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    Predefinito La legge Acerbo 1923-1924

    Il suicidio della classe dirigente liberale

    La legge Acerbo 1923-1924



    di Giovanni Sabbatucci – “Italia contemporanea”, marzo 1989, pp. 57-80.



    Fra le leggi elettorali, la legge Acerbo è una di quelle che hanno avuto vita più breve; è rimasta infatti in vigore per una sola consultazione politica, quella dell’aprile 1924, ed è stata accantonata già all’inizio del 1925, quando entrò in vigore una nuova legge che reintroduceva il collegio uninominale (e che peraltro non sarebbe mai stata applicata). Nessun’altra legge elettorale ha avuto però conseguenze politiche tanto dirompenti, non solo sui rapporti di forza politico-parlamentari, ma anche sugli equilibri istituzionali del paese.

    Nella storia della crisi dello stato liberale italiano e della sua successiva trasformazione in stata autoritario, il varo della legge maggioritaria rappresenta infatti un momento chiave. Forse addirittura il momento chiave: più della marcia su Roma – il cui esito lasciava ancora ampi margini per un ritorno alla normalità statutaria – e più della crisi Matteotti – che al contrario cadde in un momento in cui gli spazi di manovra legale erano estremamente ridotti, proprio per l’esistenza di una Camera a maggioranza fascista. L’approvazione della legge Acerbo si situa, anche cronologicamente, in mezzo a queste due crisi, come un passaggio decisivo. È infatti grazie a essa che Mussolini può rovesciare quei rapporti di forza parlamentari che vedevano il fascismo in posizione nettamente minoritaria (dalle elezioni del 1921 erano usciti 35 deputati fascisti, non più del 7 per cento della Camera elettiva) e trasformare la maggioranza liberal-popolare (l’unica praticabile nella vecchia Camera) in una maggioranza in teoria liberal-fascista, in realtà fascista tout-court.

    In questo senso, l’approvazione di quella legge da parte di quella Camera si può annoverare fra i casi classici di suicidio di un’assemblea rappresentativa, accanto a quello del Reichstag che vota i pieni poteri a Hitler nel marzo del 1933 o quello della Assemblea nazionale francese che consegna il paese a Pétain nel luglio del 1940.

    Cercheremo quindi di capire come e perché si sia consumato questo suicidio. Non prima però di aver esposto sommariamente le caratteristiche salienti della legge. E non senza aver notato, in via preliminare, come essa segni una brusca inversione di marcia in un cammino – quello delle leggi italiane – che fin allora si era sempre svolto nel segno di un progressivo allargamento dell’area di partecipazione al voto e di una crescente rappresentatività dell’istituzione parlamentare: nel segno dunque della transizione dal liberalismo ottocentesco alla democrazia di massa. Qui invece assistiamo al passaggio dalla democrazia rappresentativa a una sorta di democrazia autoritaria e plebiscitaria. Un sistema molto diverso da quello sperimentato nei primi anni del dopoguerra, ma anche da quello che si sarebbe poi affermato come forma definitiva del potere fascista: il quale, com’è noto, non si accontentò di avere una maggioranza parlamentare artificiosa e docile (ma pur sempre esposta all’alea delle consultazioni popolare e della dialettica maggioranza-opposizione) e preferì ridurre la Camera rappresentativa a una pura finzione, per poi abolirla del tutto.


    Caratteristiche e genesi della legge

    La legge maggioritaria del 1923 dovrebbe chiamarsi, a rigore, “legge Mussolini” (e come tale viene in effetti menzionata nell’indice degli Atti parlamentari). L’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo fu infatti solo l’estensore materiale del disegno di legge di iniziativa governativa poi discusso e approvato (salvo modifiche marginali) dai due rami del Parlamento e trasformatosi nella legge n. 2444 del 18 novembre 1923: legge che porta il titolo, alquanto modesto, di Modificazioni alla legge elettorale politica, t.u. 2 settembre 1919 e che sarebbe poi confluita in un nuovo testo unico varato col regio decreto n. 2649 del 13 dicembre 1923.

    Le “modificazioni” alla legge del 1919 sono in gran parte di carattere tecnico e riguardano per lo più i requisiti per l’elettorato attivo e passivo e le modalità delle operazioni di voto e di scrutinio. Fra le novità rilevanti, va ricordata quella relativa all’abbassamento dell’età minima per la eleggibilità, che passa da trenta a venticinque anni. Importante, e senz’altro positiva, è la norma che introduce la cosiddetta “scheda di Stato”: una pratica che oggi ci appare scontata, ma che allora incontrò non poche opposizioni nello schieramento liberal-conservatore.
    Le innovazioni “forti” dal punto di vista politico sono contenute in pochi articoli, in particolare il 40 e l’84-bis (82 del testo unico). L’art. 40 stabilisce che “tutto il regno forma un Collegio unico nazionale”. Questo collegio è però diviso in circoscrizioni elettorali. Le circoscrizioni sono quindici (contro le quaranta delle elezioni del 1921) e corrispondono grosso modo alle regioni: l Trentino è unito al Veneto, l’Umbria al Lazio, la Basilicata alla Calabria; originariamente era prevista una sedicesima circoscrizione, quella del Sannio, poi diviso fra Abruzzi-Molise e Campania. Ogni circoscrizione ha diritto a un numero di seggi proporzionale alla sua popolazione (art. 41). Le liste devono essere presentate in almeno due circoscrizioni (una misura rivolta chiaramente contro le liste locali o etniche) e non possono contenere un numero di candidati superiore ai due terzi di quelli assegnati alla circoscrizione. I candidati non possono presentarsi in più di due circoscrizioni (artt. 52, 53, 54). Gli elettori possono esprimere preferenze in numero non superiore a due (tre se i deputati assegnati alla circoscrizione sono più di venti), (art. 69).
    A votazioni ultimate, un Ufficio centrale nazionale, costituito presso la Corte d’appello di Roma, stabilisce qual è la lista che ha ottenuto il maggior numero di voti nel collegio unico nazionale: a questa lista, purché abbia superato il 25 per cento del totale, vengono assegnati 356 seggi, ossia i due terzi dei 535 disponibili (art. 84-bis). Questo significa che la lista vincente vede eletti tutti i suoi candidati: al limite anche quelli che non abbiano ricevuto nessun voto di preferenza o che non abbiano ottenuto nessun voto di lista nella propria circoscrizione. I rimanenti 179 seggi sono divisi fra le minoranze con criterio proporzionale, nell’ambito delle circoscrizioni regionali: fra i candidati delle liste di minoranza, risultano naturalmente eletti quelli col maggior numero di preferenze. Nell’ipotesi, del tutto teorica, che nessuna lista ottenga il 25 per cento dei voti, i seggi vengono assegnati con criterio proporzionale nell’ambito delle singole circoscrizioni.
    Da un punto di vista tecnico, l’aspetto più interessante e innovativo della legge sta sicuramente nell’introduzione di un premio di maggioranza legato a un computo dei voti su base nazionale: un meccanismo che, combinando il principio maggioritario col metodo dello scrutinio di lista, consente la formazione di maggioranze stabili, lasciando al tempo stesso ai partiti minori la possibilità di essere rappresentati in parlamento (cosa che in genere non avviene in regime di collegio uninominale). La novità, in sé e per sé, è tutt’altro che scandalosa (a parte l’aporia, rilevata da Maranini, [1] di quel doppio sistema, maggioritario e nazionale per la lista vincente e proporzionale e regionale per le minoranze, in una stessa fase del processo elettorale): il premio di maggioranza è uno dei tanti metodi adottabili – e adottati – nelle democrazia moderne per ovviare ai danni derivanti dall’instabilità dei sistemi parlamentari. Gli aspetti abnormi della legge Acerbo sono altri, e si possono sintetizzare in due punti:

    a) l’entità del premio di maggioranza, in rapporto all’esiguità del quorum richiesto per farlo scattare: nel caso limite, un quarto dei voti avrebbe potuto fruttare i due terzi dei seggi, moltiplicando per oltre due volte e mezzo il numero dei deputati spettanti alla lista vincitrice;

    b) la coincidenza fra il numero dei candidati e il numero degli eletti della lista vincente: in pratica, un meccanismo di blocco che trasferiva il diritto di scelta dei deputati dall’elettorato al vertice dei partiti (nella fattispecie, del Partito fascista), dal momento della votazione a quello della formazione delle liste. Un meccanismo abnorme non tanto in sé e per sé, quanto per la rottura che segnava nei confronti di tutta la tradizione della classe dirigente liberale, che si era sempre fondata sul rapporto personale fra eletto ed elettore (e proprio per questo era ostile alla proporzionale).

