Da G. Spadolini, Intervista sulla democrazia laica, a cura di Paolo Bonetti, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 47-65



Lei considera – ha detto – “un segno di nobiltà per coloro che vi parteciparono” l’adesione alla vicenda dell’unificazione liberale, negli anni del “Mondo”. Ma chi rappresenta oggi in Italia l’eredità del pensiero liberale, liberal nel senso anglosassone?


Facciamo una premessa storica. Il partito liberale si costituisce nel nostro paese quando lo Stato liberale ha già cessato di esistere, dopo la marcia su Roma. È quasi una malinconica confessione di impotenza nell’estremo autunno del 1922. In Italia è esistito, dal Risorgimento al fascismo, lo Stato liberale, con tutti i suoi limiti ideologici e oligarchici; ma non un partito liberale in senso moderno. Il rimprovero degli “antigiolittiani” a Giolitti è di aver concorso, col suo sottile trasformismo progressivo, a impedirne la costituzione, quando nel primo decennio del secolo – già formati organicamente i partiti della sinistra democratica o classista, cioè repubblicani, radicali, socialisti stessi – ciò era forse possibile.


L’area della democrazia liberale, quindi, nel nostro paese si confonde piuttosto con l’area della democrazia repubblicana…


Non a caso “democrazia repubblicana” si chiamò il nucleo scissionista del partito d’azione nel 1946, quello cioè che rifiutava la caricatura di un secondo o terzo mini-partito socialista. E non a caso venti anni prima e più, Giovanni Amendola (che era un liberale, classico quiritario) chiamò Unione democratica nazionale il nucleo di questo grande partito democratico-riformatore, e tendenzialmente già repubblicano dopo il tradimento della Monarchia rispetto all’Aventino. Non fece riferimento al termine “liberale”. Ci sarà stata pure una ragione.




Come vede l’attuale partito liberale rispetto all’area della democrazia laica, o laico-repubblicana?


In questa area, almeno fino al 1976, il partito liberale ha pesato poco o niente (con la sola eccezione del gruppo del “Mondo”, che non a caso ruppe presto col PLI e costituì il primo partito radicale, alleato dei repubblicani nelle elezioni del 1958). Con l’avvento della sinistra liberale alla guida del partito, i liberali si sono avvicinati a talune posizioni sempre sostenute dai repubblicani, fino alle liste comuni, di ispirazione federalista, per le elezioni europee dell’84. Ma la tradizione liberal in Italia, il filone di democrazia progressiva e riformatrice, si riassume nel partito repubblicano e quindi nel gruppo del “Mondo”, quella parte che rimase fedele fino all’ultimo, anche sul delicato terreno della politica estera, alla linea rigorosamente atlantica ed europeistica di Mario Pannunzio.


Mi pare di capire che, per lei, i partiti storici della democrazia italiana sono soltanto due: il partito socialista e quello repubblicano.


Il caso italiano è del tutto anomalo rispetto alla storia europea, e ciò spiega la frammentazione partitica del nostro paese. Nell’area della democrazia laica, i due autentici poli, culturali e politici, sono il partito repubblicano e il partito socialista. Nascono a distanza di pochi anni l’uno dall’altro: nel 1892 il socialista, nel 1895 il repubblicano (che però ha venticinque anni di anzianità clandestina). Hanno entrambi, come movimento associativo e solidaristico, le loro radici nel movimento operaio. Riuniscono settori delle classi subalterne, in base a impostazioni di rinnovamento sociale differenziate e in qualche misura contrapposte, che tali sempre resteranno (l’associazionismo mazziniano contro la lotta di classe).


Resta da inquadrare, rispetto a questa fase storica, il movimento radicale, che pure ebbe una sua influenza.


Il radicalismo è nato, in Italia, come eresia del repubblicanesimo (ma eresia in senso moderato, pragmatico, più prossimo all’area del governo). E comunque tutte le istanze liberali-progressiste si muovono, fino all’avvento del fascismo, nell’orbita delle forze di democrazia all’opposizione come il PRI, o a metà fra opposizione e governo come i radicali. La sola eccezione è Giolitti, sul versante liberale.


