Da G. Spadolini, “Intervista sulla democrazia laica”, a cura di Paolo Bonetti, Laterza, Roma-Bari 1987.



Un uomo che proveniva dalla direzione di grandi giornali, che aveva vinto la battaglia come senatore indipendente a Milano, che si era tenuto sempre in una certa posizione super partes anche nelle questioni referendarie, che aveva accentuato piuttosto i dati di convergenza che quelli di rottura nei primi sei-sette mesi di lotta politica. Come si spiega che lei abbia poi accettato, nel settembre ’79, la segretaria del partito, cioè un atto in qualche modo di rottura, di impegno radicale senza riserve, in qualche misura perfino contraddittorio rispetto allo stile di parlamentare in cui si era identificato?

È una storia lunga e complessa. La Malfa una sola volta, nel 1973, cioè poco più di un anno dopo il mio ingresso in Senato e appena sei mesi dopo il mio ingresso nel partito, mi prospettò l’ipotesi della successione alla segreteria. Egli era ancora segretario. Il bicolore non era alle porte. Il tempo del passaggio delle consegne a Biasini, che coincise col congresso di Genova del ’75, non era in quel momento prevedibile né tanto meno scontato.
Quella specie di destinazione a una funzione di successione mi rimase sempre scolpita. Ma fu un tema sul quale, nei tempi successivi, non ritornò.




Ugo La Malfa e Aldo Moro


Infatti lei prese presto la via del governo.


La Malfa mi destinò a compiti di governo fin dai tempi del bicolore. E coprendosi abilmente dietro la tecnica integralmente “istituzionale” che allora adottò. Disse a Moro: “scegli tu i ministri nei gruppi parlamentari repubblicani. Così realizzerai l’articolo 92. Tu sai benissimo di chi hai bisogno e sai benissimo chi valutare”. Poi Moro e La Malfa si appartarono rispetto alla delegazione che comprendeva anche l’amico Reale. Ebbi sempre l’impressione che quella scelta di nomi fosse preventivamente concordata con La Malfa. Rientrando Moro mise fra i nomi il mio in un ruolo di coordinatore dei ministeri culturali, perfino più ampio di quello che poi esercitai. In un primo tempo Moro aveva pensato di darmi anche lo Spettacolo, di fondere cioè insieme il ministero dei Beni Culturali e il ministero dello Spettacolo. Io preferii avere in cambio la certezza di fare un ministero, con portafoglio, della cultura. E così arrivammo a quello straordinario decreto-legge istitutivo di un ministero che continua a meravigliare sempre anche uomini super-esperti della vita parlamentare come Andreotti.
E così La Malfa mi volle ministro della Pubblica Istruzione nel governo Andreotti del marzo 1979, quello in cui fu vicepresidente per cinque giorni. La Malfa non avvertiva mai gli uomini cui destinava questi compiti. Le sue scelte le faceva in segreto: le comunicava a cosa fatte. Mi ricordo che a palazzo Chigi gli dissi: “ti ringrazio”. “Ma di che cosa? E potevi forse dubitarne?” mi rispose.




La Malfa, Biasini e Spadolini


Ugo La Malfa scomparve il 26 marzo del ’79. E le elezioni erano alle porte.

La morte di La Malfa sul campo, così improvvisa e così dolorosa, privò il partito repubblicano della sua guida. In certo modo l’aver salvato il 3 per cento nel giugno ’79 fu un miracolo: dovuto non solo alla buona gestione di Biasini, ma anche all’eco della scomparsa di La Malfa che aveva ingrandito le proporzioni del partito agli occhi degli italiani. Le divisioni interne erano tali che da molte parti si richiedeva una nuova segreteria contro chi si batteva per rafforzare la vecchia. Io non solo fui estraneo a ogni contesa ma mi tenni fuori da ogni gara. Fu Visentini a propormi, fin da luglio, dopo una consultazione all’interno della direzione, di candidarmi alla segreteria del partito. Io chiesi due mesi di tempo e non mancai di contraccambiare quell’offerta, domandando a Visentini di proporre il suo nome per la presidenza del partito. Egli fu altrettanto incerto nell’accettare la mia proposta quanto lo fui io, per parecchie settimane, nell’accettare la sua.
Mi rendevo conto di quanto il compito fosse difficile. Avevo solo sei anni di partito, La Malfa ci aveva messo venti anni per arrivare alla segreteria: l’essere stato azionista aveva rappresentato un vantaggio in un senso ma anche un danno in un altro. Sentivo tutti i rischi di una concorrenza spietata nel campo laico: concorrenza che in quel momento tendeva ad emarginare il partito repubblicano. Quante volte eravamo raffigurati come orfani di un padre che non sarebbe mai rinato, un partito votato allo sbando e alla sparizione. Un partito identificato col prestigio carismatico del suo leader.