    Che un meccanismo di questo genere sia stato approvato da una Camera in cui la stragrande maggioranza era divisa tra sostenitori della proporzionale (i partiti di massa) e nostalgici del collegio uninominale (i gruppi liberal-democratci) è cosa che non finisce di stupire. Vediamo dunque come e perché ciò sia potuto accadere.
    Di una possibile riforma, o controriforma, elettorale si parlava in Italia già da parecchio tempo, praticamente da quando, nel 1919, era stata varata e applicata la proporzionale. Un sistema che la classe dirigente liberale aveva, a suo tempo, accettato a malincuore: un po’ come male necessario, come inevitabile concessione ai partiti di massa in una stagione di grandi sovvertimenti; un po’ come garanzia di sopravvivenza nel caso non improbabile di una sconfitta. Nel corso della XXVI legislatura – e precisamente fra il giugno del 1921 e il febbraio del 1923 – erano state presentate alla Commissione interni della Camera da esponenti di diverse forze politiche ben quindici proposte di legge contenenti modifiche al sistema elettorale vigente, nessuna delle quali però era mai giunta alla discussione in aula. Quanto a Mussolini, appena andato al governo, non aveva nascosto la sua intenzione di convocare nuove elezioni per costruirsi una Camera più confacente alle sue ambizioni e al nuovo ruolo assunto dal fascismo sulla scena politica italiana; e aveva anche annunciato di voler procedere a un mutamento del sistema elettorale.
    In un primo tempo, il capo del governo aveva sperato di ottenere su questa materia una delega in bianco, nell’ambito della legge sui pieni poteri; poi aveva fatto un tentativo di varare la riforma per decreto reale. Ma, di fronte al duplice rifiuto del re, aveva dovuto ripiegare su un iter normale: iter che si presentava tutt’altro che agevole, vista la scontata opposizione dei popolari (partner della maggioranza e del governo) all’abbandono della proporzionale e al ritorno al collegio uninominale, gradito invece ai liberali. In realtà, Mussolini e i suoi più stretti collaboratori non pensavano al collegio uninominale, ma a qualcosa d’altro.
    La prima indicazione circa i contenuti del nuovo progetto viene da una breve intervista rilasciata al “Popolo d’Italia”, il 13 novembre 1922, dal segretario del Pnf Michele Bianchi. Nell’intervista si parla di “sistema maggioritario con due terzi dei posti alla lista che avrà la maggioranza”, anche relativa, e che sarà eletta per intero; e di “rappresentanza proporzionale alle altre liste per il restante terzo dei posti”. Si aggiunge inoltre che le circoscrizioni saranno ampliate a scala regionale “per dar modo alle varie liste di minoranza di aver ciascuna la propria rappresentanza”. Troviamo qui esposti, a due settimane dalla marcia su Roma, alcuni dei principi fondamentali della futura legge Acerbo (con una differenza importante: qui non si parla ancora di collegio unico nazionale, ma solo di circoscrizioni regionali).

    Due settimane dopo, è lo stesso capo del Governo - che in precedenza aveva dato l’impressione di orientarsi verso soluzioni diverse (voto plurimo, corpi tecnici) – ad avallare, sia pure ufficiosamente, le proposte del segretario. Una corrispondenza da Roma apparsa sulle pagine interne del “Popolo d’Italia” del 29 novembre, riferendo su un colloquio fra Mussolini e il presidente della Camera De Nicola, attribuisce al governo la decisione di presentare alla Camera il progetto già illustrato da Bianchi e “poggiato sui seguenti capisaldi: due terzi dei posti da assegnarsi alla lista che avrà il maggior numero di deputati e il restante terzo dei voti diviso proporzionalmente fra le altre liste in competizione […] le circoscrizioni saranno prevalentemente regionali”.

    Perché scegliere un sistema così macchinoso e, per quanto ci risulta, mai sperimentato fin allora a livello di elezioni politiche? Certo perché era il sistema più sicuro per dare stabilità alla maggioranza. Ma forse anche perché si pensava che un meccanismo di questo genere (che teneva fermo il principio dello scrutinio di lista) avrebbe potuto più facilmente essere accettato dai popolari. Questo calcolo, se pure vi fu, parve, almeno in un primo tempo, rivelarsi sbagliato. Dai popolari non venne alcun segnale di disponibilità, mentre sulla stampa liberale (in particolare sul “Corriere della Sera” e sul “Mondo”)[2] apparivano le prime prese di posizione decisamente contrarie al “progetto Bianchi” (e alle connesse ipotesi di riforma costituzionale che il segretario del Pnf aveva lanciato in un’intervista al “Popolo d’Italia” del 29 dicembre).

    Qualche difficoltà sorse anche all’interno del Partito fascista. Contrariamente al nuovo sistema, e favorevole al collegio uninominale, era il leader degli intransigenti Farinacci, che, all’inizio di febbraio, intervenne ripetutamente sul tema, con articoli e lettere aperte, usando argomenti degni della miglior tradizione liberale: la necessità di non rompere il legame fra il deputato e il proprio collegio e di lasciare agli elettori (anziché al partito) il diritto di scelta dei rappresentanti.[3] In realtà, difendendo il collegio uninominale, Farinacci non solo agiva in coerenza con la sua posizione di ras provinciale che aveva nella realtà locale le radici del suo potere (né più né meno come i deputati liberali), ma si opponeva implicitamente alla prospettiva di una grande coalizione “nazionale” (magari estesa anche ai popolari): prospettiva che era chiaramente sottesa al progetto di legge maggioritaria.


    (continua)






    [1] G. MARANINI, Storia del potere in Italia, Vallecchi, Firenze 1967, p. 307.


    [2] Progetti, “Il Corriere della sera”, 4 gennaio 1923 e Un sistema equivoco, “Il Mondo”, 4 gennaio 1923.


    [3] Gli interventi di Farinacci, apparsi su “Cremona nuova” il 4 e l’11 febbraio, sono ampiamente citati in R. DE FELICE, Mussolini il fascista. I. La conquista del potere, Einaudi, Torino 1966, pp. 520-524.
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    Predefinito Re: La legge Acerbo 1923-1924

    Il 16 marzo 1923, il Gran consiglio del fascismo nominò una commissione – di cui facevano parte sia Bianchi sia Farinacci – col compito di definire i contenuti della riforma. La commissione concluse i suoi lavori il 25 aprile, approvando a larghissima maggioranza (21 voti favorevoli, contro 2 contrari e 2 astenuti) un ordine del giorno che ricalcava, senza aggiungervi alcuna precisazione significativa, le linee già esposte da Bianchi nella citata intervista del novembre 1922, con la motivazione che il sistema maggioritario “a più vaste circoscrizioni elettorali” avrebbe favorito “l’unificazione e l’integrazione” di tutte le forze nazionali.[1] Quando il Gran consiglio si esprime sulla riforma elettorale, è appena avvenuta la rottura con i popolari, congedati dal governo (ma non dalla maggioranza) in seguito ai risultati del congresso di Torino (aprile 1923). Questo significa che un’approvazione del Ppi al progetto di riforma – già molto problematica – diventa ancor più difficile. Mussolini continua a trattare con i popolari, ma, più che a ottenere il loro appoggio, punta a metterli in crisi (e, come vedremo, ci riuscirà). In realtà, sapendo che comunque la legge non avrà l’approvazione dell’intera maggioranza, tende a forzarne i contenuti, contando sull’acquiescenza dello schieramento liberale.