Dunque la tradizione liberal, o comunque del liberalismo progressista, ha trovato storicamente espressione nel PRI piuttosto che nel PLI. Ma allora come mai i repubblicani si sono riconosciuti, sul piano internazionale, sotto l’etichetta “liberale”? Non crede che possano derivarne equivoci?


I repubblicani possono stare nella Federazione liberaldemocratica (non nell’Internazionale liberale, cui non appartengono) in quanto essa comprende partiti radicali e progressisti, che hanno avuto una storia simile ai repubblicani italiani e nulla in comune con le forze moderate o reazionarie, spesso assorbite nei variegati fronti liberali. Aggiunga che la parola “liberale” quasi non esiste nella geografia politica francese. Il partito di Giscard si chiama “repubblicano”. Ma se occorre distinguere fra liberalismo classico (con forti connotazioni liberiste) e democrazia riformatrice di ispirazione rooseveltiana, non bisogna confondere quest’ultima con una pretesa area liberal-socialista. Come non esiste un polo unitario laico-socialista, così non esiste, in Italia, un’area liberal-socialista: a parte gli studi storici, ripresi talvolta con ammiccamenti strumentalizzanti, sul nobile e generoso tentativo “socialista-liberale” di Carlo Rosselli (che era già profondamente diverso dal “liberal-socialismo” di Guido Calogero).



Nello e Carlo Rosselli


A proposito di Rosselli. Lei ha spesso sostenuto che la componente mazziniana e repubblicana ha influito in modo decisivo sull’esperienza di Carlo e Nello Rosselli. Lo stesso tentativo del partito d’azione parte da filoni tipicamente repubblicani; costituisce un momento non secondario di una storia, complessa e molteplice, che oggi si identifica con quella del PRI. Quello che lei dice sembra quasi la prefigurazione del polo laico-socialista. Perché dunque non ha mai accettato l’uso corrente di questa formula?


Cerchiamo di essere storicamente precisi e politicamente conseguenti. Nella storia dell’Italia moderna esistono due aree fondamentali, che dominano la fascia del pensiero laico: l’area socialista e l’area democratico-laica, con prevalente connotazione riformatrice da Giovanni Amendola a Ugo La Malfa. Il PRI si considera naturale punto di aggregazione e di riferimento di questa seconda area. In essa di agitano istanze liberali, ma vissute in chiave progressista, sia nella concezione di un’economia programmata (del tutto diversa dal vecchio liberalismo identificato einaudianamente col liberismo) sia nella stessa visione di uno Stato articolato, decentrato, del tutto diverso dallo schema dello Stato monarchico-liberale.


Ma una coalizione laico-socialista non le sembra auspicabile?


Una simile coalizione, almeno come formula di governo, non mi sembra a portata di mano. È lo spazio laico e socialista che deve essere costantemente allargato; ma si tratta di questioni distinte.



Eppure lei sa che molti autorevoli uomini di cultura negano che esista davvero, oggi, una sostanziale differenza fra il socialismo democratico e una democrazia laica di ispirazione riformatrice. Personalmente non sono di questo parere, e basterebbe l’esempio del partito democratico-liberale tedesco, che ha collaborato a lungo con la socialdemocrazia, ma non si è mai identificato con essa. Lei che cosa risponde a questi sostenitori di una stretta somiglianza fra socialisti e democratici laici?


Rispondo con il titolo di un libro di Nello Rosselli, Mazzini e Bakunin. Sono 120 anni che movimento socialista e movimento repubblicano si affiancano. Sono come due fiumi che si accompagnano, si sovrappongono, si intrecciano, ma restano sempre distinti. Guardi la UIL, che per tanta parte, alla sua origine, fu repubblicana e libertaria, più che socialista: vedrà come sia netto il confine fra la componente repubblicana e quella socialista. Non c’è dubbio che i partiti più “partiti” in Italia (cioè più gelosi della propria identità) sono due, il socialista e il repubblicano. I loro rispettivi elettorati, nelle zone di addensamento popolare, sono fedelissimi. La Romagna, ad esempio, ha visto per 30-35 anni una concorrenza asperrima fra PRI e PSI nella lotta per la conquista del controllo del bracciantato, delle aree sociali povere: perché il PRI, in Romagna, è un partito di coltivatori diretti, di contadini, di artigiani.



