di G. Spadolini - Lettera aperta ad Arturo Colombo pubblicata come introduzione al volume di M. TESORO, “I repubblicani nell’età giolittiana, Firenze, 1978, poi in G. SPADOLINI, “L’opposizione laica nell’Italia moderna (1861-1922). Radicali e repubblicani nell’adolescenza della nazione”, Le Monnier, Firenze, 1988.

Caro Colombo,

Il bel volume di Marina Tesoro su I repubblicani nell’età giolittiana, nato nel clima severo dell’ateneo pavese, che i “Quaderni di storia” sono ben lieti di accogliere – quasi ponte fra due facoltà di scienze politiche legate da tanti impegni comuni, da tante comuni battaglie, Pavia e Firenze – suscita in me un’infinità di ricordi, mi suggerisce quasi un ideale itinerario degli studi sull’opposizione laica post-risorgimentale nell’intero arco del dopoguerra repubblicano.

Una storia di vinti, e considerati sempre come tali, anche all’indomani della liberazione. Il partito che ne portava il nome, il glorioso partito repubblicano sopravvissuto sia alla “monarchia socialista” sia alla capitolazione dello Stato liberale di fronte al fascismo, assente dai Comitati di liberazione, almeno nell’Italia centro-meridionale, chiuso in un suo sdegnoso isolamento, che talvolta faceva parlare, ai più smaliziati, di archeologia politica. Quasi tutta l’attenzione delle nuove generazioni concentrata, ed era giusto, sulla nuova, originale esperienza del partito d’azione che da quel nome risorgimentale, voluto da Mario Vinciguerra – un amico indimenticabile, di cui si va un po’ troppo scolorendo la memoria in una pubblicistica politica che non dimentica nulla, talvolta neanche le schegge di altre esperienze partitiche – traeva i titoli di legittimità per fondere il nobile passato della scuola italiana, Cattaneo per esempio, coi fermenti e le attese della nuova scuola di pensiero e di azione maturata nell’emigrazione antifascista, a cominciare dal filone rosselliano di “Giustizia e libertà”. Il “no” di Giovanni Conti all’ “esarchia” confuso in taluni casi con una forma di qualunquismo politico, di estraneità al sistema dei partiti su cui si stava riarticolando la vita della nuova, incerta, tormentata democrazia italiana.

Una parola, “repubblicano”, che nell’immediato dopoguerra finiva per identificarsi, o quasi, con la battaglia per la nuova forma istituzionale, dissolvendo, o attenuando, l’immagine della specifica forza politica che per quella meta, una volta giudicata inattuale o impossibile, si era battuta quando tutto cospirava per l’adattamento alle istituzioni monarchiche, ritenute flessibili, accomodabili, adeguabili a qualunque evoluzione e trasformazione dall’interno. E quindi poca attenzione, anche all’interno delle università in ripresa, per la storia della componente repubblicana della vita dell’Italia unita, per i suoi retroterra ideologici, per i suoi scismi politici, per le divaricazioni, così lontane, fra radicalismo e repubblicanesimo, per l’antagonismo, mai colmato, fra socialismo e repubblicanesimo: non più di qualche riga, venata di degnazione affettuosa, per gli “eredi di Mazzini” nei libri dedicati al tema, “storia dei partiti”, ignoto alla generazione allevata nel conformismo fascista.

Aggiungiamo: difficoltà estrema, per chi avesse voluto cimentarsi in quegli studi, di reperire le fonti, di accedere al materiale originario di quel peculiarissimo filone. Le biblioteche regie da sempre, e non soltanto dal fascismo, chiuse alle pubblicazioni repubblicane, soprattutto di partito, ritenute quasi “sediziose” in omaggio ad un’ortodossia istituzionale che il galantomismo dei vecchi capi del PRI non aveva mai intaccato nei suoi meccanismi di difesa; spesso alla macchia gli atti dei congressi o dei convegni repubblicani. Una certa aria di cospirazione, e magari di setta, che sempre aveva accompagnato l’azione del rinnovato partito, anche nell’età giolittiana, dove pure si era compiuta tanta parte della “metamorfosi” del PRI – dal vecchio partito di rivolta, un po’ erede della carboneria romagnola, ad un nuovo partito di democrazia moderna, riflessiva, decentratrice, ancorata ai problemi locali, improntata da una forma conseguente di “problemismo” e di “concretismo” quasi salveminiani (da Salvemini all’instancabile Arcangelo Ghisleri).

