Il suicidio della classe dirigente liberaleFra le leggi elettorali, la legge Acerbo è una di quelle che hanno avuto vita più breve; è rimasta infatti in vigore per una sola consultazione politica, quella dell’aprile 1924, ed è stata accantonata già all’inizio del 1925, quando entrò in vigore una nuova legge che reintroduceva il collegio uninominale (e che peraltro non sarebbe mai stata applicata). Nessun’altra legge elettorale ha avuto però conseguenze politiche tanto dirompenti, non solo sui rapporti di forza politico-parlamentari, ma anche sugli equilibri istituzionali del paese.
La legge Acerbo 1923-1924
di Giovanni Sabbatucci – “Italia contemporanea”, marzo 1989, pp. 57-80.
Nella storia della crisi dello stato liberale italiano e della sua successiva trasformazione in stata autoritario, il varo della legge maggioritaria rappresenta infatti un momento chiave. Forse addirittura il momento chiave: più della marcia su Roma – il cui esito lasciava ancora ampi margini per un ritorno alla normalità statutaria – e più della crisi Matteotti – che al contrario cadde in un momento in cui gli spazi di manovra legale erano estremamente ridotti, proprio per l’esistenza di una Camera a maggioranza fascista. L’approvazione della legge Acerbo si situa, anche cronologicamente, in mezzo a queste due crisi, come un passaggio decisivo. È infatti grazie a essa che Mussolini può rovesciare quei rapporti di forza parlamentari che vedevano il fascismo in posizione nettamente minoritaria (dalle elezioni del 1921 erano usciti 35 deputati fascisti, non più del 7 per cento della Camera elettiva) e trasformare la maggioranza liberal-popolare (l’unica praticabile nella vecchia Camera) in una maggioranza in teoria liberal-fascista, in realtà fascista tout-court.
In questo senso, l’approvazione di quella legge da parte di quella Camera si può annoverare fra i casi classici di suicidio di un’assemblea rappresentativa, accanto a quello del Reichstag che vota i pieni poteri a Hitler nel marzo del 1933 o quello della Assemblea nazionale francese che consegna il paese a Pétain nel luglio del 1940.
Cercheremo quindi di capire come e perché si sia consumato questo suicidio. Non prima però di aver esposto sommariamente le caratteristiche salienti della legge. E non senza aver notato, in via preliminare, come essa segni una brusca inversione di marcia in un cammino – quello delle leggi italiane – che fin allora si era sempre svolto nel segno di un progressivo allargamento dell’area di partecipazione al voto e di una crescente rappresentatività dell’istituzione parlamentare: nel segno dunque della transizione dal liberalismo ottocentesco alla democrazia di massa. Qui invece assistiamo al passaggio dalla democrazia rappresentativa a una sorta di democrazia autoritaria e plebiscitaria. Un sistema molto diverso da quello sperimentato nei primi anni del dopoguerra, ma anche da quello che si sarebbe poi affermato come forma definitiva del potere fascista: il quale, com’è noto, non si accontentò di avere una maggioranza parlamentare artificiosa e docile (ma pur sempre esposta all’alea delle consultazioni popolare e della dialettica maggioranza-opposizione) e preferì ridurre la Camera rappresentativa a una pura finzione, per poi abolirla del tutto.
Caratteristiche e genesi della legge
La legge maggioritaria del 1923 dovrebbe chiamarsi, a rigore, “legge Mussolini” (e come tale viene in effetti menzionata nell’indice degli Atti parlamentari). L’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo fu infatti solo l’estensore materiale del disegno di legge di iniziativa governativa poi discusso e approvato (salvo modifiche marginali) dai due rami del Parlamento e trasformatosi nella legge n. 2444 del 18 novembre 1923: legge che porta il titolo, alquanto modesto, di Modificazioni alla legge elettorale politica, t.u. 2 settembre 1919 e che sarebbe poi confluita in un nuovo testo unico varato col regio decreto n. 2649 del 13 dicembre 1923.
Le “modificazioni” alla legge del 1919 sono in gran parte di carattere tecnico e riguardano per lo più i requisiti per l’elettorato attivo e passivo e le modalità delle operazioni di voto e di scrutinio. Fra le novità rilevanti, va ricordata quella relativa all’abbassamento dell’età minima per la eleggibilità, che passa da trenta a venticinque anni. Importante, e senz’altro positiva, è la norma che introduce la cosiddetta “scheda di Stato”: una pratica che oggi ci appare scontata, ma che allora incontrò non poche opposizioni nello schieramento liberal-conservatore.