Ugo La Malfa


Questo per il passato. Ma oggi?


È giusto porsi il problema di un partito moderno, dove il connotato di classe si svuoti e si arrivi a nuove forme di tipologia sociale. Ebbene, per l’elettore medio italiano, l’identità repubblicana è quella del programma riformatore di La Malfa, un programma di democrazia rooseveltiana progressista. L’identità socialista è quella di un programma riformista nell’area di un socialismo umanitario moderno. Sono due cose ancora profondamente diverse. E aggiungo qualcosa di più: nessuna ascesa elettorale repubblicana danneggia i socialisti, nessuna ascesa socialista danneggia i repubblicani.


Va bene questa distinzione fra l’identità storico-politica della democrazia laica e quella del socialismo riformista. Ma non c’è, talvolta, come qualcuno ha scritto, una specie di avversione “caratteriale” dei repubblicani verso i socialisti?


Come ho già detto, ci sono, e in entrambi i partiti, zone di incomprensione storica. Direi che qualche volta il PSI ha dato una certa impressione di insofferenza per il ruolo di “partito cerniera” che il PRI ha esercitato in talune fasi, come punto di raccordo fra i grandi spartiacque della politica italiana. Ma non si è trattato mai di posizioni inconciliabili; e se l’accusa di avversione “caratteriale” è rivolta all’attuale gruppo dirigente repubblicano, nulla di più infondato. Negli ultimi sette anni lo sforzo costante del PRI e del suo segretario è stato quello di stabilire e intensificare un dialogo col PSI. È un dialogo sui contenuti di una sinistra moderna, non velleitaria, non populista, non demagogica e non pressapochista.


Si riferisce alla politica dei redditi?


È un approccio a quella direzione. È stato il PRI a promuovere il ritorno dei socialisti al governo nel secondo ministero Cossiga, dopo la fase, ormai da tempo esaurita, degli equilibri “più avanzati”. È stato il PRI a guidare la prima alternanza laica alla guida del governo nel giugno 1981; con quella coalizione di pentapartito, allora per la prima volta creata, in cui si è inserito successivamente l’esperimento di Craxi. È stato il PRI a offrire, anche in condizioni di grande difficoltà e disagio, in mezzo a crisi laceranti di politica interna e internazionale, il proprio leale appoggio al governo pentapartito a direzione socialista, in funzione di garanzia programmatica e proprio per verificare in concreto quel rapporto storico, complesso e difficile, che da centoventi anni regola le relazioni fra PRI e PSI. Con le sue luci e le sue ombre.





D’accordo sulle luci. Quanto alle ombre, forse anche qui bisogna risalire a certe radici storiche, a certe occasioni mancate. Il problema del polo laico-socialista non è un’invenzione di nostri giorni.


Ma è stato proprio un socialista autorevole, Giuliano Amato, a fare qualche anno fa un intelligente richiamo all’equivoco che divise il partito d’azione e il PSI nell’immediato dopoguerra: equivoco che è all’origine di tanti degli sviluppi contraddittori e paradossali della vita italiana. Era il primo anniversario della morte di Ugo La Malfa. In quell’occasione Amato si riferì esplicitamente all’articolo Nuovi equilibri di La Malfa, apparso nei primi giorni del ’45 su “L’Italia libera” (allora diretto da Leo Valiani), articolo in cui il leader azionista più lontano dai socialisti sostenne la necessità di un’alleanza fra il partito d’azione, le forze democratiche e riformatrici di sinistra e il partito socialista. Si trattava, cioè, di fondare un blocco di centro-sinistra da contrapporre tanto alla ricostruzione del partito cattolico quanto al partito comunista. Fu il primo grande sogno terzaforzista della storia italiana: il partito d’azione come punto di coagulo e di incontro fra il socialismo e l’area laico-repubblicana.


Nessuno ci aveva pensato, prima di allora?


Per l’esattezza, quella proposta aveva un precedente. Ai tempi dell’emigrazione antifascista, s’era delineato un blocco socialista-repubblicano, sotto l’impulso generoso di Carlo Rosselli. Ma il tentativo non ebbe fortuna, e venne presto smentito sia dalla direzione socialista sia da quella repubblicana in esilio.