    Le prime reazioni della stampa liberal-democratica alla decisione del Gran consiglio sono per lo più critiche, ma di tono complessivamente moderato. “La Stampa” e “Il Mondo” – che a suo tempo avevano duramente attaccato il progetto Bianchi – sottolineano come il vero problema stia non tanto nello scegliere questo o quel sistema elettorale (tutti i sistemi hanno i loro pregi e i loro difetti), quanto nel garantire la libertà di voto e la sopravvivenza delle istituzioni rappresentative.[2]

    Chi invece si mobilita sul serio contro il sistema maggioritario è Filippo Turati, che, in queste settimane, cerca di ridar vita alla Associazione proporzionalista (fondata a Milano nel lontano 1911 e dissoltasi dopo l’approvazione della legge del 1919) e di farne il centro propulsore di una sorta di fronte democratico – quasi una vecchia riedizione della vecchia “Lega per la difesa della libertà” – comprendente i democratici antifascisti e soprattutto i popolari. L’operazione però non riesce che in parte. La “Petizione in difesa della Proporzionale e della Costituzione” presentata da Turati alla Camera (e da Abbiate al Sentato) il 12 maggio[3] ottiene la firma di un nutrito gruppo di intellettuali e uomini politici di varia collocazione (fra gli altri, Missiroli e Salvatorelli, Rosselli e Trentin, Vercesi e Luigi Meda); ma non quella di Sturzo, che non se la sente di impegnare il partito, e nemmeno quelle di Amendola e Bonomi, che preferiscono mantenere una certa libertà di movimento.

    In campo liberale, la discussione fu più animata, e i toni della polemica salgono a partire dalla seconda metà di maggio, quando il progetto di riforma entra nella sua fase operativa. Il 18 maggio, dopo aver dato ad Acerbo l’incarico di stendere il testo di un disegno di legge, Mussolini si incontra con Renato Casertano, esponente della Democrazia sociale e presidente della Commissione interni della Camera, per discutere le linee di fondo del progetto (che da ora in poi si chiamerà “progetto Acerbo” e non più “progetto Bianchi”). Riferendo sul colloquio, “Il Popolo d’Italia” lascia trapelare alcune indiscrezioni sui contenuti; più importante di tutte quella secondo cui il capo del governo si sarebbe mostrato favorevole “al collegio unico nazionale sul sistema maggioritario, con rappresentanza proporzionale per le minoranze”.[4]

    La novità non è di poco conto: il collegio unico, infatti, conferisce alle elezioni un carattere chiaramente plebiscitario, toglie ogni spazio di manovra ai gruppi organizzati su base locale e riduce drasticamente le chances delle opposizioni (che, col sistema delle circoscrizioni regionali, avrebbero potuto aspirare alla conquista di qualche quorum, partecipando così ai vantaggi del meccanismo maggioritario). […]

    Alla fine di maggio, mentre i giornali liberali si interrogano e si illudono sulle reali intenzioni di Mussolini, Acerbo lavora alacremente alla stesura del disegno di legge, confortato – stando a quanto lui stesso testimonierà molti anni più tardi – dall’assistenza “tecnica” dei più autorevoli esponenti liberali e soprattutto del presidente della Camera De Nicola.[5] Il 2 giugno, Mussolini si incontra con Acerbo all’Hotel Danieli di Venezia e dà la sua approvazione al disegno di legge. Il 6, il testo è approvato all’unanimità dal Consiglio del ministri (nel quale sono ancora presenti liberali e demosociali). Il 12, il gruppo parlamentare della Democrazia sociale approva “il principio informatore della riforma elettorale”.

    Si noti che, rispetto ai progetti e alle anticipazioni della vigilia, il disegno di legge non conteneva nessun temperamento che andasse incontro in qualche misura alle attese dei fiancheggiatori. L’unica novità – e non era certo una novità positiva – stava nell’indicazione del 25 per cento dei voti come quorum necessario per far scattare il premio di maggioranza consistente nell’attribuzione dei due terzi dei seggi.

    Ci si può chiedere il perché di una proposta così drastica, dal momento che, portando il quorum a una misura più ragionevole (per esempio, il 40 per cento), Mussolini avrebbe potuto non solo fornire una prova di buona volontà ai liberali, ma soprattutto riconquistare l’appoggio dei popolari, che non muovevano obiezioni di principio contro il collegio unico e che, pur restando formalmente attestati in difesa della proporzionale, erano in realtà disposti a trattare proprio sulla base di una correzione del quorum e del premio di maggioranza (lo stesso De Gasperi, leader del gruppo parlamentare del Ppi, aveva manifestato qualche disponibilità in tal senso nel corso di colloqui riservati con Mussolini).[6] In fondo, nel caso, peraltro improbabile, di una divisione delle forze filofasciste, il quorum di un quarto dei voti poteva apparire alla portata di un eventuale cartello delle opposizioni (preoccupazioni in questo senso erano state espresse ripetutamente dalla stampa liberale, che aveva anche messo in guardia contro l’eventualità di alleanze “innaturali” provocate dal sistema maggioritario). Al contrario, una lista di concentrazione nazionale (a cui Mussolini sicuramente pensava) avrebbe potuto centrare facilmente l’obiettivo del 40 per cento. In questo caso, però, la collaborazione con i liberali (e in genere con i “fiancheggiatori” di ogni colore) sarebbe stata per i fascisti una necessità, e non una scelta: il che avrebbe indebolito la loro forza contrattuale in sede di formazione delle liste. Il 25 per cento, invece, i fascisti potevano pensare di ottenerlo anche da soli (certo non mancavano loro i mezzi per riuscire nell’impresa) o quanto meno potevano far mostra di pensarlo, anche se non era questa la loro intenzione.

    Bisogna ricordare infine che, nel giugno del 1923, Mussolini non doveva più preoccuparsi di guadagnarsi l’appoggio dei liberali, visto il loro atteggiamento remissivo, e non aveva nessuna intenzione di cercare l’accordo con i popolari, contro i quali anzi si apprestava a lanciare la sua offensiva finale.


    (continua)





    [1] Per il testo dell’ordine del giorno, vedi Partito nazionale fascista, Il Gran consiglio nei primi anni dell’era fascista, Nuova Europa, Roma 1933, pp. 55-56.


    [2] La pregiudiziale, “La Stampa”, 27 aprile 1923 e Travaglio fascista, “Il Mondo”, 27 aprile 1923.


    [3] Per il testo della petizione e i nomi dei firmatari, vedi “La Giustizia”, 13 maggio 1923.


    [4] Per la riforma elettorale. Colloquio Mussolini-Casertano, “Il Popolo d’Italia”, 19 maggio 1923.


    [5] G. ACERBO, Fra due plotoni di esecuzione, Cappelli, Bologna 1968, pp. 222-223.


    [6] Vedi “Il Mondo”, 13 giugno 1923.
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    Predefinito Re: La legge Acerbo 1923-1924

    L’iter parlamentare


    Superati gli scogli della fase preparatoria, il disegno di legge governativo sulla riforma elettorale doveva affrontare la sua prova più impegnativa e rischiosa: quella del dibattito parlamentare.