In quelle condizioni accettare non era facile.

No: era molto difficile. Non ero un uomo di apparati. Non venivo dagli apparati. Non conoscevo il sistema delle tessere. Avevo vinto come indipendente e avevo sempre identificato la mia battaglia a Milano, anche nelle difficoltà della convivenza con i più vecchi del partito, con una certa concezione della lotta politica che potrei chiamare pre-fascista, che gli avversari o gli amici chiamavano “giolittiana”.
Il PRI è una macchina molto più complessa di quanto sembri. È il partito più partito che esista. È piccolo ma venato da tanti apporti, da tanti solchi, da tante distinzioni di anima. Comprende i mazziniani intransigenti, una riserva spirituale, quel “ruscello” di religiosità “vera” di cui parlava Jemolo. Comprende i ceti nuovi emergenti del Nord, i tecnici, i professionisti di un certo tipo. Comprende i seguaci di un certo sogno “azionista” volto a creare un partito della democrazia in Italia. Comprende settori popolari con una base storica radicata in Romagna, in Toscana, nel Lazio e nelle Marche, in Sicilia: settori che impressionavano Togliatti ogni volta che gli riferivano di un’assemblea repubblicana. È un partito che ha un culto profondo dell’opposizione. Che è sempre non conformista, che è spesso bastian contrario, che vive in qualche modo in antesi ai maggiori partiti. E che non ha abbandonato una sua certa logica cospiratoria, clandestina, quella che io amo chiamare, scherzando, “catacombale”. Assumerne la segreteria, dopo esperienza decisive come quella di La Malfa e dopo esperienze intimamente intrecciate all’azione del partito come quella di Biasini, non era assolutamente un’impresa facile. Confesso che stetti anche male, fisicamente, in quel periodo.




Spadolini e Visentini



Lei era ancora il ministro dell’Istruzione. Come avvenne il passaggio alla segreteria del PRI?


Il ministero dell’Istruzione, dove avevo lavorato con molto impegno in mesi infuocati (e pieni di minacce), aveva lasciato in me il desiderio di continuare quell’opera. Eppure nella famosa direzione in cui si verificò una spaccatura nel partito ai primi di agosto, votai contro la partecipazione al governo. Forse fu il gesto che colpì molti repubblicani e li spinse a rivolgersi in modo unanime su di me. Quando Visentini – per ciò che rappresentava nella tradizione del partito – accettò la mia ipotesi di una sua presidenza, solo allora io sciolsi la riserva sulla segreteria. Si trattava di innestare dei momenti, non di contrapporli. Io ho sempre fatto il segretario di tutti i repubblicani, non ho mai accettato distinzioni, divaricazioni e neanche contrapposizioni. E so quanto questa impresa mi sia costata.
È più difficile, forse, fare il segretario di un partito come il PRI che il direttore di grandi giornali. Ma l’essere stato direttore di grandi giornali, come il “Corriere”, abitua alle sofferenze e alle fatiche della guida dei partiti.




Giuramento I Governo Spadolini - Giugno 1981


Il primo governo da lei presieduto inaugurò nel giugno 1981 la fase della alternanza laica a palazzo Chigi, non ancora conclusa. L’unico precedente nell’epoca post-fascista risaliva addirittura all’esperienza di Parri, prima ancora della Repubblica. Lei avvertì che si stava compiendo una svolta? Quando lei varcò la soglia di palazzo Chigi era il tempo delle emergenza. Ma emergenza significa, a mio parere, situazione in cui esiste un forte dislivello fra le attese dell’opinione pubblica e le risposte del sistema. Lei è convinto di aver dato, quando ricopriva l’incarico di capo del governo, risposte soddisfacenti a questa ansia di rinnovamento? Sentì il peso della responsabilità che gravava in quei diciotto mesi sul partito di Ugo La Malfa?

