La lezione di Arturo Reghini. Il politeismo dantesco e l'inquisizione
Mercoledì 19 Novembre 2008 – 16:42 – Luigi Carlo Schiavone
Era il 1914 quando, sul numero di gennaio-febbraio della rivista Salamandra, fece la sua comparsa l’articolo intitolato “Imperialismo pagano” a firma di Arturo Reghini, il pitagorico fiorentino, che, alfiere di “quello scarso manipolo di pagani e di pitagorici conscio dell’occulto nesso che lega il passato all’avvenire affermava categoricamente la propria fede nei destini imperiali di Roma” cercava, attingendo ad una sapienza antica che mai più d’allora sembrò essere di innegabile attualità, di smuovere le coscienze intorpidite di uomini che non sembravano aver chiaro il ruolo che Roma era destinata ad occupare nel mondo.
L’articolo, sebbene non possa essere paragonabile ad altre opere del maestro fiorentino, raccoglie in sé il nucleo centrale della speculazione reghiniana fondata sulla necessità di dar vita ad un nuovo “imperialismo pagano” da cui debba scaturire un’alternativa spirituale capace di arginare l’ormai dilagante egemonia spirituale del cattolicesimo, la cui matrice di culto esotico e plebeo era colpevole, a detta del Reghini, di aver minato seriamente quello spirito olimpico proprio della romanità.
Questo articolo, dal “carattere iniziatico pitagorico” ci viene presentato dal Reghini come un’opera prettamente spirituale totalmente distante dalle questioni di mera contingenza politica. Ciò, però, non è totalmente vero visto che l’autore comincia la propria speculazione facendo un’attenta analisi della consultazione elettorale del 1913, la prima in Italia col suffragio universale maschile. La grande affermazione avuta dal Partito socialista ed in misura maggiore dal Partito popolare sono chiari segni, a detta del Reghini, del dilagante analfabetismo e semplicismo tra le masse popolari abilmente sfruttato dall’èlite politica del tempo; se da un lato, infatti, agli operai delle grandi città imputava la colpa di aver ceduto alle lusinghe di coloro che meglio sembravano tutelare i loro “gretti interessi di classe”, dall’altro non mancava di accusare i contadini, rei di esser stati manipolati, com’era tradizione, dai preti abili nello sfruttare la loro cieca convinzione nella fede cristiana. Non sfugge alle critiche sferzanti di Reghini nemmeno il partito nazionalista, che, sebbene si fosse dimostrato determinante in alcune battaglie di carattere nazionale, risultava incapace di raccoglierne frutti adeguati ed ottenere un successo proporzionato alla “potenza con la quale s’era risvegliata negli ultimi anni la coscienza nazionale italiana”. Un’incapacità dovuta soprattutto, secondo Reghini, al connubio sempre più stretto che andava consolidandosi fra il nazionalismo e gli ambienti clericali. Era questa un’unione che egli considerava ampiamente insensata visto che il sentimento nazionalista era da considerarsi avulso dai caratteri tipici di quel clero cattolico che non perdeva occasione, per rilanciare, soprattutto nell’ambito dei propri congressi, il problema dell’irrisolta “questione romana”.
“Il Papato è istituzione essenzialmente internazionale, dichiaratamente cattolica, i clericali nella vita politica di tutti i popoli rappresentano l’esercito di questa istituzione; divenire nazionalisti è per essi perdere la loro stessa natura”. E’ sulla base di queste motivazioni che, secondo Arturo Reghini, diviene impossibile fidarsi di un clero che si scopre nazionalista solo a causa di mutate condizioni internazionali che ne riducono il potere nelle nazioni tradizionalmente cattoliche, creando nelle alte gerarchie ecclesiastiche preoccupazioni arginate solo dal lento progredire del “Verbo”, per cause più materiali che spirituali, in nazioni, come la Germania, solitamente a maggioranza protestante.
La scelta nazionalista del clero è vista, quindi, da Reghini, solo come l’ennesima manovra della gerarchia vaticana per conquistare, contando su di “clero giovane e battagliero”, l’egemonia in Italia; l’obiettivo non e’ più di ottenere maggiori restituzioni, ma conquistare l’intero paese. I contadini, abbandonati dagli esponenti dei vari partiti democratici, impegnati nell’eterna causa di rimarcare “gli immortali principi dell’ottantanove”, sono visti come la manovalanza di una simile manovra che, unita alla stipulazione di “patti segreti” (Gentiloni docet), faranno sì che il “più grosso guaio capitato alla Chiesa di Roma”, ossia l’unità italiana, finisca col volgersi a beneficio di quanti rimpiangevano il Papa-Re.