    Il 9 giugno 1923, Mussolini presenta il testo alla Camera (accompagnandolo con una relazione “tecnica” dai toni molto moderati)[1] e chiede che sia nominata una commissione per esaminare il progetto. La Commissione, che sarà detta “dei diciotto” è nominata dal presidente De Nicola secondo un criterio (in realtà non del tutto equilibrato) di rappresentanza dei gruppi[2] e annovera fra i suoi membri molti parlamentari di primo piano, fra cui ben quattro ex presidenti del consiglio: Giolitti (che fungerà da presidente) e Orlando per il gruppo della “Democrazia”, Salandra per i liberali di destra, Bonomi per il gruppo riformista, Grassi per i demoliberali, Falcioni per la “Democrazia italiana” (nittiano-amendoliani), Fera e Casertano per i demosociali, Lanza di Scalea per il gruppo agrario, Paolucci e Terzaghi per i fascisti, Orano (che in realtà è fascista anche lui) per il gruppo misto, De Gasperi e Micheli per i popolari, Chiesa per i repubblicani, Turati per il Psu, Lazzari per il Psi, Graziadei per il Pcd’i.

    Nella commissione – che inizia i suoi lavori il 15 giugno – gli schieramenti si delineano subito con chiarezza. I rappresentanti della sinistra sono naturalmente contrari, non solo per fedeltà alla proporzionale (il discorso vale soprattutto per Turati), ma anche per motivi di principio, non ultimo quello relativo all’atmosfera tutt’altro che tranquilla in cui si svolge il dibattito (Turati lo dice chiaramente: “Questo progetto si discute con le mitragliatrici accanto […] In queste condizioni non voterei neppure un progetto che instaurasse energicamente il socialismo”).[3] […]

    Contro il disegno di legge sono naturalmente schierati anche i popolari, proporzionalisti da sempre (Micheli era stato fra l’altro uno dei maggiori artefici della legge elettorale del 1919). Il 10 giugno, la direzione del partito si è espressa decisamente contro il disegno di legge e per il mantenimento della proporzionale; e la decisione è stata solennemente confermata il 14 in una riunione del gruppo parlamentare, l’ultima tenuta alla presenza di Sturzo. Il realtà il Ppi – che fa ancora parte della maggioranza e sta subendo la doppia pressione del Vaticano e dei fascisti – conduce un’opposizione non pregiudiziale, aperta a ipotesi di compromesso che si basino sull’innalzamento del quorum e sulla riduzione del premio di maggioranza. Analoga è la posizione di Bonomi e di Falcioni. In tutto, i contrari (duri o flessibili) sono otto.

    Dall’altra parte ci sono i tre fascisti, ovviamente favorevoli. Restano sette commissionari (Giolitti, Orlando, Salandra, Lanza di Scalea, Grassi, Fera e Casertano) appartenenti ai gruppi democratico-liberali e conservatori. Nessuno di loro, come già sappiamo, è entusiasta del disegno di legge. Alcuni – è il caso di Orlando – ne hanno pubblicamente criticato i princìpi informatori. Tutti preferirebbero il ritorno al collegio uninominale. Eppure questi sette parlamentari – fra i più autorevoli e navigati della Camera – non solo rinunciano ad attaccare in blocco il progetto Acerbo, ma si astengono dal proporre qualsiasi modifica sostanziale e finiscono sistematicamente col far blocco coi fascisti, determinando così una maggioranza di dieci contro otto. Giolitti parla pochissimo e si trincera dietri i doveri di imparzialità inerenti alla sua carica di presidente. Orlando interviene solo su questioni di dettaglio. Casertano, che sarà relatore di maggioranza, è ormai passato fra i fautori aperti del sistema maggioritario. Salandra, il più sincero di tutti, fa una dichiarazione in cui, pur confermandosi “avverso a ogni più o meno perfetto congegno elettorale che sostituisca il numero all’uomo, il partito al cittadino”, annuncia che darà comunque il voto favorevole per manifestare la sua fiducia al governo, ben consapevole di compiere anzitutto un “atto politico”.[4] La sintesi più efficace dell’atteggiamento dei liberali, la darà più tardi Amendola in un articolo sul “Mondo”: “La verità è che […] molti, moltissimi non volevano la riforma elettorale proposta dal governo, mentre nessuno si proponeva, non diciamo di rovesciare il governo, ma nemmeno di limitare o intralciare il suo esperimento”.[5] […]

    Ai primi di luglio, la Commissione dei diciotto conclude comunque i suoi lavori approvando, con una maggioranza di dieci contro otto, la sostanza del disegno di legge governativo. […]

    Il progetto fascista di riforma elettorale aveva vinto così la sua prima battaglia. Ma la vittoria contava poco, visto che il disegno di legge doveva comunque passare in aula, dove la maggioranza della Commissione dei diciotto era, almeno sulla carta, un minoranza. Se i popolari avessero mantenuto le loro posizioni, se almeno una parte dei riformisti di Bonomi e dei democratici amendoliani avessero votato contro il governo – se in altri termini i gruppi della Camera si fossero comportati come i loro rappresentanti in Commissione – il disegno di legge sarebbe stato respinto con largo margine.

    Ma è proprio nel momento decisivo della discussione in aula che si sviluppa in tutta la sua efficacia la manovra mussoliniana, condotta, come al solito, simultaneamente su due terreni: quello della trattativa (una trattativa più apparente che reale), con le abituali promesse di normalizzazione a tutti i livelli; e quello del ricatto sostenuto dalla minaccia del ricorso alla forza. Nei giorni che precedono il dibattito si assiste non solo a una recrudescenza delle violenze squadriste (soprattutto contro il Partito popolare e le organizzazioni cattoliche), non solo a un crescendo di minacce contro la stampa d’opposizione (preso di mira è soprattutto “Il Corriere della Sera”), ma anche al moltiplicarsi della voci allarmistiche circa un vero e proprio colpo di stato con tanto di assalto al parlamento da parte della camicie nere in casi di bocciatura della legge.

    La pressione fascista si esercita in primo luogo contro i popolari. Non solo perché il Ppi è il fulcro dello schieramento parlamentare avverso alla legge (se i popolari tengono, è chiaro che la legge non passerà; se cedono, c’è poco da contare sulla tenuta dei gruppi democratici e riformisti); ma anche perché Mussolini, a prescindere dalle sorti della riforma elettorale, ha comunque interesse a mettere in crisi il più ingombrante dei suoi alleati, nei confronti del quale ha già avviato una manovra disgregatrice a largo raggio: manovra che ha il suo punto di forza nell’atteggiamento del Vaticano e che può contare anche su una quinta colonna all’interno del partito (i clerico-nazionali). Non è il caso di ricostruire qui la vicenda, del resto notissima, della crisi del Ppi nell’estate 1923. Basterà ricordare che Sturzo è praticamente costretto a dimettersi proprio ai primi di luglio (cioè alla vigilia del dibattito sulla legge Acerbo) e che, eliminato Sturzo, viene meno non solo il più deciso difensore della proporzionale, ma anche l’unica autorità capace di impedire lo sfaldamento del partito.

    Il dibattito parlamentare inizia così, il 10 luglio, in un clima politicamente incandescente, reso ancor più drammatico dalla presenza ostentata – e colpevolmente tollerata dal presidente De Nicola – degli squadristi armati nelle tribune di Montecitorio. […]

    Alla fine del dibattito, le posizioni restano comunque quelle di partenza. I popolari, in particolare, avendo visto rifiutata la loro proposta di compromesso, non possono far altro che confermare la loro opposizione. Quando si arriva alla votazione un ordine del giorno presentato dal liberale Larussa, che conferma la fiducia al governo e approva i principi generali della riforma, i popolari, per bocca di De Gasperi, chiedono che il documento sia diviso in due parti e annunciano che voteranno a favore della prima (la fiducia) e contro la seconda (approvazione di massima e passaggio agli articoli).