Dopo il ’45 tutta l’attenzione era riserbata al socialismo. Nella sua doppia versione, vetero-marxista e marxista-leninista. Pullulavano i libri e libretti sull’esperienza socialista, che era stata tanta parte del rinnovamento dell’Italia nel primo quindicennio del secolo, appunto l’arco dell’età giolittiana. Mancavano solo, per difficoltà connesse al generale collasso dell’economia italiana, le dispense: se ci fossero stati i mezzi tecnici, avrebbero trovato lo stesso abbondante pubblico dell’epoca dei Perino e dei Nerbini. L’Avanti!, in certi momenti, toccava la tiratura del Corriere della Sera.

Due opposizioni, al vecchio Stato liberale e risorgimentale, restavano in ombra, su versanti diversi e in gran parte opposti: quella cattolica, sia cattolico-temporalista sia cattolico-sociale (ma quanto poi potevano differenziarsi le due?) e quella laica intransigente, incentrata sul movimento repubblicano dopo il “placido tramonto” del radicalismo nell’abbraccio giolittiano, anzi prima sonniniano e poi giolittiano.

Toccò alla scuola fiorentina promuovere le ricerche su entrambe quelle sponde. La facoltà di scienze politiche “Cesare Alfieri” assolse, intorno agli anni cinquanta, ad un ufficio che oggi occorre ricordare, sulla scia dell’insegnamento animatore di Carlo Morandi, uno storico inquieto e cercante che non si appagava negli schemi definiti delle vecchie ortodossie ma neanche nelle nuove: il contemporaneo, determinante stimolo alle prime indagini analitiche sul movimento cattolico, soprattutto su quello clandestino e catacombale che la storiografia liberale aveva quasi escluso dal paesaggio sorridente e concluso della evoluzione nazionale, e sul movimento repubblicano, interprete di un non possumus politico che trascendeva la cronaca e i pettegolezzi dei compromessi parlamentari.

Non starò, caro Colombo, a raccontare ancora una volta quello che appartiene alla mia autobiografia personale; il colloquio, per me decisivo, col direttore del Mondo, con l’indimenticabile Mario Pannunzio, per la costruzione del libro, da anticipare a puntate sul settimanale romano, volto a rianimare la storia parallela e per tanti aspetti antitetica delle due opposizioni, cattolica e laica. Il mio volume sull’Opposizione cattolica, la prima esplorazione dell’ “Opera dei Congressi”, nacque dai saggi sull’Azione cattolica e sui “camelots du roi” dell’infallibilismo pontificio, proiettato sul piano sociale, ospitati dal giornale pannunziano alla fine del 1951; dalla stessa fonte nacquero poi le pagine, solo più tardi raccolte in volume, sui Repubblicani dopo l’unità e sui Radicali dell’Ottocento. Non nacque mai, invece, il volume complessivo sull’ “opposizione laica”, tante volte sognato, progettato, abbozzato, di cui rimane la traccia e l’aspirazione, con la sensibilità di venticinque anni trascorsi (e quali anni!), nell’Italia della ragione.

Ma di quel fermento, diviso fra università e giornalismo, non poche tracce resteranno sul terreno della ricerca universitaria. Fino al termine del 1950 – mi avvicino al trentennio delle mie “nozze” con l’università – cominciai ad orientare le indagini degli allievi, le tesi e allora anche le tesine, su figure e momenti non secondari della parabola del repubblicanesimo italiano (proprio fra ’50 e ’51 erano usciti i primi capitoli della mia serie del Mondo sui lineamenti del movimento post-mazziniano). Il volume, così ricco, così articolato e suggestivo di Marina Tesoro, ripercorre, con parziale identità cronologica, il campo della vasta e minuziosa tesi di laurea – due volumi, con grafici e statistiche finali – che un valoroso allievo dell’ “Alfieri”, oggi suo preside, Luigi Lotti, avviò fra il ’53 e il ’54 e completò nel ’55: già volume ripensato e riordinato nel ’57. Con due differenze fondamentali rispetto all’opera odierna: il limite di spazio e quello di tempo.

