Lavoro, sono i migranti che in Italia conducono le lotte più dure. Dai sikh dell'Agro Pontino ai commercianti di Ballarò
Gli indiani sikh che raccolgono frutta nell'Agro Pontino. I commercianti bengalesi del mercato palermitano di Ballarò. I facchini stranieri delle cooperative emiliane e lombarde. Gli africani nei campi del caporalato. Mentre infuriano gli scioperi francesi contro l'equivalente del Jobs Act di Francois Hollande, in Italia sul fronte sindacale sono spesso i migranti a organizzare le lotte più dure per denunciare le condizioni di lavoro: paghe da fame, contratti fasulli, il dominio della criminalità organizzata nelle filiere professionali.
A volte chiedono aiuto ai sindacati, a volte fanno da soli. E non è soltanto il lavoro nero. Soltanto martedì i lavoratori sikh impiegati con un contratto di somministrazione per raccogliere frutta e verdura nelle campi agricoli del Basso Lazio hanno ottenuto finalmente una forte risposta dopo una lunga protesta: la Commissione parlamentare di inchiesta sugli infortuni del lavoro, creata dopo la morte della bracciante Paola Clemente sotto il sole pugliese mentre lavorava all'acinellatura, ha avviato dei controlli che stanno dando ragione alla mobilitazione dei sikh contro la cooperativa presso la quale sono impiegati.
Il risultato ancora parziale è comunque agghiacciante: presenza di caporali che incutono paura ai braccianti e minacciano il licenziamento a coloro che si ribellano alle 12 ore di lavoro massacrante giornaliero per 6 giorni e mezzo la settimana. Paga oraria: 3,5 euro, quando invece in busta paga le ore lavorate risultano minime (12-15 giorni lavorativi al mese).
La Commissione presieduta dalla senatrice Camilla Fabbri ha comprovato che la mobilitazione sindacale dei lavoratori sikh ha una base reale: dietro un apparente contratto regolare si nascondono illegittimità gravissime. I braccianti non ricevono gli 80 euro di Matteo Renzi, nessun accantonamento del tfr, malattia non pagata. E sfruttamento "al limite della decenza".
La lotta dei sikh contro i contratti a buchi è molto simile a quella dei facchini della logistica nelle cooperative emiliane e lombarde che ormai da anni ingaggiano vertenze e scioperi che spesso sfociano in tafferugli con la polizia.
I facchini sono in maggioranza stranieri ma anche italiani che recentemente hanno trovato unità nelle durissime proteste: sit-in davanti ai cancelli che paralizzano i magazzini, scioperi a oltranza, migranti sui tetti per giorni e giorni. Anche loro, come i sikh dell'Agro Pontino, spesso chiedono un controllo serrato dell'applicazione dei contratti che sulla carta risultano regolari ma possono nascondere elusioni e paghe misere.
A volte scatta la denuncia collettiva, come nel caso delle presunte molestie sessuali nei magazzini della Mr Job, appaltatrice della Yoox: tutte straniere le 11 imbustatrici che nel 2014 hanno presentato una querela contro il capo reparto (italiano) che secondo i loro racconti le minacciava di licenziamento se non avessero lavorato a ritmi impossibili. Il processo è ancora in corso.
Intanto quella dei 13 ambulanti bengalesi di Ballarò, a Palermo, è la prima denuncia collettiva contro il pizzo in Sicilia. Solitamente i commercianti non solidarizzano contro la mafia, ma in questo caso è stato lo spirito comunitario forse a infondere coraggio per ribellarsi agli estorsori.
E così il 23 maggio le forze dell'ordine hanno compiuto una retata storica nel quartiere del capoluogo siciliano: i fratelli Santo, Giuseppe, Emanuele e Giacomo Rubino sono stati arrestati e portati in carcere, altri due risultano indagati. Sotto il loro dominio a Ballarò vigeva il terrore, anche per i proprietari di negozio italiani. Il racket non si limitava alla richiesta insistente di soldi, ma si accompagnava a vere e proprie tentate esecuzioni: Emanuele Rubino è anche indagato per aver ferito con un colpo di arma da fuoco un migrante del Gambia, Yusuph Susso, lo scorso aprile lungo una strada trafficata di Palermo.
Sono stati proprio gli spari contro gli africani di Rosarno ad accendere la miccia della rivolta che nel gennaio del 2010 ha coinvolto centinaia di braccianti impiegati nella raccolta delle arance nella piana di Gioia Tauro. Marciando armati di bastoni, i lavoratori dei campi si ribellavano sia allo schiavismo sia alla mafia che impiegava la loro manodopera per una manciata di euro al giorno, a volte neppure quella.
Simile la mobilitazione degli africani di Castelvolturno, sempre nel 2010, per uno sciopero che mai si era visto nel Casertano: lo chiamarono "sciopero delle rotonde" perché i braccianti neri solitamente si radunavano all'alba nei pressi delle rotonde della via Domiziana nell'attesa che i caporali passassero per caricarli e portarli nei campi. Quel giorno quasi nessuno andò a raccogliere frutta e verdure nelle aziende agricole della zona.
Ma a Castelvolturno la protesta era stata ancora più forte dopo la strage dei sei migranti africani crivellati di colpi e uccisi mentre si trovavano in un bar della cittadina. Accadde il 18 settembre del 2008 e per la prima volta in Italia una intera comunità straniera manifestava apertamente e senza paura contro la criminalità organizzata che aveva causato quella macelleria.
Ugualmente contro il caporalato scattò uno sciopero di giorni e giorni dei migranti nei campi del Salento, in Puglia. Stanchi di rimanere chinati anche 14 ore al giorno sotto il sole cocente per pochi euro, i braccianti stranieri nel 2011 smisero all'improvviso di presentarsi dai caporali per chiedere maggiori tutele e la fine delle violenze quotidiane. La protesta durò nonostante le minacce dei cosiddetti datori di lavoro e grazie anche all'aiuto delle associazioni per i diritti dei migranti, operative anche Castelvolturno.
"Il danno economico derivante dallo sciopero potrebbe essere enorme, perché gli italiani da anni non fanno questo genere di lavoro, gli extracomunitari lo capiscono e, forti di questa certezza, cercano una trattativa con la parte datoriale.", scriveva quei giorni Repubblica di Bari.
Dopo quella lotta molti braccianti sono stati assunti e hanno un contratto, anche se nel 2015 almeno 50mila su 160mila lavoravano ancora in nero. "Il problema del lavoro nei campi è che ora chi raccoglie frutta e verdura come la povera Paola Clemente risulta avere un contratto regolare, ma totalmente distorto rispetto alla vera mansione", spiega una fonte della Commissione sugli infortuni del lavoro. "Il problema dei controlli dell'ispettorato del lavoro non riguarda solo il lavoro nero e il caporalato ma anche quella parte di lavoro che apparentemente risulta regolare". Anche contro questo sistema di finte buste paga si sono mobilitati i sikh dell'Agro Pontino.