Io provai, intera, la sensazione della novità che si consumava col gesto di Sandro Pertini, cioè col chiamare un laico alla presidenza del Consiglio. Quella stessa strada che il presidente della Repubblica aveva imboccato nel febbraio 1979, ma con un uomo che apparteneva ai padri della Repubblica: Ugo La Malfa. Con me il gesto era infinitamente più coraggioso e anche più significativo. Io era segretario di un partito, ero cioè impegnato in una battaglia che già si era espressa nelle elezioni regionali e amministrative dell’80 (dove il partito era riuscito quasi miracolosamente a salvarsi, grazie anche all’operazione di rientro al governo fatta insieme coi socialisti nel secondo tripartito Cossiga, fra marzo e aprile 1980). I repubblicani avevano superato quel senso di soffocamento che li caratterizzava quando io avevo assunto nel settembre del ’79 la segreteria (allora erano al governo gli storici concorrenti dell’area laica, liberali e socialdemocratici, e i repubblicani erano fuori in atteggiamento di gran dispitto: atteggiamento che sembrò all’inizio negativo e invece fu essenziale per ristabilire il rapporto fondamentale coi socialisti attraverso la comune linea dell’astensione). Pertini stesso, dall’uomo politico di grande fiuto che è, colse intero il valore della mossa che si apprestava a compiere. Non mi preavvertì della convocazione: lo appresi da una telefonata di Maccanico più o meno coincidente con la televisione. Ricordo solo che il 31 maggio, intervenendo, il capo dello Stato, alla presentazione a Firenze di un libro di Andrea Devoto sull’oppressione nazista, e intrattenendomi io con Pertini e con la signora a “Mamma Gina”, egli mi disse: “avrò presto bisogno di te”. Fu il solo annuncio di una possibile indicazione o preferenza del Capo dello Stato.

Una scelta, quella di Pertini, che attribuiva uno spazio e un ruolo senza precedenti a un partito di dimensioni assai ridotte.

Avevamo meno del 3 per cento dei voti, ma il congresso di Roma – che si era concluso da due settimane – aveva fissato il nostro ruolo di essenziale cerniera fra democristiani e socialisti. Pertini apprezzava la mia linea di riavvicinamento al partito socialista. Criticava per taluni aspetti Craxi, ma era rimasto ed era socialista nel cuore. Un repubblicano che avesse fatto pace coi socialisti appariva in lui come portatore di un’istanza essenziale. Andammo poi a Savona insieme per i 150 anni della “Giovine Italia”. E lui, savonese, non poteva dimenticare che la rivista del suo Turati, la “Critica sociale”, era nata come rivista repubblicana, “Cuore e Critica” nel periodo di Arcangelo Ghisleri.
Pertini aveva capito così bene il valore i quella svolta che quando mi ricevette la mattina del 10 giugno mi disse con allusione ammiccante e complice: “ho avuto il nulla osta da Forlani”. Egli aveva fatto in modo che la nota volontà di non impegnarsi del presidente uscente coincidesse anche con una specie di avallo dato, direttamente o indirettamente, alla mia candidatura. Tanto è vero che quando incontrai il gruppo parlamentare democristiano, all’inizio ostile e diffidente verso di me, dissi en passant: “Forlani ha espresso il gradimento al mio nome”. Al che il presidente dei deputati, Gerardo Bianco, interruppe: “ma questo è un fatto nuovo, se è vero bisogna sospendere questa riunione e accertarlo”. E molta parte dell’atteggiamento diffidente della DC verso di me cambiò dopo quella rivelazione (portai un solo ministro repubblicano, Giorgio La Malfa; Compagna fu ben più di un sottosegretario alla presidenza, nel senso funzionale).
Dal punto di vista della cortesia personale non posso che esprimere una parola di ringraziamento al segretario della DC di quel tempo, Flaminio Piccoli, per il modo sempre rispettoso con cui trattò il presidente del Consiglio laico. Certo: avvertii il grande dislivello fra le attese dell’opinione pubblica e le risposte del sistema politico. E perciò mi irrigidii in un’interpretazione, in qualche modo, “istituzionale” del mio compito. Lei ricorda il passaggio fra Senato e Camera nel luglio ’81? Rischiai di saltare prima ancora di aver avuto la fiducia da entrambi i rami del Parlamento. La socialdemocrazia di Longo mi sollevò una formale obiezione, pensò per un momento a revocare la fiducia.
Voglio rileggerle le frasi che pronunciai in Parlamento in quel momento. Forse quella risposta riassume il filo dei miei governi. “Io rivendico tutta l’autonomia istituzionale del governo, cioè del presidente del Consiglio dei ministri, nella formulazione finale delle proposte da presentare a questo Parlamento […]. Nelle mie dichiarazioni programmatiche ho esaltato il ruolo dei segretari dei partiti, nello spirito dell’art. 49 della Costituzione, cioè nella fase specifica della pre-formazione del governo. Ma l’elaborazione della piattaforma programmatica non può ridurre il governo a pura stanza di registrazione delle decisioni dei segretari dei partiti. Il governo della Repubblica è sostenuto dai partito convergenti e combattuto dai partiti avversari, ma non sarà mai un governo dei partiti e neppure delle delegazioni dei partiti.
“Quando si forma il governo – dissi allora con un tono che impressionò la Camera – si esce dall’art. 49 della Costituzione e si entra nell’art. 94, cioè in un’area istituzionale più vasta perché il governo della Repubblica deve governare anche per chi gli vota contro, anche per i senza partito, anche per gli extra-parlamentari, anche per chi ancora non vota e voterà domani”. E con queste frasi riscattai le prevenzioni di chi – come l’amico Eugenio Scalfari che lo racconta nel suo libro La sera andavamo in via Veneto – dubitava che la scelta di un governo istituzionale potesse essere affidata al segretario di un partito. In realtà io ero un segretario sui generis. E tale sono sempre rimasto.

