Caro direttore, la crisi italiana è sotto gli occhi di tutti. Non cresce l’economia e si aggrava progressivamente la situazione del debito pubblico. In Europa si guarda con comprensibile preoccupazione al nostro futuro. Questo è il quadro nel quale gli italiani sono chiamati a dicembre a votare il referendum costituzionale. Noi crediamo che non sia giusto illudere gli italiani che i nostri problemi dipendano dal malfunzionamento delle istituzioni e non anche e soprattutto da carenze di guida politica.


L’esperienza del governo Renzi in questi tre anni conferma questo giudizio: le istituzioni non sono la causa del fallimento dell’azione del governo. In realtà, individuata dal presidente Napolitano intorno al governo Letta prima e al governo Renzi poi, una formula politica per formare la maggioranza e risolto il problema della leadership in seno al Pd con la scelta di Renzi, la forte coesione della maggioranza ha reso possibile che le istituzioni facessero la loro parte. Le Camere hanno approvato tutto quello che l’esecutivo ha proposto; il governo non ha mai subito sconfitte parlamentari; Camera e Senato non hanno mai votato in modo difforme; il Senato ha addirittura votato più volte — come ha fatto notare lo stesso Renzi — per la propria soppressione.


Che altro si poteva chiedere, per di più in assenza di una forte opposizione sociale? Eppure i dati economici del reddito e della disoccupazione restano molto preoccupanti e questo alimenta una stato d’animo di cupo pessimismo nel Paese.


L’impegno solenne del governo era di far ripartire l’Italia. L’Italia non è ripartita.


Lo ha affermato a chiarissime lettere qualche giorno fa la Confindustria che certo non nutre animosità nei confronti del governo. Il presidente del Consiglio lo ha confermato dichiarandosi anch’egli profondamente insoddisfatto. In materia economica il governo non ha trovato alcun ostacolo nelle istituzioni. Il Parlamento ha votato il Jobs act, la concessione degli 80 euro, le spending review, la riforma della pubblica amministrazione etc… Se ‘Italia non è uscita dalla crisi, evidentemente è perché il governo non ha saputo trovare la strada.


Dunque non un problema istituzionale, ma un vero problema di leadership politica.


L’altra questione è l’Europa: a nessuno sfugge che il successo di una politica economica è condizionato dall’Europa e l’altro solenne impegno del governo era cambiarne il verso. Ma siamo riusciti mai a capire che cosa si volesse e si voglia davvero? Renzi ha polemizzato infinite volte con delle regole di Bruxelles, ma ha anche dichiarato di voler rispettare le regole europee non per il loro valore intrinseco ma «per i nostri figli». E allora conveniva rispettale senza farsi redarguire con toni che ricordano sempre più da vicino quelli che l’Europa usava verso un suo predecessore. Oppure avere il coraggio di non rispettarle, come del resto fanno la Francia e la Spagna, senza bisogno di polemizzare con le istituzioni europee e i governi di Paesi amici.


Il giudizio più netto sul fallimento della politica europea del governo lo ha dato recentemente in un’intervista il presidente Napolitano, che pure aveva fin qui accompagnato con favore il cammino del premier.


In realtà, l’Italia ha sprecato la grande occasione di stabilità politica e sociale apertasi all’inizio di questa legislatura che doveva servire a uscire dalla crisi economica ed a bloccare la corsa in alto del debito pubblico che, per le sue dimensioni, minaccia non noi soltanto, ma tutta l’Europa. Non rimane più molto tempo per evitare che questi problemi finiscano con lo strangolare il Paese.


Persa questa, la prossima legislatura sarà cruciale.


Se approvata, la riforma costituzionale non chiuderà un capitolo: aprirà invece un immane cantiere istituzionale. Sia perché, come ammettono gli stessi fautori del Sì, la riforma è in molti punti da rivedere —come del resto la stessa legge elettorale che non trova più sostenitori nemmeno tra coloro che l’hanno pretesa a colpi di fiducia — sia perché comunque la riforma richiederà un lungo periodo per consolidarsi. Essa prevede nuovi rapporti fra Stato e Regioni, un nuovo procedimento legislativo, un nuovo Senato che dovrà rodarsi. In altre parole, se passa la riforma, l’Italia non avrà un nuovo sistema istituzionale, ma aprirà un cantiere costituzionale permanente. Mentre l’orologio del debito pubblico scandisce le ore. Al punto cui siamo giunti non si tratta solo di esprimere un giudizio negativo sull’azione del governo che pure non può essere sottaciuto. Si tratta di evitare che l’Italia imbocchi una strada sterile e imprudente.


Se veramente vogliamo fare qualcosa per i nostri figli, è necessario impedire che nel guado da cui il governo Renzi non è stato capace di far uscire il Paese gli italiani si ritrovino ulteriormente zavorrati dal caos istituzionale creato da queste confuse riforme. Dietro rangolo può esserci uno tsunami finanziario dalle inimmaginabili proporzioni. Votare No vuol dire impedire che le già fragili difese del Paese vengano completamente azzerate.Quanto ai passi successivi ci sono le vie ordinarie affidate alla saggezza del presidente della Repubblica o, se del caso, agli elettori.



Giorgio La Malfa


Giorgio La Malfa e Massimo Andolfi sul Corriere della Sera del 10 ottobre 2016 ?Il problema italiano non sono le istituzioni? | Giorgio La Malfa