Le innovazioni “forti” dal punto di vista politico sono contenute in pochi articoli, in particolare il 40 e l’84-bis (82 del testo unico). L’art. 40 stabilisce che “tutto il regno forma un Collegio unico nazionale”. Questo collegio è però diviso in circoscrizioni elettorali. Le circoscrizioni sono quindici (contro le quaranta delle elezioni del 1921) e corrispondono grosso modo alle regioni: l Trentino è unito al Veneto, l’Umbria al Lazio, la Basilicata alla Calabria; originariamente era prevista una sedicesima circoscrizione, quella del Sannio, poi diviso fra Abruzzi-Molise e Campania. Ogni circoscrizione ha diritto a un numero di seggi proporzionale alla sua popolazione (art. 41). Le liste devono essere presentate in almeno due circoscrizioni (una misura rivolta chiaramente contro le liste locali o etniche) e non possono contenere un numero di candidati superiore ai due terzi di quelli assegnati alla circoscrizione. I candidati non possono presentarsi in più di due circoscrizioni (artt. 52, 53, 54). Gli elettori possono esprimere preferenze in numero non superiore a due (tre se i deputati assegnati alla circoscrizione sono più di venti), (art. 69).
A votazioni ultimate, un Ufficio centrale nazionale, costituito presso la Corte d’appello di Roma, stabilisce qual è la lista che ha ottenuto il maggior numero di voti nel collegio unico nazionale: a questa lista, purché abbia superato il 25 per cento del totale, vengono assegnati 356 seggi, ossia i due terzi dei 535 disponibili (art. 84-bis). Questo significa che la lista vincente vede eletti tutti i suoi candidati: al limite anche quelli che non abbiano ricevuto nessun voto di preferenza o che non abbiano ottenuto nessun voto di lista nella propria circoscrizione. I rimanenti 179 seggi sono divisi fra le minoranze con criterio proporzionale, nell’ambito delle circoscrizioni regionali: fra i candidati delle liste di minoranza, risultano naturalmente eletti quelli col maggior numero di preferenze. Nell’ipotesi, del tutto teorica, che nessuna lista ottenga il 25 per cento dei voti, i seggi vengono assegnati con criterio proporzionale nell’ambito delle singole circoscrizioni.
Da un punto di vista tecnico, l’aspetto più interessante e innovativo della legge sta sicuramente nell’introduzione di un premio di maggioranza legato a un computo dei voti su base nazionale: un meccanismo che, combinando il principio maggioritario col metodo dello scrutinio di lista, consente la formazione di maggioranze stabili, lasciando al tempo stesso ai partiti minori la possibilità di essere rappresentati in parlamento (cosa che in genere non avviene in regime di collegio uninominale). La novità, in sé e per sé, è tutt’altro che scandalosa (a parte l’aporia, rilevata da Maranini, [1] di quel doppio sistema, maggioritario e nazionale per la lista vincente e proporzionale e regionale per le minoranze, in una stessa fase del processo elettorale): il premio di maggioranza è uno dei tanti metodi adottabili – e adottati – nelle democrazia moderne per ovviare ai danni derivanti dall’instabilità dei sistemi parlamentari. Gli aspetti abnormi della legge Acerbo sono altri, e si possono sintetizzare in due punti:
a) l’entità del premio di maggioranza, in rapporto all’esiguità del quorum richiesto per farlo scattare: nel caso limite, un quarto dei voti avrebbe potuto fruttare i due terzi dei seggi, moltiplicando per oltre due volte e mezzo il numero dei deputati spettanti alla lista vincitrice;
b) la coincidenza fra il numero dei candidati e il numero degli eletti della lista vincente: in pratica, un meccanismo di blocco che trasferiva il diritto di scelta dei deputati dall’elettorato al vertice dei partiti (nella fattispecie, del Partito fascista), dal momento della votazione a quello della formazione delle liste. Un meccanismo abnorme non tanto in sé e per sé, quanto per la rottura che segnava nei confronti di tutta la tradizione della classe dirigente liberale, che si era sempre fondata sul rapporto personale fra eletto ed elettore (e proprio per questo era ostile alla proporzionale).
Che un meccanismo di questo genere sia stato approvato da una Camera in cui la stragrande maggioranza era divisa tra sostenitori della proporzionale (i partiti di massa) e nostalgici del collegio uninominale (i gruppi liberal-democratci) è cosa che non finisce di stupire. Vediamo dunque come e perché ciò sia potuto accadere.
Di una possibile riforma, o controriforma, elettorale si parlava in Italia già da parecchio tempo, praticamente da quando, nel 1919, era stata varata e applicata la proporzionale. Un sistema che la classe dirigente liberale aveva, a suo tempo, accettato a malincuore: un po’ come male necessario, come inevitabile concessione ai partiti di massa in una stagione di grandi sovvertimenti; un po’ come garanzia di sopravvivenza nel caso non improbabile di una sconfitta. Nel corso della XXVI legislatura – e precisamente fra il giugno del 1921 e il febbraio del 1923 – erano state presentate alla Commissione interni della Camera da esponenti di diverse forze politiche ben quindici proposte di legge contenenti modifiche al sistema elettorale vigente, nessuna delle quali però era mai giunta alla discussione in aula. Quanto a Mussolini, appena andato al governo, non aveva nascosto la sua intenzione di convocare nuove elezioni per costruirsi una Camera più confacente alle sue ambizioni e al nuovo ruolo assunto dal fascismo sulla scena politica italiana; e aveva anche annunciato di voler procedere a un mutamento del sistema elettorale.