Ugo La Malfa e Pietro Nenni


Forse i tempi non erano maturi…


Non lo erano neppure nel ’45. E difatti, anche la risposta di Pietro Nenni alla proposta di La Malfa fu negativa. Da allora la via del PSI si differenziò dalla via delle forze laiche e democratiche di centro-sinistra. Il PSI si andò sempre più spostando verso il PCI, e questo determinò la frattura dell’azionismo. Un anno dopo, nel febbraio del ’46, si verificava la spaccatura, in quell’eroico partito, fra l’ala non socialista (con La Malfa, Guido De Ruggiero, Luigi Salvatorelli), e l’ala filo-socialista (il cui esponente più significativo era Emilio Lussu).


Quando avverrà il reincontro fra PSI e PRI?


Avverrà nella seconda metà degli anni cinquanta, e fu decisivo ai fini della nascita del centro-sinistra. Da una parte il congresso socialista di Venezia del ’57, dov’è il generoso impegno ma anche la sconfitta tattica di Nenni; dall’altra il complesso dei convegni organizzati dagli “amici del Mondo”, dov’è decisiva l’impronta di La Malfa.


La Malfa, mi pare, fu determinante nella svolta del centro-sinistra, fu l’uomo politico che più generosamente si batté per l’apertura ai socialisti, anche a costo di trovarsi schierato contro mezzo partito, di dover pagare il prezzo di una dolorosa scissione, quella di Pacciardi e dei suoi amici. Ma poi subentrò la delusione, e non fu soltanto per colpa delle ambiguità democristiane. Che cosa veramente accadde durante l’esperienza di centro-sinistra?


La Malfa – lei lo ha ricordato – fu l’uomo del colloquio con i socialisti (lo dimostrano, fra l’altro, i Diari di Nenni). E fu l’uomo che ebbe più peso nell’ideare e volere la presidenza di Giuseppe Saragat, nel ’64, che egli vide come il suggello del centro-sinistra e della unificazione socialista. Il centro-sinistra, invece, ebbe una vita abbastanza breve: incontrò grossi ostacoli, in parte paralizzanti, dovette sfidare, e superare, momenti quasi di emergenza istituzionale.



Aldo Moro e Giovanni Spadolini


Quale fu il suo momento migliore?


Quello dei governi presieduti da Aldo Moro, fra il ’64 e il ’68; una stagione, comunque, che deluse fortemente sia La Malfa sia Nenni. La delusione nacque, in parte notevole, dalla divisione interna del PSI. La scissione del PSIUP colpì Nenni in modo particolare, e di quel trauma le sue memorie conservano numerose tracce.


La delusione del centro-sinistra produsse una svolta nella linea politica repubblicana. Vorrei che lei chiarisse questo punto che mi sembra particolarmente importante, perché ha inaugurato, in qualche misura, una nuova fase della politica italiana.


Cominciò allora la politica cosiddetta della “coscienza critica”, il distacco del PRI dal governo, pur restando nella maggioranza. Non dimentichiamo che La Malfa non fu mai ministro nei governi Moro, a differenza di quanto era avvenuto nel governo del ’62 presieduto da Amintore Fanfani, quando aveva accettato il ministero del Bilancio. Quando si costituì il centro-sinistra vero e proprio, La Malfa preferì la segreteria del partito e mandò al governo Oronzo Reale. Rientrò soltanto come ministro del Tesoro nel governo Rumor. Era restato fuori dieci anni, dal ’63 al ’73. Sono anni di polemica fra il PRI, forte del suo modello di una società industriale basata sulla programmazione e la politica dei redditi, e la politica scialacquatrice e un po’ dissipatrice di un centro-sinistra stanco, che aveva perduto la guida demiurgica di Moro.


Lei vuol dire che con l’uscita di Moro il centro-sinistra perdette ogni coerenza programmatica e venne meno ai suoi presupposti?


Fino all’uscita dal governo di Moro, il centro-sinistra era stato molto moderato, per alcuni (e anche per La Malfa) troppo. Aveva seguito, comunque, una linea di politica economica contrapposta ostentatamente al passato, e quindi non priva di una certa coerenza. È nel periodo successivo che assisteremo all’alternarsi di gesti demagogici e di gesti conservatori. Una miscela da cui il centro-sinistra esce distrutto.


