di Rosario Romeo – “Il Giornale”, 29 giugno 1985


A sostenere che la politica “liberale” dei primi quindici anni del secolo mirasse ad allargare gradualmente le basi dello Stato, inserendovi le masse popolari rimaste escluse dalla élite risorgimentale, fu, nelle sue Memorie del 1922, lo stesso Giolitti; e il tema, svolto con impareggiabile forza di persuasione da Benedetto Croce, è stato poi al centro della “ortodossia giolittiana” dei Salvatorelli e dei Valeri ripresa, anche di recente, da Franco Gaeta, allievo di Valeri precocemente scomparso poco più di un anno fa.

Il ruolo di esponente principale e più autorevole della tendenza “ortodossa” è adesso occupato, a pieno titolo, da Giovanni Spadolini, che torna a riaffermarla e a documentarla col nuovo volume Giolitti: un’epoca (Longanesi, Milano 1985, pp. 426), nel quale profili rapidi ed essenziali, valutazioni critiche e ricerche particolari, nutrite da una vastissima e minuta conoscenza di uomini ed eventi, si succedono a comporre un quadro tuttavia coerente dal principio alla fine. Non che Spadolini sia sempre stato su queste posizioni: ché anzi fra le pagine più interessanti del libro sono quelle in cui egli rievoca le vibrazioni gobettiane dei suoi primi studi sul periodo, anticipati nel 1949 sul “Mondo” di Pannunzio. Solo più tardi e gradualmente egli è giunto, attraverso una riflessione sostenuta da una serie ininterrotta di studi e indagini erudite, ai giudizi e agli atteggiamenti di oggi, che autorizzano a parlare di un suo personale “giolittismo”, fatto di aperture e di disposizioni al negoziato e alla transazione con tutte le forze vive e presenti sulla scena, assai più che di chiusure e di intransigenze. Che questa visione delle cose e questo metodo sia da estendere anche alla politica del segretario del PRI, oltre che allo storico, è questione da non discutere in questa sede. Ma in questa sede, che è di storia, chi scrive ha l’obbligo di riconfermare che i suoi vecchi dubbi e le sue perplessità sulle tesi “ortodosse” non sono venute meno, neanche dopo la lettura di questo libro. Sono dubbi e perplessità che ho avuto più volte occasione di manifestare: e in una pagina di questo volume Spadolini non manca di ricordare che un mio articolo sui rapporti fra Albertini e Giolitti, apparso su un quotidiano diretto appunto da Spadolini, provocò da parte di Luigi Salvatorelli, una lettera furibonda, nella quale il vecchio apologeta di Giolitti si consentiva di qualificare di “cattiva azione” il fatto che io tendessi, a suo giudizio, a prendere partito più per Albertini che per Giolitti.

La questione era naturalmente più complessa, e non starò qui a precisarne i termini, reperibili d’altronde da chiunque abbia interesse a conoscerli. Ma è chiaro che il settarismo con cui Salvatorelli guardò sempre alle questioni che avevano anche coinvolto una sua militanza politica o giornalistica, gli vietò, in quella come in altre occasioni, di intendere di che si trattasse. Ma il mio dissenso da Spadolini è di tutt’altra natura, come di tutt’altra natura è il suo giolittismo, di ordine intellettuale e se si vuole temperamentale, ma non certo settario e viscerale. Resta tuttavia legittimo chiedersi se davvero le sue ricerche giustifichino il netto rifiuto che qui leggiamo dell’affermazione di Emilio Gentile che Giolitti alla vigilia della guerra mondiale non aveva risolto nessuno dei problemi che aveva cercato di affrontare nel suo lungo periodo di governo. Spadolini riconosce che proprio negli anni dell’ “apogeo” giolittiano, dal 1909 al 1913, “il socialismo […] si volse verso un massimalismo che accettava il mito della violenza”; e nello stesso tempo “la forza organizzata dei cattolici superò tutte le previsioni”. Era una “nuova dislocazione dei partiti”, un “nuovo schieramento di forze che trascendeva tanta parte degli antichi calcoli e accorgimenti” dello statista di Dronero. Sono constatazioni inoppugnabili: ma chi, come Spadolini, ne avverte tutta l’importanza, dovrebbe essere indotto a rimeditare il giudizio secondo il quale la strumentazione politica giolittiana aveva preparato l’avvio a un pacifico e liberale allargamento del sistema politico italiano.

Ma al di fuori di questa tematica che minaccia di isterilirsi in una serie di alternative senza mediazioni, l’opera di Spadolini pone altre questioni di grande rilievo: e fra queste, più importante e meglio elaborata delle altre anche grazie ai molti studi che l’autore vi ha dedicato nel corso di decenni di ricerche, quella del rapporto fra Italia liberale e Italia cattolica, e in particolare del destino che attendeva il sistema politico nato dal Risorgimento, una volta che gli steccati eretti contro il mondo cattolico fossero caduti davanti alla minaccia socialista e agli effetti della “conciliazione silenziosa”, patrocinata da Giolitti. Non era tanto il moderatismo cattolico che ormai si affacciava sugli spalti, nonostante che allora fossero proprio i moderati a raccogliere i successi più vistosi, dalle elezioni del 1904 al patto Gentiloni. Assai più vitale, e carico di avvenire, nota giustamente Spadolini, era piuttosto quel cattolicesimo di impronta sociale e democratica che con Murri conobbe il gelo dell’epoca di Papa Sarto, ma che era invece destinato a raccogliere l’eredità dello Stato risorgimentale e a reggere il potere nel secondo dopoguerra, per un periodo di cui ancora non si scorge la fine. Conseguenza inevitabile, a giudizio di Spadolini, della caduta del non expedit e della introduzione del suffragio universale, che faranno riemergere gli strati profondi della società italiana, segnata da tanti secoli di cattolicesimo, nella quale le forze laiche di origine risorgimentale erano destinate a rimanere nei limiti insuperabili dell’ “Italia di minoranza”.

E tuttavia, a travolgere l’Italia liberale non fu il partito popolare di Sturzo ma il fascismo di Mussolini: forza nuova e composita certamente, ma erede assai più di tematiche nazionali e attivistiche di origine laica che non della cultura politica dei cattolici. Fu solo il crollo del fascismo che aprì alla Democrazia cristiana l’accesso a un potere ormai caduto a terra e che attendeva solo chi lo raccattasse: un po’ come accadde in Germania ai partiti cristiani del dopoguerra, eredi anch’essi del disastro nazionalsocialista. Sono questioni qui appena accennate ma che la lettura del libro sollecita energicamente, in uno sforzo di riflessione che molto potrebbe contribuire a render più chiare forze e debolezze del sistema politico che tuttora governa il nostro Paese.


Rosario Romeo


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