Il sodalizio Pertini-Spadolini era visto dall’opinione pubblica un po’ come la rivolta dell’Italia dalle mani pulite contro i fenomeni di corruzione dilaganti nel Palazzo della politica. Non ritiene che fra le ragioni di quel successo fosse presente anche una certa vena antipartitica, presente nella cultura politica italiana?

Stavamo andando a Savona nel settembre 1981 tre mesi dopo la formazione del governo, in macchina col presidente Pertini. A un certo punto egli mi disse: “noi siamo ormai imbattibili perché l’opinione pubblica è con noi. I partiti non possono farti cadere”.
Il capo dello Stato ebbe netta la sensazione che un certo grado di popolarità che ci abbinava – nel suo caso immenso, nel mio parziale e timido all’inizio – ci preservasse dalle manovre della partitocrazia. Io ebbi un appoggio costante dal presidente della Repubblica. E ricordo sempre con orgoglio che egli respinse le mie dimissioni, a metà novembre del 1982, quando esplose la questione delle “comari”, cioè la polemica Andreatta-Formica e a me parve superato il livello di guardia. Pertini era pronto a firmare i decreti di revoca dei ministri “litigiosi”. Sapeva di interpretare l’opinione pubblica. Fui io che preferii rinunciare alla guida del governo perché da un lato non ritenevo pacifico nell’assetto costituzionale il principio della revoca dei ministri (e non volevo che si aprisse una polemica istituzionale tale da coinvolgere il capo dello Stato): e dall’altro sapevo, dopo quasi diciotto mesi di aspra mediazione, che sarebbe stato impossibile mediare fra partiti che avessi sfidato al livello dei loro vertici.
Preferii compiere un atto di ritiro motivato. E lo spiegai al Parlamento. Se tornassi indietro seguirei la stessa strada. Sono convinto che il raddoppio dei voti repubblicani nel giugno ’83 derivò da quel gesto più che da tutto.






Dopo la grande avanzata elettorale repubblicana del 26 giugno 1983, molti pensavano che palazzo Chigi sarebbe di nuovo toccato a lei. E, invece, la democrazia cristiana spinse Craxi oltre la soglia di quel palazzo. Molti sostengono che, da quel giorno, Spadolini si è sentito tradito dai suoi amici democristiani e che ha sviluppato verso la DC una forma di sottile rancore, anche politico. Altri, invece, affermano che il rancore spadoliniano è forte soprattutto nei confronti degli “usurpatori” socialisti. Ma che c’è di vero in queste storie di uno Spadolini vedovo inconsolabile della presidenza del Consiglio?