    La sorte della riforma elettorale sembra dunque segnata. Ma a questo punto (siamo al 15 luglio) arriva il colpo di scena: il discorso alla Camera di Mussolini che riesce, come per miracolo, a gettare lo scompiglio nelle file degli oppositori e a far cambiare decisioni che sembravano irrevocabili. Si tratta, come è stato più volte notato, di un discorso estremamente abile, duro nella sostanza, dal momento che non contiene alcuna concessione reale, ma conciliante nella forma, pieno com’è di assicurazioni sulla vocazione “elezionista” del fascismo e sulla sua inevitabile evoluzione legalitaria: che era poi quanto molti deputati desideravano (e forse non speravano più) di sentirsi dire dal capo del governo. Fatto sta che subito dopo il discorso, con procedura del tutto insolita, i deputati popolari si riuniscono in assemblea e, con una maggioranza strettissima (41 contro 39) e forse addirittura fittizia (si vota per alzata di mano, e a contare i voti è Cavazzoni, leader dello schieramento filofascista), si rimangiano la decisione presa poche ore prima e annunciano l’astensione sulla seconda parte dell’ordine del giorno Larussa.


    (continua)



    [1] Il testo della relazione in Atti parlamentari, Camera dei deputati, legislatura XXVI (da ora in poi Apc, XXVI), Atti stampati, vol. XXI, n. 2120, pp. 1-10.


    [2] L’anomalia sta nel fatto che i gruppi filogovernativi della “Democrazia” (giolittiani) e della Democrazia sociale, che disponevano ciascuno di circa quaranta seggi, sono rappresentati da due deputati, mentre ai socialisti unitari (circa settanta seggi) e ai massimalisti (quasi cinquanta) è assegnato un solo rappresentante. Il dettaglio è tutt’altro che irrilevante: se le proporzioni fossero state rispettate, la legge sarebbe stata di certo respinta dalla commissione.


    [3] La dichiarazione è riportata in G. DE ROSA, Il partito popolare italiano, Laterza, Bari 1969, p. 234.


    [4] Le dichiarazioni sulla riforma elettorale in seno alla Commissione dei diciotto, “Il Corriere della Sera”, 17 giugno 1923.


    [5] Grotteschi, “Il Mondo”, 19 luglio 1923.
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    Predefinito Re: La legge Acerbo 1923-1924

    In aula si verifica poi un ulteriore colpo di scena. I clerico-nazionali, per bocca di Cavazzoni, dichiarano di non voler votare una “fiducia a metà” e annunciano il loro sì all’intero ordine del giorno. Sono solo nove e saranno espulsi dal gruppo parlamentare popolare. Ma il loro tradimento finisce con lo scompaginare ulteriormente le fine del partito (era proprio quello che Mussolini voleva). Solo un oscuro deputato veneto, Merizzi, ha il coraggio di riprendere la sua libertà di azione e di votare contro. Non meno sorprendente, anche se ormai ininfluente, il ripensamento di Bonomi e di Amendola, che decidono anche loro di astenersi (Amendola avrà poi un ulteriore ripensamento e, nella votazione finale sulla legge, si schiererà fra i contrari). Falcioni, che in commissione aveva votato contro, annuncia addirittura il suo voto favorevole, motivandolo curiosamente col fatto di essere per principio contrario all’astensione. Ad abbassare ulteriormente il tono morale del dibattito ci pensa D’Aragona, che – evidentemente colpito dalle aperture ai dirigenti sindacali contenute nel discorso di Mussolini – precisa che il suo voto contrario impegna solo la sua persona di deputato socialista e non la Cgl, che resta estranea ai partiti. Risultato del voto sull’ordine del giorno Larussa: 303 sì, 140 no e 7 astenuti sulla fiducia; 235 sì, 139 no e 77 astenuti sul passaggio agli articoli. Una vittoria larghissima, superiore alle aspettative degli stessi fascisti.

    La legge non è ancora approvata. Può essere sottoposta a emendamenti nella discussione sui singoli articoli e può essere addirittura respinta nella votazione finale a scrutinio segreto. Ma l’opposizione, ormai divisa e sfiduciata, è decimata dall’assenteismo; finirà col perdere ingloriosamente anche queste ultime battaglie.
    La prima occasione si presenta nella seduta del 20 luglio, quando Umberto Merlin, a nome dei popolari, ripropone in un emendamento la vecchia ipotesi basata sull’innalzamento del quorum al 40 per cento dei voti e sulla riduzione del premio di maggioranza ai tre quinti dei seggi. Mussolini, che nel suo discorso di pochi giorni prima aveva manifestato un profondo disdegno per “i piccoli mercati dei due quinti o tre quarti”, appare in un primo momento disposto a trattare, ponendo però come condizione che il quorum sia comunque inferiore al 40 per cento. Lo stesso Acerbo interviene nella discussione per esprimere la disponibilità del governo a una soluzione di questo genere. Bonomi, a nome della minoranza della Commissione dei diciotto (riconvocata in gran fretta per l’occasione), avanza una salomonica proposta di compromesso che fissa il quorum a un terzo dei voti. I popolari, per bocca di Gronchi, accettano, come “massimo sacrificio”, di convergere sulla proposta Bonomi. Ma a questo punto Mussolini, pare su pressione dei fascisti intransigenti, si irrigidisce e, adducendo motivazioni incomprensibili quanto pretestuose,[1] pone la fiducia sull’art. 84-bis del disegno di legge (quello che fissava appunto la misura del quorum e del premio di maggioranza). Questa volta rischia grosso perché sulla carta l’emendamento Bonomi gode di una larga maggioranza. Ma i vistosi vuoti nel campo delle opposizioni fanno sì che lo schieramento governativo riesca ugualmente a prevalere con uno scarto di 21 voti (178 contro 157). “Siamo stati noi a dare la vittoria al fascismo” è la malinconica conclusione di Turati.[2]

    Resta la votazione finale sull’insieme della legge: votazione che, contrariamente alle precedenti, si svolge a scrutinio segreto. Qui, in teoria, la situazione potrebbe di nuovo capovolgersi; anzi, dovrebbe, visto che i popolari annunciano voto contrario. In una lettera alla Kuliscioff del 20 luglio, Turati arriva paradossalmente a chiedersi se una bocciatura della legge a scrutinio segreto non potrebbe dare alla Camera una “impressione di viltà” al limite più dannosa della legge stessa.[3] L’ “impressione di viltà” in effetti vi fu, ma per la ragione opposta a quella immaginata da Turati. I voti contrari alla legge furono infatti solo 123, contro 223 favorevoli: il che – anche tenendo conto delle numerosissime assenze (quasi duecento, di cui solo una cinquantina per congedo o malattia) – significa che molti oppositori dichiarati avevano votato a favore nel segreto dell’urna.

    Turati – che attribuiva le defezioni soprattutto ai popolari, ma non escludeva dal novero dei sospettati nemmeno i socialisti, in particolare i massimalisti – vedeva giustamente in questa clamorosa débâcle l’effetto della “paura di vincere”, cioè il timore delle prevedibili rappresaglie fasciste in caso di sconfitta del governo.[4] Paura non del tutto infondata, ma certo non giustificabile politicamente, se si pensa che una bocciatura della legge avrebbe sicuramente messo in crisi il governo e creato un conflitto insanabile fra parlamento ed esecutivo e probabilmente fra governo e corona. […]


    (continua)






    [1] “Avevo accettato il principio del quorum per dimostrare che sul terreno tecnico della legge non mi chiudevo nella intransigenza assoluta, e perché ritenevo questo principio eccitatore della massa elettorale, la quale avrebbe avuto interesse a votare. Ma adesso si fa una questione di dettaglio troppo meschina perché il governo possa accettarla” (Apc, Discussioni, cit., p. 10894).