L’essenza stessa del nazionalismo, infatti, deve essere ritrovata, secondo Reghini, nella capacità di porsi a totale servizio della nazione pensando esclusivamente al bene della stessa. Diffidare del nazionalismo clericale è dovere, per l’intellettuale fiorentino, d’ogni nazionalista, in quanto l’aggettivo aggiunto simboleggia la restrizione mentale di chi si schiera in difesa della nazione solo per garantire la vittoria di una particolare credenza, il cattolicesimo. I fini di quest’ultimo, peraltro, sono da considerarsi incompatibili con la grandezza della Patria in quanto: “nella lunga serie dei secoli, dalla fondazione della Chiesa di Roma in poi, il papato, sempre e poi sempre, è stato il naturale nemico di Roma e d’Italia”.
L’affondo reghiniano, tuttavia, si mostra più duro nel momento in cui l’autore disquisisce del fondatore della religione rea di aver minato nei tratti la civiltà gentile dell’Impero Romano. Gesù ci è presentato, infatti, come “un megalomane ipocondriaco e sentimentale”, patrocinatore di un credo che mirava a sistemare le cose dell’umanità attraverso un’opera di persuasione che avrebbe dovuto portare gli uomini ad amarsi l’un l’altro, giungendo a completa realizzazione in un paradiso retto da una giustizia divina che ben sposava le speranze dei suoi accoliti. Una predicazione mite, insomma, da cui è scaturito, in seguito l’odio teologico, il fanatismo religioso e le prime guerre di religione ignote all’umanità pagana. Di fronte a ciò, afferma Reghini, non è accettabile la tesi di quanti ricercano la colpa negli uomini che hanno distorto il messaggio di pace del cristianesimo, in quanto il reale colpevole è da ritrovarsi in Gesù stesso perché: “se egli fosse stato realmente savio avrebbe dovuto prevedere che gli uomini non avrebbero mai potuto praticare le sue sovrumane massime. Per farlo avrebbero dovuto cessare di essere uomini, e non si può cambiare quello che è persuadendolo a non essere”.
Messe a nudo le deficienze endemiche della religione cristiana, Reghini passa ad analizzare tutte le diverse cause che, dal punto di vista storico, hanno permesso l’espandersi del fenomeno cristiano.
Sviluppatosi in seno all’Impero Romano, grazie alla tolleranza che gli imperatori erano soliti mostrare verso tutti i culti, e alla fede dimostrata in uno Stato la cui autorità basata sulla sapienza amministrativa ed il diritto s’estendeva su tutti, questo credo, che garantiva la verità a chiunque ne divenisse seguace, si mostrava molto diverso dai culti pagani preesistenti che, esuli ad una simile pretesa, lasciavano, com’era costume di tutta l’antichità, che la sapienza fosse elargita ai soli che prendevano parte ai misteri.
Tuttavia, quando gli imperatori si resero conto del pericolo era ormai troppo tardi; il morbo s’era esteso già fino all’Urbe e l’aquila, simbolo fino ad allora della “pax romana”, vedeva impiastricciarsi i suoi artigli “nel dolciume appiccicoso dell’amore universale”.
L’instaurazione a Roma di questa nuova religione provocò, secondo Reghini, sia l’indebolimento del carattere stesso del cittadino romano, sia il furto de “la forza stessa e l’ascendente insito nel suolo, nell’aria nel nome santo di Roma” attraverso l’accaparramento di simboli di credenze antiche. Fu così che le chiavi e la navicella, fino ad allora simboli del culto di Giano, finirono per esser “donate” a San Pietro, mentre dall’arcaismo simbolico delle massoneria veniva mutuato il titolo di pontifex maximus e, per nascondere il suo carattere esotico, conclude Reghini, tale credenza non esitò a proclamarsi romana.
Riprendendo quando citato da Dante nel Paradiso, Reghini non manca di affermare che il primo effetto tangibile del crescere dell’influenza cattolica sull’autorità imperiale è da ritrovarsi nella sfasciatura dell’unità dello Stato e nella conseguente creazione dell’Impero d’Oriente; il consolidarsi della posizione della Chiesa di Roma cresce di pari passo col passare degli anni anche grazie al fallimento dei tentativi d’unificazione italiana e di ristabilimento dell’autorità imperiale da parte degli Imperatori d’Oriente.
L’Impero poteva, dunque, considerarsi ormai un ricordo e il suo vano simulacro sorto come baluardo del cattolicesimo per fronteggiare la “minaccia islamica” era, secondo Reghini, destinato a perire per la sua innaturalezza. Tuttavia, l’idea imperiale, era da considerarsi, per il pitagorico fiorentino, come il sogno recondito perseguito da tutte le società segrete sorte in Europa dall’anno Mille e nei quattro secoli successivi, la cui storia è ancora tutta da scrivere e da comprendere.
