«Vuol vedere le “baracche” dove dormiamo»? Sono loro a usare questa parola così forte, così lontana dalla vita degli italiani del 2016. La usano perché sono i primi a stupirsi di quello che sta accadendo ma loro sono gli irriducibili delle montagne: sono pronti a tutto pur di non abbandonare la loro terra.
A due mesi e mezzo dalla prima scossa che provocò quasi trecento morti e a due settimane dall’ulteriore colpo che ha fatto crollare la basilica di Norcia, messo in serio pericolo un notevole numero di edifici romanici e gotici, e buttato fuori dalle loro case 20 mila persone, è ufficialmente arrivato il gelo e per troppi l’unica difesa dalle temperature che da adesso a fine febbraio di notte saranno sempre sotto lo zero, sono proprio le «baracche».
Tra tende e container, come vivono gli sfollati del terremoto di Norcia
Sarebbero i container ereditati dal terremoto del 1979, cinque morti e duemila sfollati a Norcia. Parallelepipedi di lamiera in uso da quasi quarant’anni, negli ultimi tempi soprattutto come magazzini, ricoveri di fortuna per animali o merci. Invece di andare definitivamente in pensione come avrebbero dovuto, nelle ultime due settimane sono diventati una merce rara e contesa.
Non sono stati così fortunati ad averne uno, ad esempio, a San Giorgio, frazione di Cascia. Davide D’Ascenzo, muratore senza lavoro e ora anche senza più casa, nasconde dietro i sorrisi la sua amarezza: «Resta a cena con noi, con i poveri si mangia sempre bene». Il menu prevede pasta e ceci e rollé di tacchino, ha cucinato per tutti Beatrice, allevatrice di mucche, tra una mungitura e l’altra.
Davide e altri undici abitanti del borgo dormono in una tenda piena di buchi e tentativi di rattoppo. «Ce l’hanno regalata degli amici. È una fortuna, altrimenti non sapremmo come fare», racconta. Nella tenda dormono la figlia di cinque anni, un’altra famiglia con un bimbo di un anno e gli anziani parenti. «Le temperature sotto lo zero? Abbiamo queste», sorride Davide mostrando tre stufette a ventola elettriche, quelle che le signore freddolose usano nei bagni di città. Prova a accenderne una per mostrarne la potenza: l’elica gracchia con un evidente stridio metallico. «Lassa perde, spegni che è meglio», gli dicono gli altri. Nessuno accenna al groviglio di cavi e prese elettriche sul telo di plastica del pavimento dove quando piove arrivano acqua e fango: una garanzia di cortocircuito in quelle condizioni. Ma quando piove ci sono problemi più urgenti di cui occuparsi: ad esempio assicurarsi di aver steso bene i bustoni di plastica per evitare che le gocce entrino nella tenda. «Due giorni fa abbiamo trovato un letto completamente bagnato. Abbiamo dovuto toglierlo». Cioè l’hanno riportato nella casa lesionata e ne hanno preso un altro asciutto.
Si vive così sulle montagne della Valnerina in questi giorni. Da soli contro le scosse che non accennano a terminare e il freddo che avanza. A Frascaro, frazione di Norcia, hanno il paese diviso in due dalle macerie della chiesa. Daniela Valeri vive con una trentina di persone in quella che dopo il crollo del 30 ottobre è diventata la parte bassa del paese. Dorme con il marito e le tre figlie nel giardino di casa in una roulotte molto usata acquistata pochi giorni fa a 1200 euro. A pochi metri vivono in quattro in un container, e altri tre in una roulotte. Il resto del paese, compresi tre disabili, dorme in tenda. «Ne avevano montata una indecente, con un odore irrespirabile, sporca, umida, piena di muffa», racconta Daniela. Dopo le proteste ne hanno montata un’altra. Giusto in tempo per l’arrivo del freddo. Peccato che non funzioni il riscaldamento. Da due notti gli ospiti della tenda dormono nella «baracca» destinata a mensa sociale. Mettono via i tavoli e portano i letti. Al mattino riportano in tenda i letti e apparecchiano per avere un posto dove stare insieme durante i pasti.
«Siamo in piena autogestione», continua Daniela. Si va avanti grazie agli aiuti dell’Italia intera che sta facendo a gara per donare tutto quello che può e nonostante le lentezze e le rigidità della burocrazia. Piediripa è il borgo vicino: quaranta persone, molte che si arrangiano tra tende e roulottes, un altro paese diviso in due da una strada trasformata in zona rossa da una casa che dovrebbe essere demolita. «Per il momento è lì senza che nessuno emetta l’ordinanza di sgombero - racconta Andrea Mochetto - Per uscire dal paese e portare nostra figlia a scuola siamo costretti a passare per i campi. Con la pioggia di questi giorni sono 40 centimetri di fango».
Laura Rossi vive a Savelli, un’altra frazione di Norcia. La casa è inagibile, si è sistemata in una baracca in mezzo ai campi. «Fino a qualche tempo fa ci viveva uno slavo», racconta. Ora vivono in cinque: lei, il marito e tre figlie. Il riscaldamento è una stufa a legna, una bomba tossica. Il bagno fino a due giorni fa è stato una baracca vicina, la stalla delle pecore. La stanza della colazione è ancora oggi la terza baracca, che usano anche come magazzino viveri. «Quanto tempo ancora vivremo così? Non so, stiamo cercando una casa in affitto», ammette Laura Rossi.
Ma è l’unica a mostrare segni di cedimento. Gli altri resistono. «Vogliono costringerci a andare via rendendoci la vita impossibile ma non ci riusciranno», minaccia Franco Casciolini, anche lui di Savelli. Ma forse è Daniela Valeri a spiegarlo con le parole migliori: «Noi apparteniamo a questa terra. E’ il posto giusto per noi, non ce n’è un altro».