È un giudizio severo, il suo. Eppure lei, anche come storico, ha sempre difeso il valore del centro-sinistra…


Ho difeso sempre il centro-sinistra del periodo Moro-Nenni, che giudico il periodo in cui più forte fu il senso dello Stato e più forte la capacità di commisurare le scelte politiche ai limiti obiettivi del paese. Ciò che spezzò la diplomazia morotea fu la contestazione, che infranse tutto e costrinse il PSI a tenerne in qualche modo conto. E dalla contestazione nacquero tante cose…


Non ci fu, in seguito, una maggiore attenzione dei repubblicani versi i comunisti piuttosto che verso i socialisti? Non avvenne, anche su questo punto, una saldatura fra Moro e La Malfa, durante l’esperienza del governo bipartito ’74-76?


Bisogna intendersi. Il bicolore Moro-La Malfa tenne in notevole conto la posizione socialista. Bastò un articolo pubblicato sull’ “Avanti!” per indurre Moro alle dimissioni. Fu quella la fase in cui il centro-sinistra si consumò. A usare per primo la parola “emergenza” fu lo stesso Nenni, il quale la diffuse e la lanciò nel 1974, sull’onda dell’esperienza del referendum sul divorzio. La lotta comune a favore del divorzio aveva creato una maggiore unità fra socialisti e repubblicani – non dimentichiamo la straordinaria manifestazione di Piazza del Popolo con Nenni, Malagodi, Saragat, La Malfa, Parri e senza in comunisti – e un buon rapporto fra i due partiti. Ma certo le oscillazioni e i paradossi degli “equilibri più avanzati” furono fatali per il governo Moro, e danneggiarono anche i rapporti PSI-PRI. Del resto sembrava tornata in auge la formula di Enrico Ferri: “rivoluzione più riforme diviso due”. Con quel che segue.


A quando risale, allora, il distacco del PSI dalla fase di emergenza?


Risale alla polemica sulla cosiddetta “terza fase” della democrazia italiana. Moro, nel discorso alla Fiera del Levante di Bari nel settembre ’75, dette l’impressione di guardare ai comunisti con qualche maggiore attenzione che ai socialisti. C’era stato, qualche mese prima, il balzo elettorale comunista nelle elezioni amministrative, un successo che era la diretta conseguenza del referendum, da cui il PCI aveva ottenuto un diritto di cittadinanza presso i ceti moderati. Ed è quel balzo a determinare l’attenzione di Moro verso i comunisti. Su questo giudizio Moro e La Malfa si riavvicinano. La Malfa, ormai scettico sulle esperienze di centro-sinistra, riteneva che il PSI fosse entrato in una fase di stanchezza, e questa valutazione non fu cambiata nel ’76 dalla vicenda “Midas”, dove pure Craxi, alleatosi con la sinistra lombardiana, riuscì a rompere i vecchi equilibri e a ridare dinamismo al partito.


In altre parole, La Malfa non riteneva che il PSI potesse darsi una cultura politica ed economica adeguata ai problemi di una società industriale complessa, per di più afflitta da persistenti squilibri come quella italiana. Non è così?


Sì: era proprio questa la valutazione di La Malfa. Ed egli non ebbe neanche il tempo di rivedere il suo giudizio, essendo morto nel marzo del ’79, quando quel processo era appena entrato in fase di sviluppo.


Intende dire il processo di “modernizzazione” culturale del PSI, il suo tentativo di uscire da una certa mitologia populista e massimalista, la sua tendenziale trasformazione in un partito socialriformista di stampo europeo? Vorrei farle notare che non tutti i repubblicani, anche oggi, ne sono pienamente convinti.


Certo, ci sono zone di critica ai socialisti nel PRI, come ce ne sono di critica ai repubblicani nel PSI. Si tratta di zone che ci sono sempre state e sempre ci saranno. La cultura politica dei due partiti resta diversa, nonostante l’evoluzione o i mutamenti del socialismo.


Può fare qualche esempio?