    [2] Da una lettera alla Kuliscioff del 20 luglio, in Carteggio, vol. VI, 1923-1925. Il delitto Matteotti e l’Aventino, Einaudi, Torino 1977, p. 142.


    [3] Lettera del 20 luglio, cit. Questa volta aveva ragione la Kuliscioff a rispondere: “non c’è nulla di male se la legge venisse bloccata nella votazione segreta. La viltà della Camera non aumenterebbe per questo fatto”. (Carteggio, vol. VI, cit., p. 145, lettera del 21 luglio).


    [4] Lettera del 22 luglio (Carteggio, vol. VI, cit., pp. 146-147).
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    Predefinito Re: La legge Acerbo 1923-1924

    Le responsabilità dei liberali


    Prima di esaminare le conseguenze della legge Acerbo sulle tragiche elezioni dell’aprile 1924, sarà il caso di fare qualche riflessione sui motivi per cui una simile legge poté passare in una Camera che, secondo logica e secondo buon senso, avrebbe dovuto e potuto respingerla.

    Nell’estate del 1923, di fronte alla proposta governativa di riforma elettorale, la Camera dei deputati si poteva considerare divisa in due schieramenti principali (contrari e favorevoli), a loro volta divisi in due sottogruppi (intransigenti e disposti al compromesso). La chiave per capire quanto accade in luglio sta nel fatto che, nello schieramento favorevole alla legge, anche i perplessi e gli accomodanti – che sono la maggioranza – restano fermi sulle loro posizioni di partenza, mentre, nello schieramento contrario, i “transigenti” cedono o si sfaldano in tutte le occasioni decisive. Visto che il comportamento degli intransigenti delle due parti – fascisti e criptofascisti da un lato, socialisti, comunisti e repubblicani dall’altro – è nel complesso coerente e prevedibile (pur con molte incertezze e molte defezioni nel campo degli oppositori), il problema sta nello spiegare l’atteggiamento dei transigenti, liberal-democratici e popolari: ossia di quella sorta di “grande centro” che aveva costituito la precaria maggioranza delle ultime due legislature.

    Per quanto riguarda i popolari, sui quali soprattutto si è concentrata l’attenzione degli studiosi, basterà ricordare che, nell’estate del 1923, il Ppi era un partito in piena crisi, delegittimato dai suoi tradizionali patroni, privato bruscamente del suo leader storico e dunque soggetto alle spinte centrifughe che derivavano dalla stessa eterogeneità delle sue componenti originarie. Si può stigmatizzare il tradimento di Cavazzoni; si può anche notare la scarsa solidità della nuova leadership collegiale (il triumvirato Gronchi-Spataro-Rodinò, più De Gasperi in veste di leader parlamentare). Ma, nelle condizioni date, non ci si può stupire più che tanto del cedimento del partito, anche su una questione di così vitale importanza.

    In realtà il dato più stupefacente – e anche il più trascurato – dell’intera vicenda sta nel comportamento dei gruppi liberal-democratici, che, lasciando passare la legge Acerbo, firmarono senza rendersene conto la loro sentenza di morte. Né vale obiettare a questo proposito la tesi secondo cui quella che allora si verificò fu un’osmosi fra classe dirigente liberale e classe dirigente fascista, una sopravvivenza del vecchio liberalismo nel nuovo regime autoritario nel segno della continuità di classe. Se è vero che la ragione di vita di una classe dirigente sta non soltanto nel tutelare un certo equilibrio sociale, ma anche e soprattutto nel mantenersi al potere e nel perpetuare se stessa, allora bisogna riconoscere che il personale politico liberale – accettando un meccanismo elettorale che lo isolava dalle sue basi reali nel paese e che lo metteva in balìa di nuovi padroni – andò incontro a una catastrofe da cui non si sarebbe mai più ripreso.

    Quali sono dunque le cause di un comportamento così autolesionistico? Un motivo sta senza dubbio nel desiderio diffuso di liberarsi della proporzionale, legata per i liberali a una stagione di rovesci elettorali, considerata come un’imposizione dei partiti di massa e ritenuta, non del tutto a torto, responsabile dell’instabilità governativa degli anni 1919-1922. Le testimonianze in questo senso non mancano, da Giolitti a Salandra a Mosca. L’ostilità alla proporzionale non basta però a spiegare la scelta in favore di un sistema che della vecchia legge riprendeva o accentuava alcuni degli aspetti a suo tempo più criticati e che, se assicurava la stabilità alla maggioranza, prometteva di farlo a tutto vantaggio del Partito fascista.

    La motivazioni di fondo dell’atteggiamento dei gruppi liberal-democratici non erano dunque di carattere tecnico, ma di natura squisitamente politica (si ricordi l’affermazione di Salandra durante i lavori della Commissione dei diciotto: l’approvazione della legge è innanzitutto un “atto politico”). Alla base di tutto c’era il mai spento miraggio della normalizzazione, ossia dell’assorbimento del movimento fascista in un liberalismo rinnovato e ringiovanito, magari un po’ più autoritario, certo più forte nel confronto con i partiti di massa (come se il fascismo non fosse esso stesso, e in proprio, un movimento di massa). Tutto ciò che si muoveva in questa direzione doveva essere favorito, anche a costi molto alti. Alla lunga, tutto sarebbe rientrato nella normalità. Ciò che comunque era estraneo alla mentalità del vecchio personale politico (non solo liberale) era l’idea di una dittatura autoritaria stabile e duratura, con le sue basi sociali e le sue istituzioni peculiari. La radice di questo errore, come si è detto tante volte, sta essenzialmente nel fatto che un regime come quello fascista non era mai esistito e nessuno riusciva a immaginarlo nei termini in cui si sarebbe effettivamente realizzato. Probabilmente non vi riusciva nemmeno Mussolini, che in questo momento si muoveva in una prospettiva diversa (quella di una “democrazia autoritaria” o di un cancellierato perpetuo) e che forse in qualche forma di normalizzazione finiva col credere anche lui.

    Il miraggio della normalizzazione non è però ancora sufficiente a spiegare il comportamento dei liberal-democratici (o dei popolari o di molti fra gli stessi oppositori della legge Acerbo e del fascismo). Un’altra spiegazione, che può apparire banale ma non è per questo meno valida, sta nel fattore paura: paura fisica delle rappresaglie fasciste (come confessava candidamente a Turati l’ex ministro liberale Luigi Rossi),[1] ma anche, più in generale, paura dello scontro politico, di un ritorno alla guerra civile e forse addirittura di una ripresa rivoluzionaria (erano in fondo passati appena tre anni dal momento culminante del biennio rosso). È chiaro che in una trattativa chi ha paura dello scontro sarà sempre perdente nei confronti di chi lo scontro non teme (o fa mostra di non temerlo); e che, se una delle due parti fa capire di voler giungere comunque a un compromesso, l’altra parte potrà imporle tutto quello che vuole. È esattamente quanto fa Mussolini, che si comporta in questa occasione con notevole abilità. Alterna, come al solito, le minacce alle lusinghe e riesce a imporre integralmente il suo progetto per gradi successivi: facendo accettare prima l’idea di una legge maggioritaria non ben definita, poi un testo Acerbo presentato come emendabile, infine lo stesso testo secco e immodificabile (salvo dettagli di scarso rilievo). Riesce nel suo intento perché sa bene quello che vuole e perché è sempre disposto ad alzare la posta, e anche a rischiare grosso (come nella votazione dell’emendamento sul quorum). Gli altri hanno paura e preferiscono non andare mai a vedere.

