Cronache dal prossimo futuro: meno utili alle imprese, e lavoratori più poveri

La globalizzazione entra in una nuova fase, in cui i Paesi emergenti diventano sempre più competitivi. Anche le multinazionali vedranno ridursi gli utili, a scapito dei lavoratori. E l’Italia? A causa del suo impianto contrattuale antico, si troverà travolta

di Gianni Balduzzi

STR / Getty Images

26 Ottobre 2016 - 08:10








Uno spettro s’aggira per il mondo: non è il comunismo, ma in un certo senso, secondo alcuni, un suo parente. In termini marxisti sarebbe chiamata “caduta del saggio di profitto”, in quelli più capitalisti(ci) usati oggi si parla di “calo dei margini delle aziende”, degli utili, insomma.
Non a caso a lanciare l’allarme non sono (solo) i neo-marxisti, ma anche un tempio del capitalismo come Mc Kinsey, che mette in luce come sia finita la pacchia per le multinazionali, che negli ultimi decenni hanno goduto del calo dei prezzi dell’energia, del crollo dei tassi d’interesse, dell’ingresso nel mercato di un numero enorme di lavoratori che ha tenuto a freno il costo del lavoro. E che grazie a questi fattori hanno visto la quota dei profitti crescere più di quanto sperato.
Oggi la globalizzazione entra in una fase più matura, i lavoratori giovani secondo McKinesy scarseggeranno, perlomeno quelli qualificati, con una conseguente spinta sui salari. La concorrenza da parte dei Paesi emergenti sarà sempre più forte, in tutti i campi, anche quelli dell’alta tecnologia in cui le multinazionali occidentali si sentivano più sicuri, i tassi d’interesse torneranno a crescere, seppur non ai livelli di un tempo.
Lo stesso progresso tecnologico permette la nascita di imprese globali, in cui barriere e limitazioni alla concorrenza non sono di fatto possibili – si pensi a colossi come Facebook o Google, che grazie alla rete possono operare su larghissima scala con meno lavoratori. Nulla di nuovo, insomma, ma l’effetto sarà un calo netto dei profitti al di sotto dei massimi raggiunti negli ultimi anni, sia prima che dopo le tasse:



Un esempio è costituito dal settore delle telecomunicazioni, dove le chiamate Voip o via Skype già nel 2013 pareggiavano quelle tradizionali, schiacciando con i propri costi irrisori i profitti dei colossi del settore:



Oggi la globalizzazione entra in una fase più matura, i lavoratori giovani secondo McKinsey scarseggeranno, perlomeno quelli qualificati, con una conseguente spinta sui salari

E l’Italia in tutto questo? Già suona strano per un abitante del Belpaese sentire che l’ultimo trentennio è stato un bengodi per i profitti delle aziende e più in generale per l’economia globale. Del resto siamo stati quelli che sono cresciuti meno, escludendo Paesi in guerra o in carestia, soffriamo da 20 anni un declino di cui non vediamo la fine, e ora ci viene detto che andrà peggio anche per le grandi aziende, figuriamoci per le piccole, di cui l’Italia è la patria.
In Occidente già si osserva come questo trend di schiacciamento dei profitti provochi enormi pressioni anche sui lavoratori e i salari. Che sono saliti meno della produttività, ma il numero degli occupati è perlomeno cresciuto, perchè l’adattamento verso produzioni a maggiore valore aggiunto, verso il settore dei servizi avanzati, verso maggiori efficienze, è in atto. Una risposta dal lato del lavoro è quindi presente.
In Italia no, e un piccolo indizio ci arriva dagli ultimi dati INPS sull’occupazione, che ci mostrano come il nostro mercato del lavoro non sia per nulla pronto al nuovo mondo che abbiamo davanti: il contratto a tempo indeterminato è ufficialmente concepito come quello principale ma i suoi enormi costi in termini di cuneo fiscale e di costi di licenziamento fanno sì che, terminate le decontribuzioni, sia tra quelli meno utilizzati dalle aziende, almeno in confronto a un tempo.
Il contrario dei voucher, che sono esplosi dal 2014 ad oggi, con un aumento medio del 132%, e sono usati soprattutto in alcune regioni, quelle dove agricoltura e servizi sono più diffusi, Sicilia, Campania, Lombardia, Lazio, e meno in quelle più industriali, Piemonte, Veneto, Marche, Emilia Romagna, dove neanche il voucher riesce a essere una risposta al declino della competitività.



Allo stesso tempo il contratto a tempo indeterminato, appunto, è talmente considerato come un premio da concedere solo a una nicchia d’elite altamente specializzata che il salario medio di chi è stato assunto con questo contratto è salito di ben il 6% nei primi 8 mesi del 2016 rispetto al 2015. Non c’è nulla da festeggiare su questo dato, è solo la prova di quanto poco sia stato utilizzato: con solo 53mila nuove assunzioni in più rispetto ai 12 mesi precedenti.



Un altro indizio alla nostra impreparazione è quello che sta accadendo a Foodora: una multinazionale globale tedesca si afferma unendo la nuova passione foodie del pubblico con la tecnologia e però, visto il mondo in cui opera, non ha margini altissimi, per nulla, e punta piuttosto ad allargare la base clienti.
La conseguenza è il pagamento dei suoi pony express, a bassissimo livello di specializzazione e facilmente sostituibili, a cottimo, collegando direttamente il costo del lavoro alla produttività. Si potrà discutere se si può concedere ben più dei risicati 2,80€ a consegna, ma è quello che del resto si sta facendo in tutto il mondo, anche nelle aziende in cui è molto più complicato collegare l’apporto di un singolo lavoratore al fatturato aziendale.
Il risultato è un salario molto basso, e non può essere una sorpresa in un settore in cui i margini in fondo sono così ridotti. Saranno molti in futuro i casi come quelli di Foodora, ma la colpa è delle aziende come questa o di un modello di welfare che in Italia è rimasto attaccato a un mondo che non esiste più da 30 anni? In altri Paesi – nella Germania, patria di Foodora, per esempio – lo Stato destina ai lavoratori poveri, quelli che accettano mini-job (come il pony express) e hanno magari un affitto da pagare e figli da mantenere, generosi sussidi.
Nel nostro Paese si preferisce destinarli alle solite pensioni, lo sappiamo, a quel 70% di pensionati che riceveranno la 14esima nonostante, parole del presidente dell’INPS Boeri, vivano in nuclei familiare ben al di sopra della soglia di povertà.
I ragazzi di Foodora protestano giustamente, perché il mondo sta cambiando, e le conseguenze negative di questa compressione dei margini si faranno sentire soprattutto sui Paesi più deboli come il nostro e sui lavoratori più vulnerabili, ma dovrebbero cambiare l’obiettivo della propria rabbia.
Tocca agli Stati favorire l’adattamento al nuovo mondo in arrivo, renderlo il più morbido possibile, trasformare le sfide in opportunità, e quello italiano non lo sta facendo, forse non ha neanche capito la direzione in cui corre l’economia.

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