Per Reghini, infatti, è difficile comprendere cosa esse si proponessero se non si conosce lo gnosticismo, il manicheismo, il paganesimo e non si è “divinato il segreto mistico e politico della cavalleria, senza aver compreso la gaia scienza d’amore dei trovatori ed il gergo ed il simbolismo delle società segrete senza aver scoperto l’affinità gli occulti vincoli che incatenavano fra loro eretici e ghibellini, lombardi e tolosani, fraticelli, trovatori e Cavalieri del Tempio”. Contro tutto ciò la Chiesa cattolica abbatté la propria mannaia; “la bestia apocalittica dell’abbominazione babilonese”, come la definivano i trovatori, abbandonò il vangelo per adoprare le spade, non più simboliche ma reali, lordandosi le mani del sangue di chi non era disposto ad accettare il suo dominio. A riguardo, Reghini ci ricorda come i domenicani, nerbo dell’inquisizione, non mancarono di farsi portatori della loro fede adottando metodi tutt’altro che amorevoli. Baluardi dell’inquisizione, essi furono lo strumento di cui la Chiesa di Roma si servi’ per estirpare il potente Ordine Templare che, come ricorda il Reghini, “minacciava scalzare fin dalle fondamenta l’autorità temporale e la spirituale in uno della Chiesa di Roma”.
Di fronte a un simile scempio, l’intellettuale fiorentino non manca di rammentare il levarsi del “più grande degli italiani” che invocava il soccorso dell’Imperatore e la vendetta di dio. E’ con Dante, infatti, che, secondo Reghini, la concezione monarchica pitagorico-romana, divenuta la tradizione imperialistica italica, riprende intera coscienza di sé. Lontano dal definirlo un epigono del cristianesimo, Reghini si adopra in una profonda analisi del paganesimo di Dante sempre pronto ad invocare Giove ed Apollo e ad inveire contro una Chiesa che pone all’inferno, simboleggiata dalla lupa, e nel purgatorio, dove assume i tratti della bestia apocalittica.
Altri segni tangibili del paganesimo dantesco possono scorgersi, secondo Reghini, nella sofferenza che egli mostra di fronte a tutte le sciagure e sconfitte imperiali e ghibelline; sconvolto per la perdita del ministro di Federico II Pier delle Vigne, non manca di mostrare grande simpatia per Manfredi e Corradino, la cui uccisione, come la congiura contro i Templari, lo porta a scagliarsi contro la Francia, i Capetingi, la Casa d’Angiò e Filippo il bello.
Significativi sono anche i personaggi che sceglie per guide; oltre a Virgilio, imperialista e pitagorico, e Beatrice simbolo della filosofia, Dante sceglie San Bernardo che, solo all’apparenza, sembra essere il simbolo dell’ortodossia cristiana. Ma è Reghini, con la sua conoscenza, a svelarci il valore simbolico e pagano di tale scelta. Il contemplante, termine usato da Dante per riconoscere a san Bernardo il merito d’aver fondato la regola templare, è posto al centro d’un universo simbolico unico nel suo genere; coperto da una stola bianca che richiama la veste templare così come quella indossata dai beati, che rappresentano la rosa riunita attorno alla croce templare. Tale assemblea è definita da Dante col termine convento, che per Reghini indica un chiaro richiamo al termine tecnico usato tradizionalmente per identificare le grandi riunioni delle società segrete, mentre nel connubio Rosa-Croce si può leggere un richiamo sia al simbolo del Roman de la rose, ou l’art d’amour est tout enclose, che a quello della fraternità dei Rosa-Croce e del 18° grado del rito scozzese. Alla base di simili rivelazioni potremmo, quindi, convenire col Reghini quando afferma che Dante fu costretto a farsi cristiano per non sacrificare la sua più grande opera.
Alla morte di Dante, tuttavia, nulla era mutato sullo scenario del potere; la Chiesa cattolica era ancora lì ed il fiorire dei Comuni, delle Repubbliche di Venezia e Firenze ed la vittoria del guelfismo rendevano impossibile la rinascita dell’idea imperiale oltre ad ogni tentativo d’unificazione dell’Italia.
Rivedendo in Machiavelli un adepto dell’idea imperiale romana che al pari di Dante morì non vedendo esauditi i suoi propositi, Reghini continua nella sua narrazione soffermandosi sul ruolo svolto da Giordano Bruno, Telesio e Tommaso Campanella quali progenitori della cultura laica occidentale. Questi neo-pitagorici, uomini d’azione battaglieri e coraggiosi, precursori ed iniziatori della filosofia europea, furono naturalmente oggetto di pesanti persecuzioni da parte della Chiesa e non è un caso, secondo Reghini, che Campanella muoia a Parigi, città da cui avrà inizio quella famosa Rivoluzione che, come ricorda il Reghini, “fu il risultato, ed è noto, dell’opera pratica delle società segrete, la massoneria gli illuminati in specie, animate tutte da uno spirito profondamente anticristiano”. Soffermandosi sul valore simbolico della rivoluzione francese, inoltre, egli ricorda il peso avuto dal Conte di Cagliostro e dalla sua profezia londinese in merito alla presa della Bastiglia. Allo stesso tempo, Reghini si mostra critico sul comportamento del Grande Oriente d’Italia che, incapace di sottrarsi all’influenza gesuitica, non lesina di pubblicare su Rivista Massonica ogni sorta di sconcezza contro colui che i contemporanei identificavano come il “Divino Cagliostro”.