    Il risultato è che lo scontro evitato nel 1923 si riproporrà un anno dopo, con la crisi Matteotti: con la differenza che nel 1924 la maggioranza parlamentare è ormai diventata fascista; e chiedere al re (a quel re) di intervenire contro la maggioranza parlamentare sarebbe stato chiedere troppo. Diversa sarebbe stata la situazione nell’estate del 1923, se davvero la camicie nere – posto che ne avessero realmente l’intenzione – avessero occupato il parlamento dopo una bocciatura della legge elettorale. In quel caso la crisi istituzionale sarebbe stata inevitabile e difficilmente la corona avrebbe potuto esimersi dall’intervenire.

    Con il varo della legge Acerbo, Mussolini aveva dunque posto solide premesse non solo per la sconfitta delle opposizioni antifasciste, ma anche per la neutralizzazione e per il ridimensionamento dei suoi fiancheggiatori e dell’intera classe dirigente liberale. La vittoria fascista risultò evidente, per chi voleva vederla, già nei primi mesi del 1924, nella fase della preparazione delle liste per le imminenti elezioni. […]


    (continua)



    [1] Ivi, p. 147.
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    Predefinito Re: La legge Acerbo 1923-1924

    Data per scontata un’affermazione delle liste governative – che, come sappiamo, in caso di vittoria sarebbero state elette per intero – tutto si giocava sulla composizione di queste liste: un’operazione che, in pratica, equivaleva alla designazione della maggioranza dei deputati. Per gli uomini della vecchia classe dirigente, l’unica speranza di conservare un ruolo di rilievo nel nuovo parlamento stava dunque nel trattare da pari a pari con i fascisti per ottenere un numero di posti proporzionato al peso che i gruppi liberali avevano nel parlamento uscente e al seguito di cui, nonostante tutto, godevano ancora nel paese. Ma il liberali – e in genere i fiancheggiatori – non avevano la possibilità di trattare da posizioni di forza: questa possibilità l’avevano persa nel momento stesso in cui avevano accettato di varare la nuova legge elettorale così come la voleva Mussolini. I liberali inoltre non avevano né una vera organizzazione partitica (non poteva certo dirsi tale il Partito liberale nato nel 1922, che anzi si spaccò irrimediabilmente proprio sul problema delle elezioni), né dei leader nazionali capaci di rappresentarli unitariamente nel confronto col Pnf, che al contrario aveva una solida struttura organizzativa e una leadership fortissima.

    I fascisti ebbero così buon gioco nel comportarsi da padroni di casa e nel trattare i fiancheggiatori come semplici ospiti, capovolgendo così, con un atto di arbitrio non giustificato dai rapporti di forza parlamentari (si ricordi che i fascisti, anche dopo la fusione coi nazionalisti, avevano meno di cinquanta deputati, mentre i fiancheggiatori delle varie correnti ne avevano circa il triplo), la situazione che si era determinata nelle elezioni del 1921: allora erano stati i liberal-democratici ad accogliere un certo numero di fascisti nei loro “blocchi nazionali”; ora accadde esattamente il contrario. Mussolini, è vero, non perse occasione per ribadire il carattere “nazionale” (e non strettamente partitico) delle liste governative, né lesinò gli sforzi per assicurare l’adesione di tutti i notabili più prestigiosi; ma al tempo stesso fu estremamente fermo ed esplicito nel rivendicare al fascismo il ruolo di partito-guida e di forza egemone (anche in termini numerici) dell’intero schieramento governativo: “Accoglieremo quindi – affermava in un discorso del 26 gennaio – al di fuori, al di sopra e contro i partiti, nelle nostre file, tutti quegli uomini del popolarismo, del liberalismo, della democrazia sociale che sono disposti a darci la loro attiva e disinteressata collaborazione, restando bene inteso che la maggioranza deve essere riservata al nostro partito[1] (i corsivi sono nostri). Alla fine di gennaio, quasi a tradurre in atto queste indicazioni, il Consiglio nazionale del Pnf nominava una commissione di cinque membri – la cosiddetta “pentarchia” formata da Bianchi, Rossi, Giunta, Acerbo e Finzi – col compito di preparare le quindici liste elettorali (una per ognuna delle circoscrizioni regionali previste dalla legge Acerbo): liste che, tanto per non dar luogo a equivoci, sarebbero state contrassegnate dall’emblema del fascio littorio.

    Si trattava di condizioni pesanti, e per molti aspetti umilianti. Eppure, molti notabili liberali e democratici, oltre a una piccola pattuglia di clerico-nazionali, le accettarono vuoi per mero opportunismo, vuoi per genuina fiducia nell’immancabile normalizzazione. Fra i gruppi organizzati di area liberal-democratica – a parte i seguaci di Amendola e di Bonomi che erano da tempo fuori della maggioranza e che presentarono in sette collegi liste di “opposizione costituzionale” – solo i demosociali decisero, a prezzo di non pochi travagli e di numerose defezioni, di mantenere la loro identità di partito e presentarono proprie liste in cinque collegi (quasi tutti nel Mezzogiorno): una scelta che certamente rifletteva la rottura nel frattempo intervenuta tra fascismo e massoneria.

    I liberali invece non riuscirono a esprimere una posizione unitaria. Alcuni diedero vita a liste “parallele”, ossia non contrapposte a quella “nazionali” (ne furono presentate ben sette, con diversi simboli: la più importante era quella capeggiata da Giolitti, presente in Piemonte, Liguria e Lazio). Altri – e fra questi alcuni dei più prestigiosi – entrarono alla spicciolata nelle liste del Fascio littorio, che l’opposizione accomunò nell’unica definizione polemica di “listone”. Orlando andò a capeggiare la lista nazionale in Sicilia, dopo aver cercato invano di condizionare la sua adesione a un impegno del governo in senso “costituzionale”. Salandra si presentò nelle Puglie, ponendo come condizione l’ingresso in lista di alcuni suoi amici. De Nicola accettò dopo molte perplessità l’inclusione della lista in Campania; quindi, alla vigilia delle elezioni, annunciò il ritiro della sua candidatura (ma risultò ugualmente eletto). Entrarono nelle liste “nazionali” anche l’ex leader della Democrazia liberale Giuseppe De Nava (che però morì alla fine di febbraio), il segretario dell’inutile Partito liberale Alberto Giovannini, i capi della Confindustria Olivetti e Benni, assieme a non pochi esponenti dei gruppi radicali e riformisti della vecchia Camera (Gasparotto in Lombardia, Casertano in Campania, Pasqualino Vassallo in Sicilia, Lissia in Sardegna).

    Distinguere con esattezza, fra i candidati del “listone”, i fiancheggiatori dai veri fascisti non è operazione facile (e richiederebbe uno studio a parte). Da un calcolo che ho effettuato personalmente – e che ritengo, pur con qualche approssimazione, abbastanza attendibile – risulta che i fiancheggiatori superavano di poco il centinaio; circa 65 liberali delle diverse correnti (ma soprattutto di destra), una quindicina di “democratici”, una dozzina di ex popolari (fra gli altri, Cavazzoni, Tovini, Martire, Mattei Gentile), altrettanti “indipendenti” (ufficiali, tecnici, intellettuali, esponenti delle associazioni combattentistiche non iscritti al Pnf). I rimanenti 245-250 erano fascisti a tutti gli effetti. Calcolando che molti fiancheggiatori si disponevano a passare armi e bagagli al fascismo e che una “lista nazionale bis” (composta in parte da fascisti, in parte da fiancheggiatori fra i più fidati) era stata presentata in quattro circoscrizioni allo scopo di sottrarre all'opposizione anche una parte dei seggi riservati alla minoranza, si può affermare che, al momento della presentazione delle liste, il fascismo si era in pratica assicurato la maggioranza assoluta della nuova Camera, anche a prescindere dall’appoggio de fiancheggiatori.