Lotti, faentino, arrivato a Firenze per il prestigio che soprattutto allora l’ “Alfieri”, esercitava fuori dei confini della Toscana (ancora residuo di quel tanto di autonomia che il livellamento fascistico non aveva del tutto sepolto), aveva limitato la sua indagine novatrice alla Romagna. E l’arco di tempo che aveva scelto violava ad arte i confini pattuiti dell’età giolittiana, almeno nel suo splendore, ripercorreva piuttosto l’intero ciclo della fondazione, o meglio rifondazione, del partito, dopo la diaspora seguita alla morte di Mazzini, dal 1895 al 1915. Una storia analitica e accurata: cui non era sconosciuto nessun documento, cui non era estraneo nessun frammento, neanche delle infinite polemiche e divisioni che la cruda lotta anti-socialista aveva determinato nel corpo vivo e complessivamente fiorente del repubblicanesimo romagnolo. Una realtà che era riesplosa, quasi all’improvviso e contro ogni scetticismo, all’indomani di una liberazione che in quella regione, anche nella resistenza, aveva visto confondersi – amico Biasini – i simboli di “giustizia e libertà” e quelli delle brigate Mazzini. Quasi a superare, nel vivo della lotta, una dicotomia che a Roma, liberata con minore apporto della resistenza locale, aveva scavato fossati più profondi e meno colmabili: prima della sintesi fra le due esperienza operata da Ugo La Malfa.

Ecco perché il libro della Tesoro risveglia in me tanti ricordi. È questo il frutto maturo di una nuova storiografia dei partiti che da Firenze si diffuse non senza resistenze e obiezioni tenaci, soprattutto dei “risorgimentisti” intransigenti, chiusi alla sola nozione di “storia contemporanea”: di una storiografia dei partiti che contribuì a sottolineare come la storia d’Italia fosse più complessa e complicata di quello che il filone socialista tendesse a far credere.

Resta, secondo me, aperto un problema anche dopo le pazienti, certosine ricerche d’archivio di Marina Tesoro e la loro sapiente utilizzazione in questo volume, in cui si scorge tutta la capacità del maestro: l’atteggiamento di Giolitti verso il movimento repubblicano, affiorante qua e là nelle pagine del libro ma non sottoposto a un’analisi particolareggiata. Conosco, e anticipo, l’obiezione: ma Giolitti non ha parlato quasi mai dei repubblicani, i riferimenti al PRI sono scarni, e spesso svogliati, nella fitta messe dei suoi discorsi parlamentari.

Fu la stessa obiezione che venti e più anni fa fu mossa allorché mi accinsi all’indagine, di tipo essenzialmente documentario-archivistico, su Giolitti e i cattolici. Il mio libro – un libro cui resto affezionato più che ad ogni altro di quel periodo, un libro che posso ristampare ancora adesso senza correggere una virgola, senza introdurre una variante che non sia di aggiornamento bibliografico – volle rappresentare una risposta a quel tipo di domanda.

È proprio impossibile pensare ad un’indagine su “Giolitti e i repubblicani”? Certo meno vasta, certo più essenziale e stringata di quella riserbata al tema “Gioliti e i cattolici”. È un interrogativo che formulo alla fine di questa mia testimonianza.

Certo la parola “repubblicani” è quasi cancellata dalle memorie di Giolitti: così come cancellati risultarono i nomi di tutti i pontefici che avevano accompagnato la lunga ricca stagione dei suoi governi, da Leone XIII a Pio X a Benedetto XV. Se la memoria non mi inganna emergono due eccezioni sole: a proposito della nascita del governo Giolitti della fine del 1903, con la proposta di collaborazione ai socialisti respinta anche per la “pressione – ecco le parole di Giolitti – degli agitatori più scalmanati, non solo del partito socialista ma anche fra i repubblicani e i radicali”, e poi a proposito della scelta del radicale Marcora, un anno dopo, per la presidenza della Camera, motivata con la necessità di una precisa differenziazione “dagli estremisti, sia repubblicani che socialisti”. Quando scoppia la Settimana Rossa dieci anni più tardi – una fiammata rivoluzionaria in cui l’impronta repubblicana è forse più accentuata di quella socialista – lo statista parco e sdegnoso liquida tutto sotto il termine sprezzante e sintetico, “agitazione semi-anarchica nell’Italia centrale”. Dove sembra quasi adombrato il nesso fra repubblicanesimo e anarchismo, che resisterà in certe regioni alle stesse persecuzioni o interdizioni fascistiche.

Ma penso che sia egualmente da considerare una ricerca accurata nei discorsi parlamentari, sia di Giolitti sia dei suoi dirimpettai. Penso in questo momento a uno scambio di battute, rivelatore ed emblematico, fra Giolitti e una voce dell’Estrema Sinistra, nella tornata della Camera del 4 febbraio 1901. L’eco del revolver di Bresci non si è ancora spenta; Giolitti è da pochi mesi ministro dell’Interno, in un governo come quello di Zanardelli che ha rifiutato tutti i consigli di intransigenza della gestione Pelloux ed è andato oltre i timidi rimedi dell’intermezzo Saracco.