In un primo tempo, il capo del governo aveva sperato di ottenere su questa materia una delega in bianco, nell’ambito della legge sui pieni poteri; poi aveva fatto un tentativo di varare la riforma per decreto reale. Ma, di fronte al duplice rifiuto del re, aveva dovuto ripiegare su un iter normale: iter che si presentava tutt’altro che agevole, vista la scontata opposizione dei popolari (partner della maggioranza e del governo) all’abbandono della proporzionale e al ritorno al collegio uninominale, gradito invece ai liberali. In realtà, Mussolini e i suoi più stretti collaboratori non pensavano al collegio uninominale, ma a qualcosa d’altro.
La prima indicazione circa i contenuti del nuovo progetto viene da una breve intervista rilasciata al “Popolo d’Italia”, il 13 novembre 1922, dal segretario del Pnf Michele Bianchi. Nell’intervista si parla di “sistema maggioritario con due terzi dei posti alla lista che avrà la maggioranza”, anche relativa, e che sarà eletta per intero; e di “rappresentanza proporzionale alle altre liste per il restante terzo dei posti”. Si aggiunge inoltre che le circoscrizioni saranno ampliate a scala regionale “per dar modo alle varie liste di minoranza di aver ciascuna la propria rappresentanza”. Troviamo qui esposti, a due settimane dalla marcia su Roma, alcuni dei principi fondamentali della futura legge Acerbo (con una differenza importante: qui non si parla ancora di collegio unico nazionale, ma solo di circoscrizioni regionali).
Due settimane dopo, è lo stesso capo del Governo - che in precedenza aveva dato l’impressione di orientarsi verso soluzioni diverse (voto plurimo, corpi tecnici) – ad avallare, sia pure ufficiosamente, le proposte del segretario. Una corrispondenza da Roma apparsa sulle pagine interne del “Popolo d’Italia” del 29 novembre, riferendo su un colloquio fra Mussolini e il presidente della Camera De Nicola, attribuisce al governo la decisione di presentare alla Camera il progetto già illustrato da Bianchi e “poggiato sui seguenti capisaldi: due terzi dei posti da assegnarsi alla lista che avrà il maggior numero di deputati e il restante terzo dei voti diviso proporzionalmente fra le altre liste in competizione […] le circoscrizioni saranno prevalentemente regionali”.
Perché scegliere un sistema così macchinoso e, per quanto ci risulta, mai sperimentato fin allora a livello di elezioni politiche? Certo perché era il sistema più sicuro per dare stabilità alla maggioranza. Ma forse anche perché si pensava che un meccanismo di questo genere (che teneva fermo il principio dello scrutinio di lista) avrebbe potuto più facilmente essere accettato dai popolari. Questo calcolo, se pure vi fu, parve, almeno in un primo tempo, rivelarsi sbagliato. Dai popolari non venne alcun segnale di disponibilità, mentre sulla stampa liberale (in particolare sul “Corriere della Sera” e sul “Mondo”)[2] apparivano le prime prese di posizione decisamente contrarie al “progetto Bianchi” (e alle connesse ipotesi di riforma costituzionale che il segretario del Pnf aveva lanciato in un’intervista al “Popolo d’Italia” del 29 dicembre).
Qualche difficoltà sorse anche all’interno del Partito fascista. Contrariamente al nuovo sistema, e favorevole al collegio uninominale, era il leader degli intransigenti Farinacci, che, all’inizio di febbraio, intervenne ripetutamente sul tema, con articoli e lettere aperte, usando argomenti degni della miglior tradizione liberale: la necessità di non rompere il legame fra il deputato e il proprio collegio e di lasciare agli elettori (anziché al partito) il diritto di scelta dei rappresentanti.[3] In realtà, difendendo il collegio uninominale, Farinacci non solo agiva in coerenza con la sua posizione di ras provinciale che aveva nella realtà locale le radici del suo potere (né più né meno come i deputati liberali), ma si opponeva implicitamente alla prospettiva di una grande coalizione “nazionale” (magari estesa anche ai popolari): prospettiva che era chiaramente sottesa al progetto di legge maggioritaria.
(continua)
[1] G. MARANINI, Storia del potere in Italia, Vallecchi, Firenze 1967, p. 307.
[2] Progetti, “Il Corriere della sera”, 4 gennaio 1923 e Un sistema equivoco, “Il Mondo”, 4 gennaio 1923.
[3] Gli interventi di Farinacci, apparsi su “Cremona nuova” il 4 e l’11 febbraio, sono ampiamente citati in R. DE FELICE, Mussolini il fascista. I. La conquista del potere, Einaudi, Torino 1966, pp. 520-524.