Soprattutto direi nel campo della politica economica e in quello che concerne in grandi problemi dello Stato. Il senso dello Stato, della sua autonomia e della sua imparzialità, è ancora molto più forte nei repubblicani che nei socialisti. E i repubblicani avvertono meglio anche le compatibilità e le incompatibilità di una società industriale matura, pienamente inserita nel sistema economico occidentale (si pensi al nucleare). Nel campo delle nomine pubbliche, e dei rapporti fra partiti e Stato, le differenze superano di certo le convergenze. Ma non bisogna, comunque, negare la sostanziale rottura operata da Craxi rispetto a una certa tradizione socialista.


Mi pare che vada apprezzata anche la sua riscoperta dei valori patriottici e risorgimentali…


Sì, c’è in Craxi una forte influenza di Nenni. Anche il culto di Garibaldi gli deriva da quel filone risorgimentale verso cui così forte era l’attenzione nenniana. Sotto questo profilo l’esperienza repubblicana di Nenni ha avuto un peso nel modo in cui Craxi giudica uomini e cose della storia italiana. Sicuramente egli non sarebbe arrivato a formulare l’idea di un “socialismo tricolore” se non provenisse da quelle ascendenze risorgimentali.



Bettino Craxi e Giovanni Spadolini


Ma storicamente ci sono punti di convergenza fra PSI e PRI sulle questioni istituzionali?


Sia i repubblicani sia il partito d’azione ebbero sul problema dell’esecutivo, quello che sta più a cuore a Craxi, una linea molto audace in seno alla Costituente. I partiti che più si batterono per rafforzare i poteri del capo del governo furono il partito d’azione e il partito repubblicano; assai più della sinistra socialista, dominata dai complessi di un “bloccardismo” antifascista che precludeva questa strada. E ci fu addirittura, nel partito d’azione, una corrente presidenzialista, rappresentata da Piero Calamandrei e Leo Valiani. Se da un lato c’è nel PRI una forte diffidenza per tutto ciò che possa essere riforma da laboratorio, dall’altro c’è una grande apertura verso queste tematiche. E credo di averlo dimostrato, essendo io l’autore di quei dieci punti che hanno consentito di risolvere la crisi, sia pure per poco, nell’agosto ’82, e di individuare i possibili rimedi istituzionali. Il che dimostra come forse un po’ di quella strada che ci divideva, alcuni anni fa, anche in virtù di due complesse esperienze di governo, la mia e quella di Craxi, sia oggi, e di tanto, ridotta.


Comunque mi sembra evidente che lei rifiuta ogni identificazione politica fra i due partiti, ogni ipotesi di polo laico-socialista in antitesi ai due grandi partiti di massa. Fra PRI e PSI i punti d’incontro possono essere tanti, ma il ruolo politico e la collocazione sociale restano ben distanti. Non è così?


È un tema sul quale ho discusso tante volte, anche privatamente, con Craxi. Ho creduto e credo all’esistenza di un’area laica e socialista, che passa attraverso un polo di democrazia laica non socialista, quello facente capo al PRI, e attraverso un polo di democrazia socialista, che fa capo al PSI. Il buon rapporto fra me e Craxi (che esiste, nonostante certi contrasti e certe maliziose interpretazioni) è nato, in fondo, su una base di distinzione collaborativa: sapendo Craxi che io non intendevo entrare, alla Lussu, nella sfera mitica di un terzo socialismo in cui non c’è spazio, e scontando io che Craxi non desiderava intervenire nella sfera di una democrazia liberal, in senso anglosassone, non legata a schemi socialisti. E non dico marxisti, perché il PSI può rispondermi che ha superato l’ortodossia marxista.
Questo rapporto competitivo e di collaborazione fra le due aree va mantenuto vivo. Posso dire, con un certo legittimo orgoglio, che il governo a guida laico-repubblicana fu quello che consentì a tutta l’area laica di crescere. Pensi che nei tests amministrativi di allora tutti i laici crescevano più dei repubblicani.


Quindi lei si sente di escludere che PRI e PSI siano divisi da ragioni prevalenti di concorrenza elettorale.