La linea nuova di neutralità nei conflitti fra capitale e lavoro comincia ad emergere. La rinuncia ad utilizzare l’esercito nei conflitti di lavoro – docile strumento del padronato – è alle porte. Il tono nuovo, democratico, di stampo neo-risorgimentale, del vecchio Presidente del Consiglio si unisce con la secchezza e l’asciuttezza del neo-ministro dell’Interno, che ha conosciuto tutti gli ostracismi del mondo conservatore e le vendette, talune spietate, dell’ambiente crispino.

Giolitti, che difficilmente si abbandona a giudizi sommari, che rifugge dalle semplificazioni statistiche, delinea una geografia rigida della lotta politica. “Considero come veri partiti politici tre soli, il clericale, il socialista e il costituzionale”. Pone una domanda: “Quale di questi tre partiti eserciterà una maggiore influenza sopra queste masse”, cioè la classe povera e malcontenta che rappresenta la maggioranza del paese oltre le finzioni giuridico-politiche dell’unità legale raggiunta dal compromesso risorgimentale? Prospetta una minaccia: davanti a un’eventuale inazione del governo, “quale meraviglia che i partiti estremi socialisti e clericali guadagnino il paese?”.

È a questo punto che una voce dai banchi dell’opposizione interrompe il titolare dell’Interno: “e i repubblicani?”. Giolitti, come sempre prontissimo: “ebbene se volete dirò partiti popolari”. Era un riconoscimento importante, alla radice popolare del movimento post-mazziniano, che va integrata con la lettura attenta di un’altra battuta scambiata due anni e mezzo più tardi, sempre alla Camera, con l’on. Salvatore Barzilai.

Lo scenario è diverso. Siamo al 2 dicembre 1903, Giolitti è già Presidente del Consiglio, dopo il ritiro di Zanardelli. Sta presentando il suo nuovo governo alla Camera. Ha chiesto invano la collaborazione dei socialisti; fra le ragioni del “no” di Turati c’è il vincolo del “frontismo” con l’Estrema Sinistra, la paura di “scavalcamenti” proprio da parte dei repubblicani, che seguono con crescente disappunto il flirt fra istituzioni monarchiche e movimento operaio, quello che l’ingegno di Missiroli tradurrà nella formula “Monarchia socialista”.

Giolitti ha una memoria tenace. “L’on. Barzilai si è doluto con me – dirà in quell’occasione – per avere io detto che il partito repubblicano non aveva ragione di essere. Ma la citazione da lui fatta alle mie parole non era completamente esatta. Io dissi che mi proponevo, con un regime di libertà e di riforme, di dimostrare che il partito repubblicano non aveva ragione di essere, perché qualunque progresso può essere raggiunto col regime che abbiamo”. È un omaggio significativo alla carica riformatrice che alimenta il neo-repubblicanesimo, uscito dal “voto di castità” politico, entrato con la crisi di fine secolo nel vivo della lotta politica, nella battaglia per la creazione di una democrazia industriale moderna al posto dello Stato conventuale e oligarchico ereditato dai notabili del Risorgimento; quasi una sfida. “Se non riusciamo noi liberali avanzati sulla via delle riforme – ecco il senso del pensiero giolittiano – toccherà ad altri assolvere allo stesso ufficio storico”.
Ma non basta. Giolitti ha un lampo, al laico Barzilai delinea il rischio che altri, non laici, proprio le falangi clericali possano essere le beneficiarie del fallimento del regime liberale moderno in Italia. Incalza nel suo discorso: “con le istituzioni attuali sono possibili tutti i progressi che il paese desidera”. E aggiunge: “chi si gioverebbe di questa mancata dimostrazione non sarebbe il partito repubblicano ma un altro partito lontanissimo dal partito repubblicano, che non ha nessun rappresentante qui dentro [siamo nel 1903, ancora prima dei timidi “cattolici deputati”], ma che in Italia è assai più forte del repubblicano”. Conclude; con tacitiana forza profetica: “il giorno in cui il paese fosse disgustato dalle istituzioni attuali e vedesse che non può raggiungere i fini a cui mira, non si rivolgerebbe ai repubblicani, ma si rivolgerebbe all’estremo opposto”. E allora sarebbe impossibile concludere che “la libertà non corre più alcun pericolo in Italia”.

Il nesso fra le due opposizioni, laica e cattolica, Giolitti lo vide prima e meglio di molti storici di casa nostra. Ecco perché, caro Colombo, ritengo che altra strada si possa percorrere dopo l’importante traguardo di inquadramento critico e documentario segnato dal libro di Marina Tesoro. C’è una storia d’Italia che non coincide né col peso dei numeri nelle assemblee parlamentari né col rigore dei conformismi avanzati nelle coscienze.

Giovanni Spadolini



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