Gli anni '80 furono un decennio di prosperità e rapidi mutamenti. Nuovi modelli di consumo si imposero nelle case degli italiani e ne aumentarono gli standard di benessere; i risparmi delle famiglie crebbero come mai prima di allora. L'economia attuò il processo di terziarizzazione con successo. Le donne conquistarono livelli di libertà e di occupazione maggiori rispetto al passato. Crebbero l'individualismo, l'associazionismo e così pure il grado d'istruzione della gente. Per la prima volta nella storia della Repubblica prese corpo una società civile variegata e pluralista.
Queste linee di tendenza non portarono però all'affermazione di nuovi progetti collettivi. La modernità italiana aveva una facciata scintillante, tutta moda, viaggi e telecomunicazioni, ma un cuore antico, dominato dall'attaccamento alla famiglia, dalle gerarchie clientelari, dalla corruzione dilagante. La classe operaia organizzata, che ancora nel 1975 Berlinguer vide come portatrice di nuovi valori, futura classe dirigente, subì un irrimediabile declino, anche per la scomparsa del leader comunista di levatura internazionale, capace di guidarla nel decennio fosco. Ai giovani non vennero offerti nuovi punti di riferimento o prospettive diverse. La grande borghesia, che attraversava un momento di rapida espansione, non sembrava capace di offrire molti altri messaggi al di là dell'antico grido di battaglia "Arricchitevi".
I cambiamenti nella sfera pubblica riflettevano e amplificavano questi fallimenti. Lo Stato non svolgeva una funzione pedagogica, la mancanza di investimenti e di riforme delle scuola secondaria e università non facilitarono questa situazione. La presidenza della Repubblica di Sandro Pertini e la crescente affermazione di minoranze virtuose in ogni istituzione dello Stato furono alcune eccezioni in questo panorama inquietante. Tra i vari corpi statali, fu la magistratura quella che vide la presenza più attiva di queste coraggiose minoranze. I giudici vennero chiamati costantemente a giocare un ruolo di primo piano per la debolezza di questi piccoli gruppi negli apparati pubblici; una debolezza più che mai evidente nella classe politica dove i quadri dei partiti di governo offrivano un panorama piuttosto squallido. Sul finire del decennio vi erano un debito pubblico in costante aumento, un'opposizione stanca e povera di idee e una maggioranza decisa a spezzare l'autonomia della magistratura.
Questi anni furono caratterizzati dall'esplosione di una drammatica attività criminale (sì, compresa la P2). La cultura del clientelismo che aveva dominato tanta parte della politica meridionale fornì l'humus ideale per lo sviluppo delle organizzazioni criminali. Come ha affermato l'antropologa Amalia Signorelli, il clientelismo era "la socializzazione di massa all'illegalità". Lungo l'arco di anni dal dopoguerra alla fine del secolo, i padrini della politica del Mezzogiorno convogliarono le risorse pubbliche verso destinazioni scelte a propria discrezione, con lo scopo preciso di rafforzare il proprio potere e le clientele personali.
I boss mafiosi non avevano certo motivo di opporsi a questa prassi. La malavita organizzata non diede quindi inizio a una guerra aperta contro lo Stato, ma un suo avvicinamento, con un approccio cauto e discreto di singoli politici. Il ceto dirigente dell'Italia repubblicana poté contare su una disponibilità di risorse più ampia di qualsiasi élite nella storia unitaria. Dai grandi enti pubblici romani, alla nefanda giunta regionale siciliana, fino alle amministrazioni locali, le opportunità di arricchimento personale attendevano solo di essere colte. Come ha scritto Luciano Violante, mettere le mani sui comuni significava controllare il territorio, costruire in modo selvaggio, inquinare senza controllo, rapinare le risorse naturali e conseguire guadagni giganteschi. I pochi funzionari che tentarono di arginare la marea montante di illegalità venivano sguarniti di mezzi e difese.
Dopo il breve esperimento dei governi di solidarietà nazionale, la politica governativa tornò ad essere dominata dall'alleanza DC-PSI. Ma la coalizione non si fondava sulla fiducia reciproca o su un accordo programmatico; al contrario, era lacerata dal sospetto e da continui giochi di potere. Questo dato di fatto rese praticamente impossibile ogni piano strategico, comportò enormi sprechi di tempo e di energie in lotte intestine, producendo governi tutt'altro che stabili.
Negli anni '40, '50 e '60 le attività sociali e culturali che travalicavano l'orizzonte familiare in Italia erano perlopiù organizzate da due grandi formazioni ideologiche: la Chiesa cattolica e il Partito Comunista. Queste due organizzazioni di massa non si limitavano ad aggregare minoranze istruite, ma coinvolgevano ampi strati delle classi popolari. Negli anni '80, dopo l'epoca delle azioni collettive (1968-1977), il quadro era completamente cambiato. Tanto la Chiesa quanto i comunisti avevano perso gran parte della loro capacità di organizzare attività di massa in modo sistematico. Mentre la Chiesa aveva ancora ruoli significativi nel volontariato ed era possibile parlare di religiosità diffusa anche se la partecipazione alle messe domenicali toccava livelli minimi, il Partito Comunista si trovava in cattive acque: vi fu il definitivo declino delle sue sezioni e dei luoghi di riunione concepiti come punto d'incontro tra strati popolari e classi diverse.
L'ideologia attenuò dunque la sua presa sulla società, con risultati anche positivi, come l'affermarsi di un nuovo pluralismo liberato dalle gerarchie ecclesiastiche e politiche, un nuovo localismo e la nascita di una società civile non legata ai partiti o alla Chiesa, ma fluida, autoinnovativa e imprevedibile. Quasi tutti gli influssi culturali, politici e religiosi che avevano permeato per decenni la storia repubblicana e prima, erano decisamente svaniti. Al loro posto c'era un grande vuoto. Milioni di famiglie italiane erano materialmente molto più ricche di quanto non fossero mai state, ma più povere culturalmente. Il loro coinvolgimento in attività associative era minimo. L'influsso culturale dominante nella loro vita era ormai esercitato dalla televisione.
Fu il decennio della prima immigrazione "extracomunitaria", cessando di essere un Paese esportatore di forza-lavoro e diventando meta migratoria. Prima la popolazione italiana era sempre stata per diversi motivi (culturali, linguistici, etnici, religiosi) straordinariamente omogenea, pertanto apparve molto conservatrice su questo tema, nonché del tutto impreparata e ostile a una nazione multietnica. La televisione italiana diffondeva nei Paesi vicini un autentico miraggio di ricchezza e fortuna, pura illusione anche perché non c'era più l'accesso al benessere immediato attraverso un lavoro stabile. Le prime reazioni degli italiani furono ostili e xenofobiche, ma la cosa scioccante fu la violenza simile a quella perpetrata proprio a danno degli emigranti italiani decenni prima in Europa e in America.