La concorrenza elettorale non c’entra. Gli ultimi anni l’hanno dimostrato: repubblicani e socialisti, al pari degli altri laici, guadagnano insieme o calano insieme. Evidentemente, essi “pescano” in aree elettorali diverse o contigue, comunque non assimilabili. Parlano a sezioni distinte e autonome della vita italiana, raccolgono istanze differenziate, interpretano bisogni molteplici, corrispondenti a una società che si è fatta più adulta. Quando dico che l’articolazione in più partiti è un elemento di forza per l’area cosiddetta laica, e non di debolezza, intendo proprio questo: marciare divisi per colpire uniti.


Quindi niente superpartito laico?


L’ipotetico “superpartito laico”, di cui si continua a favoleggiare (magari con l’ausilio di marchingegni di riforma elettorale) finirebbe per risultare un regalo ai grandi partiti. Significherebbe rinuncia a quelle feconde “diversità” che hanno consentito di contendere, con alterna fortuna, zone elettorali alla DC da una parte, al PCI dall’altra. Salvaguardando uno spazio centrale della democrazia italiana dove convivono istanze che sicuramente non possono essere assimilate alle correnti di uno stesso partito. Meglio, molto meglio una diversità conclamata e ragionata che aggregazioni artificiose, fittizie o pasticciate.


D’accordo. Ma non ritiene che almeno qualche forma di maggiore sincronismo si imponga, almeno nella difesa di uno spazio di terza o di quarta forza rispetto alla pretese del bipolarismo?


Certamente. Possiamo e dobbiamo individuare forme di convergenza operativa, nella salvaguardia di uno spazio politico intermedio che conservi una sua dignità politica e culturale, e dunque non può essere abbandonato alla morsa soffocante del bipolarismo. Anche la difesa di un certo equilibrio fra laici e cattolici presuppone un minimo di intesa PRI-PSI. A condizione che valga sempre, fra i due partiti, la regola del “rispetto reciproco”.


Cosa intende per “rispetto reciproco”?


Non certo, o non soltanto, le regole del galateo. Intendo la coscienza di interpretare filoni diversi, non assimilabili, della storia italiana. Intendo la capacità di distinguere i motivi contingenti di conflitto, anche di scontro, dalle ragioni durevoli d’intesa che non si esauriscono nelle polemiche del giorno per giorno. Non è un paradosso: fra repubblicani e socialisti ci si rispetta di più, quanto più si discute, e magari ci si divide. L’intesa fra PRI e PSI è stata sempre un traguardo, mai un punto di partenza. Va conquistata e riconquistata ogni giorno; anche a prezzo di polemiche aspre, di turbamenti profondi nell’animo dei due partiti. Mi crede se le dico che senza la crisi su Abbas dell’ottobre ’85, e il conseguente chiarimento in politica estera, oggi i due partiti sarebbero più lontani? Le bandiere, specie se gloriose, non si ammainano. Almeno fino a quando esse interpretano realtà vive e vitali. Il PRI sa di interpretarle.


E cosa risponderete alla proposta formale, finalmente avanzata, di repubblica presidenziale?


Noi non demonizziamo lo schema della repubblica presidenziale. Abbiamo in casa fautori di quel modello, come Pacciardi. Ma siamo assolutamente contrari al mix, a una specie di cocktail fra repubblica presidenziale e repubblica parlamentare. Eleggere il capo dello Stato da parte del popolo e poi lasciare l’esecutivo nelle mani del Parlamento.

Sarebbe l’inizio di una contrapposizione costante, e paralizzante, fra Quirinale e palazzo Chigi: un po’ la variante domestica della cohabitation fra Mitterrand e Chirac. Una prospettiva non asupicabile!

La repubblica presidenziale obbedisce a una sua logica, presuppone il capo dello Stato capo dell’esecutivo, in un sistema di equilibri col potere legislativo e col potere giudiziario fermissimi: lo dimostra il sistema di contrappesi americano prima nel “Watergate”, e oggi – sia pure in modi diversi – nell’ “Irangate”.
Personalmente ritengo che si debba puntare a rafforzare l’istituzione governo, che si debba puntare a un esecutivo più stabile attraverso la limitazione del potere dei partiti, attraverso il blocco della loro occupazione della società. Sarà il tema centrale della prossima meditazione repubblicana, negli anni che verranno.




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