L'ITINERARIO INIZIATICO DEL "SACRO BOSCO"
All'ingresso del Parco di Bomarzo una scritta attende il visitatore:"Voi che pel mondo gite errando vaghi di veder meraviglie alte e stupende venite qua ove tutto vi parla d'amore e d'arte". Questa introduce in quella che alcuni considerano una tra le più sconcertanti dimore filosofali care a Fulcanelli.
Delimitando uno spazio sacro in cui tutto concorra ad avvolgere il visitatore in un "altrove" indecifrabile, questo insieme in cui la vegetazione lussureggiante contende lo spazio alle stravaganze delle sculture precipita l'animo in uno stato di estrema concentrazione, specchio in cui si riflettono le forme, prodigiose e mostruosamente barocche al tempo stesso, di un universo mentale che l'uomo moderno tende a dimenticare. E' questa valletta ombrosa, disseminata di rocce enormi, paragonabili alle ossa pietrificate di qualche gigante dell'antichità, che il duca Vicino Orsini scelse per costruire lo scenario onirico del "mostruoso gregge di Bomarzo". Il poeta Annibale Caro, in alcune sue lettere datate 1564, parla già di questo parco quanto mai strano, che, a tutt'oggi, resta circondato da una spessa coltre di mistero. Si può accedere al Sacro Bosco di Bomarzo solo servendosi di un facile sentiero d'ingresso, che sbocca quasi subito accanto a un piccolo tempio "all'antica" invaso dall'erba…
Il basamento, sommerso dalla verzura, si slancia in un elegante portico bizzarramente inclinato come una nave nella tempesta. Eccoci giunti sul limitare del santuario: dopo aver varcato la soglia della cella ottagonale in cui si compirà il mistero dell'arte regale, cioè la realizzazione dello scopo cui l'alchimista dedica la vita: non, banalmente, la trasformazione del piombo in oro, ma la trasmutazione della materialità in spiritualità. Un occhio allenato osserverà sulla volta un simbolo solare raffigurato sotto la forma scolpita di una fenice dalle ali spiegate, 'firma' segreta e persistente dei discepoli di Ermes. Quest'ultimo infatti, dio greco della parola e messaggero di Zeus, venne assunto dai filosofi ermetici come simbolo di colui che è depositario della conoscenza divina. Essi si considerarono pertanto suoi continuatori in quanto dediti alla ricerca di una sapienza antica, tramandata oralmente: un patrimonio che, se conosciuto e adoperato correttamente, può riportare l'uomo alla purezza dell'Eden. Sollevato il velo, non ci resta che leggere nel "libro di pietra" e tentare di decifrare il rebus proposto alla meditazione del visitatore solitario, seguendo il cammino un tempo riservato al neofita che aspirava alla scoperta di quei misteri comprensibili solo agli iniziati. All'interno del "giardino recintato" si trova il "guardiano della soglia": un cerbero. Le sue tre teste guardano in ogni senso, due bocche sono chiuse, la terza è spalancata e pronta a mordere.
Proseguendo nel cammino, si passa, scendendo per una scala di pietra dai gradini consumati dal tempo, a uno spazio quadrangolare di imponenti dimensioni, un pianoro perfettamente vuoto delimitato solo da una decorazione di grosse pigne alternate a ghiande tagliate in una roccia di peperino vulcanico. I frutti dell'abbondanza che arricchiscono questo luogo privo di sculture sono il simbolo della ricchezza spirituale e, nel contempo, promessa continua di nascita, crescita, declino, morte e poi di rinascita, proprio come il seme di una pianta, piantato in terra dopo la sua caduta dal frutto imputridito, rigenera una nuova vita rigogliosa e provvida di frutti. «La vita in ibernazione conserva il "fuoco segreto" e noi raccoglieremo ciò che avremo seminato».
Continuando il cammino, ci si trova di fronte a due orse di pietra, ritte sulle zampe posteriori. Una tiene tra le unghie una grossa rosa di peperino e l'altra le insegne della nobile casata degli Orsini. Non occorre essere maghi per comprendere che l'ordine degli Ursidi e stato scelto come emblema dai duchi romani in conseguenza dell'omofonia esistente tra i due nomi. Ma l'identificazione va ben oltre se si pensa che l'orso è l'animale polare, il simbolo del centro per eccellenza: il nome di re Artù, secondo la maggior parte degli autori, deriverebbe dal celtico arthos, che significa orso, e sarebbe il simbolo dell'orso artico, collocato dai Celti, come da tutti i popoli discendenti dalla tradizione primordiale, nel mezzo della volta celeste, nella costellazione in cui brilla la stella polare, chiamata appunto Piccola Orsa. Se gli Orsini assunsero la rosa come simbolo della conoscenza segreta (sub rosa) e gli orsi del loro giardino come quello delle due costellazioni del Carro di Artù (l'Orsa Maggiore e l'Orsa Minore), non sussiste alcun dubbio sulla loro iniziazione agli arcani più profondi dell'ermetismo e la loro speranza in una futura restaurazione saturniana dell'età dell'oro.
Dopo aver oltrepassato le due belve appostate come immobili guardiani al limitare del pianoro, si penetra, scostando il fogliame, nell'angolo segreto del parco che ha per sfondo uno scenario silvestre. Qui, una sorta di sperone roccioso che segue il pendio del terreno fa arrestare il visitatore. A sinistra sta un gruppo formato da due leoni, accompagnati da un cucciolo che sembra molestarli, e dalla statua di una sirena dal sorriso enigmatico e dal corpo grazioso che termina in una coda di pesce squamosa e bifida; a destra, un'altra figura femminile dalla stessa natura composita guarda verso oriente: dal corpo mutilato escono due ali membranose da pipistrello e una coda serpentina da mostro marino.
I due leoni che stanno accanto alla sirena sono i due simboli alchemici del 'fisso' e del 'volatile' e riassumono la formula secondo la quale occorre «dare un corpo allo spirito e rendere spirituale il corpo» nella successione del solve et coagula. Ciascuno guarda in direzione opposta: uno è attirato dall'aria, l'altro dall'acqua, elementi che non possono essere affrontati contemporaneamente senza trovarsi in grave pericolo. Passando con circospezione tra queste sculture che non degnano di un'occhiata chi le osserva, e non senza aver sentito il bisogno di un contatto con questi dorsi muschiosi e gelidi, ci si trova sotto le fresche ombre di una volta verdeggiante, per gustare una pausa di riposo ascoltando il placido mormorio del ruscello. Poi, scendendo la china che sbocca in fondo alla valletta, si giunge in una zona di oscurità sempre più profonda. Un sentiero si dirige verso il ciglio di una cascata che si apre la strada con difficoltà in mezzo a rocce enormi, tra le quali si può scorgere la forma lontana del Castello.
Da ITALIA MISTERIOSA, a cura di Peter Kolosimo (EDIPEM, Novara)
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