Scorrendo gli eventi legati alla Rivoluzione, Reghini si sofferma quindi sul ruolo svolto da Napoleone, prodotto della rivoluzione ed esecutore, a suo dire, del pensiero di Dante. L’aquila romana trovava, grazie alle legioni napoleoniche, nuovamente l’ebbrezza del volo. Dalla Rivoluzione francese, quindi, si vedeva ergersi nuovamente l’idea imperiale romana, pagana nel suo essere e non inficiata nemmeno dal Concordato stipulato dall’Empereur con la Chiesa di Roma, nel 1801.
Ma con l’esaurirsi della parentesi napoleonica, il cristianesimo, in tutte le sue sfaccettature, tornava, grazie alla Santa Alleanza, ad ergersi nuovamente a sovrano d’Europa. Contro questa egemonia, tuttavia, già si levavano due nuovi campioni italiani. Reghini si riferisce ai due Giuseppe, Mazzini e Garibaldi, “che agitavano nella loro mente l’antica e immortale idea”. Per il pitagorico fiorentino le radici dell’idea imperiale in Mazzini sono facilmente rintracciabili leggendo i suoi scritti con attenzione. Costui, definito come il “veggente genovese” da Reghini, era convinto che l’Italia fosse destinata da Dio ad avere un ruolo di primo piano nel mondo facendo sorgere da Roma la luce di una terza civiltà. Il nome di Roma venne santificato da Mazzini così come i suo suolo quando, con Garibaldi, giunse a difenderla, nel 1849, contro francesi ed austriaci, antiche nemici ora riuniti sotto il vessillo cattolico. Non meno importante, secondo Reghini, è da considerarsi l’esempio di Garibaldi che attribuì a Roma un posto d’onore nei suoi pensieri. Al grido di “a Roma, ci rivedremo a Roma” sciolse, infatti, la sua legione a San Marino mentre, a detta del Reghini, l’incitamento “O Roma o morte!” rappresenta un chiaro segno della consapevolezza di Garibaldi della trascendentale importanza di Roma per i destini d’Italia.
Il valore riconosciuto ad entrambi è molto ampio; Reghini, infatti, critica duramente chi in Italia ha consegnato all’oblio le tesi mazziniane preferendo inseguire le futili utopie materialiste importate dalla Germania. Critico si mostra, inoltre, verso quanti, impegnati a salvaguardare la validità dei “principi dell’89”, dimenticano la massima mazziniana che invita a non fidarsi troppo della Francia che, in nome di una fraternità latina pro domo sua, può contare su questi utili servi nel porre ostacoli all’Italia ogniqualvolta questa si trova costretta a difendere i propri diritti dalla tracotanza d’Oltralpe.
La conclusione a cui Reghini giunge, quindi, sta nella necessità di debellare dall’Italia il dominio del cattolicesimo, “che per venti secoli è stata la sciagura d’Italia” ed estraneo ad ogni senso di romanità. Lo strumento che propone è la costituzione di un partito imperialista, laico, pagano, ghibellino che veda in Virgilio, Dante, Campanella e Mazzini i suoi numi tutelari.
Pietra miliare, tanto da esser ripubblicato in Atanor nel 1924 nonché al centro delle polemiche con Evola nel 1928, l’articolo di Reghini offre, a nostro avviso, ottimi spunti di riflessioni. Consapevoli dello scorrere dei secoli e della necessità di affrontare in chiave del tutto nuova le questioni poste dall’evolversi degli scenari internazionali, Roma, per il destino insito nel suo nome e in quanto centro propulsore della civiltà mondiale, deve necessariamente tornare ad occupare un ruolo di primo piano nella rinascita italiana ed europea, magari smuovendone le radici ancestrali. Per far ciò si rende necessaria, da parte dei popoli, un’immediata presa di coscienza che permetta di svincolarsi da un diverso tipo di “imperialismo”, quello d’oltreoceano, mosso da istanze materialistiche ed affaristiche e spesso benedetto dai “morosi inquilini della Città eterna” che, volto a far della splendida diversità del mondo un’enorme massa informe, rappresenta il più intenso condizionamento all’azione delle nazioni, sempre più libere nei trattati, ma sempre più schiave nella pratica quotidiana dell’esistenza.
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