potere di intermediazione - e dunque di favoritismo - della politica. La questione morale, cioè, non riguarda la "privatizzazione dell'economia" ma la creazione, o l'ampliamento, di quella zona grigia in cui pubblico e privato non si distinguono, perché, a prescindere dagli assetti proprietari formali, le possibilità di fare business e produrre reddito dipendono dall'intervento, o dai favori, di politici e burocrati. In altre parole, questo è il classico caso in cui non bisogna concentrarsi sulla luna, ma sul dito: si è privatizzato poco e liberalizzato male, e ciò ha determinato conflitti di interesse e posizioni di rendita. Il riferimento al mondo anglosassone, in questo senso, rischia di apparire fuoriluogo. Là non è fallito "il capitalismo": sono fallite alcune banche (e molte di più non sono state lasciate fallire, che è un problema per altre ragioni). In Italia, invece, vediamo accartocciarsi un meccanismo confuso e opaco. Ma, fortunatamente, non c'è solo l'Italia delle cricche: c'è anche un'altra Italia che lavora, produce, compete e miracolosamente sopravvive. Ed è un'Italia essenzialmente privata, un'Italia di cui la politica non si è accorta o che non ha ancora tentato di colonizzare, un'Italia che ha un'etica pubblica ed è l'etica del mercato: se lavori bene cresci, sennò chiudi.
Da Il Foglio, 15 luglio 2010
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LE NUOVE VIE DELLA CORRUZIONE
Il mercato più oscuro
Le cronache giudiziarie stanno ridisegnando l’Italia come una piramide di comitati d’affari, con vetta a Roma ma poi estesa ovunque, in una specie di federalismo dell’arte di arrangiarsi. La cosiddetta P3 ne è l’ultima immagine, dove riemerge perfino Flavio Carboni, vecchio piduista che ebbe il suo momento ai tempi dell’assassinio del banchiere Roberto Calvi, trent’anni fa. Ma l’elenco è lungo: la cricca di Anemone e gli appalti del G8; gli impuniti della ricostruzione dell’Aquila; le speculazioni ospedaliere in Lombardia dove pure la spesa sanitaria rispetto al Pil è la metà di quella della Campania bassoliniana. Proseguire sarebbe stucchevole. Meglio chiedersi come mai ritorni la corruzione, ingigantita e non di rado bipartisan, mentre l’opinione pubblica sembra indignarsi sempre meno.
La corruzione è ancora legata alla spesa pubblica: alle commesse opache, al mercato del diritto, agli incentivi furbeschi, che ora esplodono nell’eolico, domani chissà, ai pagamenti a piè di lista, per cui si operano i pazienti anche quando non serve. Ma rispetto agli anni pre-Mani Pulite c’è un cambiamento. Allora, l’industria parastatale e la pubblica amministrazione erano piegate al finanziamento dei partiti e dei loro dirigenti, spesso associati all’industria privata. Oggi, sono i faccendieri e le lobby che, materialmente o culturalmente, comprano i governanti, asservendoli. È l’inversione di una storia antica che ha nell’indebolirsi della politica la sua radice. Negli Anni 90, i partiti della Seconda Repubblica si gettarono alle spalle tessere, correnti, congressi e con essi l’idea che la leadership fosse da riconquistare ogni giorno, collegio per collegio. Le privatizzazioni furono sentite come l’alba della meritocrazia, dopo la corruzione. Con il tempo si è visto un nuovo tramonto: Parmalat, Popolare di Lodi, Telecom, Fastweb, Unipol, Rai, i traffici sul gas russo, i veleni su Finmeccanica. Un altro elenco lungo e stucchevole. Del quale, tuttavia, non si può tacere il finale: il crac del capitalismo finanziario anglosassone, fonte di ispirazione del riformismo italiano, su entrambi i lati dello schieramento politico. L’idea che la mera privatizzazione dell’economia potesse restituirci un’etica pubblica si è consumata nel falò delle vanità dei fondi che speculano senza costrutto e dei soliti noti che tosano le grandi imprese, nelle paghe smodate dei top manager, banchieri e non, mentre le disuguaglianze aumentano e l’ascensore sociale si ferma. Rimane la privatizzazione della politica. Che va oltre i conflitti d’interesse e contagia il sistema dei partiti dove i leader, o chi ha le chiavi della cassa, sono i padroni. Padroni blindati dalla legge elettorale che costringe i cittadini a votare i loro prescelti, sulla base di un’adesione ideologica in tempi senza ideologie. Come stupirsi se i prescelti, anonimi e miracolati a Roma quanto in provincia, subiscano la tentazione di mettersi al servizio di chi prometta la mancia? P.S. Che cosa aspettano il sottosegretario Nicola Cosentino e il coordinatore del Pdl, Denis Verdini, a dare le dimissioni o Silvio Berlusconi a pretenderle? O il Pdl a farsi sentire?
Massimo Mucchetti
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