    (continua)


    [1] Citato in R. DE FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 572.
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    Predefinito Re: La legge Acerbo 1923-1924

    Il suicidio realizzato


    I risultati delle elezioni del 6 aprile 1924 andarono al di là delle più ottimistiche previsioni dei fascisti e dei loro alleati. Superiore alle aspettative fu anche l’affluenza alle urne, con una percentuale di votanti del 63, 8 per cento: la più alta in regime di suffragio universale maschile e una delle più alte in assoluto mai registrate fin allora nella storia delle consultazioni politiche italiane. Il “listone” governativo ebbe 4.306.000 voti, pari al 60, 1 per cento e conquistò i 365 seggi che la nuova legge elettorale riservava alla lista di maggioranza (i seggi in realtà furono 355 per la morte del candidato De Nava). Ai voti del “listone” vanno aggiunti i 345.000 (4,8 per cento) della “lista nazionale bis”, che otteneva altri 19 seggi portando il totale a 374. A rafforzare ulteriormente la maggioranza concorrevano poi i 233.000 voti (3,3 per cento) e i 15 seggi della list “parallele” liberali.

    Fra i partiti d’opposizione, il quoziente più alto fu raccolto dai popolari (646.000 voti, pari al 9 per cento, e 39 seggi), che vedevano comunque più che dimezzata la loro base elettorale e ridotto di quasi due terzi il numero dei loro deputati. Seguivano, a breve distanza l’uno dall’altro, i tre partiti operai: il Psu con 423.000 voti (5,9 per cento) e 24 seggi, il Psi con 361.000 voti (5 per cento) e 22 seggi, il Pcdi con 268.000 voti (3,7 per cento) e 19 seggi. Complessivamente, i tre partiti raccoglievano poco più di un milione di voti, contro i quasi due milioni del 1921. Gli unici a contenere le perdite – grazie anche alla confluenza dei “terzinternazionalisti” fuoriusciti dal Psi – furono i comunisti, che vedevano così premiata la loro immagine di partito unito e compatto e l’intransigenza della loro opposizione. Lo stesso discorso vale per i repubblicani che, con l’1,9 per cento dei voti e sette seggi, confermarono il risultato delle precedenti elezioni.

    Le liste di “opposizione costituzionale” ebbero 158.000 voti (2,3 per cento) e 14 seggi, conquistati tutti nel Mezzogiorno e nelle isole (Bonomi, che si era presentato in Lombardia, non fu rieletto). La Democrazia sociale ottenne 111.000 voti (1,6 per cento) e dieci seggi, mentre ne aveva avuti oltre 300.000, con una quarantina di seggi, nel 1921. Un seggio ottennero i fascisti dissidenti. Altri dieci andarono alle formazioni regionali (quattro alle liste “etniche” slave e tedesche, quattro al Partito dei contadini piemontese, due al Partito sardo d’azione), favorite dal fatto che la ripartizione proporzionale dei seggi fra le minoranze avveniva sulla base delle circoscrizioni regionali.

    Quella del “listone” fu dunque una vittoria schiacciante, tanto da rendere apparentemente inutile, ai fini dell’attribuzione dei seggi, il meccanismo maggioritario della legge Acerbo (che in realtà, come sappiamo, si era rivelato utilissimo sotto altri aspetti): le due liste governative ebbero infatti un numero di deputati di poco superiore a quello che avrebbero ottenuto qualora si fosse applicato un sistema proporzionale puro.

    Questo risultato non può essere ovviamente valutato a prescindere dalle condizioni a dir poco anomale in cui si svolsero le elezioni. Le intimidazioni, le violenze, le irregolarità che avevano accompagnato la campagna elettorale e le stesse operazioni di voto ebbero certamente un’incidenza notevole sulle proporzioni del successo fascista. Prova ne sia il fatto che l’opposizione conseguì risultati migliori nei grandi centri urbani, dove le autorità, per ovvii motivi di facciata, avevano garantito una relativa libertà di voto, che non nelle campagne e nei piccoli centri, dove pressioni e condizionamenti si erano fatti sentire in forme assai più soffocanti: a Milano il “listone” ebbe il 38,4 per cento dei voti, a Torino il 36,6 per cento, a Venezia il 36,5 per cento, a Palermo il 30,4 per cento. È anche vero però che, nelle altre grandi città, la lista nazionale si mantenne ben al di sopra del 40 per cento e conseguì la maggioranza assoluta a Bari, Bologna, Firenze e Roma. È lecito dunque ipotizzare che, anche in condizioni normali, di fronte a un’opposizione divisa, la lista governativa avrebbe agevolmente raggiunto la maggioranza relativa e superato il quorum del 25 per cento previsto dalla legge elettorale, assicurandosi comunque i due terzi dei seggi (l’ipotesi è peraltro del tutto accademica, dal momento che, in condizioni “normali”, la legge Acerbo non sarebbe mai stata approvata).

    C’è da chiedersi poi se quella riportata dal “listone” possa considerarsi una vittoria fascista in senso stretto, o non piuttosto una vittoria genericamente “governativa”. La distribuzione geografica dei voti farebbe propendere per questa seconda ipotesi. Le liste nazionali avevano infatti raccolto il maggior numero di suffragi nel Centro (76 per cento), nel Sud (81,5 per cento) e nelle isole (69,9 per cento), cioè nelle zone in cui per lo più il fascismo aveva scarse e recenti radici e in cui forte era invece l’insediamento dei gruppi demoliberali e conservatori. Avevano invece prevalso di stretta misura (54,3 per cento) nel Settentrione ed erano risultate addirittura minoritarie in Lombardia, Piemonte e Veneto. D’altra parte, non va dimenticato che il “listone” si presentava sotto le insegne del fascio littorio ed era composto per oltre due terzi da candidati fascisti (in buona parte giovani sotto i quarant’anni alla loro prima esperienza parlamentare): i quali, nel gioco delle preferenze, finirono col surclassare, o addirittura con l’umiliare, i concorrenti fiancheggiatori. Basti ricordare che, in Sicilia, Orlando ebbe 70.000 voti contro i 160.000 di Gabriello Carnazza, ministro dei Lavori pubblici, passato pochi mesi prima dalla Democrazia sociale al fascismo; e che, nelle Puglie, Salandra ne ebbe meno di 10.000 contro i 45.000 di Caradonna e i 32.000 di Starace.

    Sarebbe interessante, ma esula dai confini di questo studio, un’analisi regione per regione della composizione delle liste e dei voti di preferenza (anche se il confronto con le elezioni del 1921 risulterebbe difficile per il diverso disegno delle circoscrizioni). Un dato di fondo resta comunque fermo: con la legge Acerbo e le elezioni del 1924, la classe dirigente liberale che aveva governato il paese per sessant’anni – e che nella Camera del 1921 disponeva ancora di una sia pur precaria egemonia – è ridotta a una condizione subalterna, se non semplicemente decorativa. Questo è sicuramente il risultato di un lungo processo di crisi cominciato con la prima guerra mondiale. È certo tuttavia che questa crisi ha il suo momento decisivo proprio nell’approvazione della legge Acerbo, in quelle giornate del luglio 1923 che il deputato socialista Frontini aveva definito giustamente “la notte del 4 agosto del liberalismo italiano”.[1]

    Giovanni Sabbatucci




    [1] Apc, XXVI, Discussioni, vol. XI, pp. 10490-91 (seduta dell’11 luglio).
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  8. #8
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    Predefinito Re: La legge Acerbo 1923-1924

    Voti liberali e cattolici, eletti fascisti

    Diciamo che liberali e cattolici erano fascisti fin dall'inizion del risorgimento

    Il 'liberalismo' italiano è sempre stato solo un mito

    Vedi l'affossamento dell'economia meridionale e Bava Beccaris
    Addio Tomàs
    siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i 5 stelle

 

 

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