È una vera sciocchezza. Intanto io sono il solo presidente del Consiglio in tanti anni che si è dimesso per un’autonoma valutazione di una questione di principio istituzionale. E in quel momento De Mita e Craxi erano interessati a mantenermi in vita sia pure per qualche mese. E fecero il possibile e l’impossibile – soprattutto il primo – perché io non lasciassi il campo. E per un momento in settori del mondo democristiano si pensò anche a far coincidere le elezioni anticipate con la prorogatio del mio governo. Poi prevalsero altre tesi.
Dopo il 26 giugno ’83 mi resi perfettamente conto che il successo del mio partito, rafforzandone il ruolo, escludeva il mio ritorno alla presidenza del Consiglio. E mi posi il problema – senza avere in quel momento il partito unanime sulle mie posizioni – di strappare una forte garanzia programmatica e politica al governo Craxi, di cui avvertivo tutta la logica nel segno dell’alternanza. Capivo bene che dopo un presidente repubblicano toccava a un presidente socialista. Nell’alternanza del giugno ’81 c’era anche questo. E impegnai me stesso contro i miei interessi, diciamo così, elettoralistici nella partecipazione al governo in un ministero difficile, ma di grande significato soprattutto per la collocazione occidentale del paese.
Il PRI non ha mai temuto l’impopolarità. Altrimenti non avrebbe sommato Difesa e Finanze. Ma anche quella, nell’agosto ’83, fu una scelta, di cui assumo l’intera responsabilità.
Scelta morale, prima ancora che politica. In uno Stato in cui si tende a dimenticare tutto, anche le radici dello Stato.

Il suo incarico di ministro della Difesa è, probabilmente, ancora più difficile di quello di presidente del Consiglio, e certamente lo costringe a prendere decisioni che possono risultare assai impopolari. In particolare, come si sono modificati i suoi rapporti con i giovani, dal momento in cui la “questione militare” si è posta in termini anche umanamente tragici, e la leva popolare è stata duramente contestata da taluni settori dell’opinione pubblica?

Ci sono due grandi ministeri che coinvolgono grandi interessi popolari in Italia. E sono la Pubblica Istruzione e la Difesa. Ho tenuto il primo per pochi mesi. Sono alle soglie del quarto anno per il secondo. E nulla, come queste due esperienza ministeriali, mi ha consentito di approfondire il contatto coi giovani.
Le mie visite alle caserme – anche l’ultima notte del Natale ’86 – hanno sostituito gli incontri con le aule delle università che ho compiuto con tanta intensità nei mesi in cui sono stato ministro della Pubblica Istruzione e negli anni, molti anni, in cui sono stato presidente della Commissione Istruzione al Senato. Il mio contatto coi giovani è sempre stato immediato. Non è vero che la polemica, così spesso ingiusta, sul presunto militarismo dell’Italia o sulle spese militari abbia minimamente intaccato il mio contatto coi giovani. Al contrario. Direi di ritrovare nei soldati di leva, che pure lamentano le scarse o difficili motivazioni dell’attuale condizione, un riscontro altrettanto positivo di quello che trovai negli studenti degli anni ’78-’79, pure minacciati ed insidiati dagli autonomi.
La questione è un’altra. Oltre le caserme e le loro insufficienze, esiste un dramma dei giovani che è collegato alla disoccupazione crescente nel mondo giovanile, intellettuale e no. I giovani si staccano ogni giorno più dalle istituzioni. Sta esplodendo una “collera” giovanile che investe la scuola e le strutture scolastiche: ma non per i motivi del ’68.
Una democrazia che non ha il consenso dei giovani non ha con sé il futuro.

Il 10 febbraio 1986 le Brigate rosse hanno assassinato Lando Conti, ex sindaco di Firenze, per lei assai più di un compagno di fede politica. Un volantino dei terroristi, ritrovato dopo l’agguato, identificava in Conti il simbolo di una battaglia che ha avuto in Spadolini il suo principale interprete. Cosa ha rappresentato per lei la perdita di Conti?

Lando Conti era un mio grande amico. L’avevo voluto io sindaco di Firenze contro le sue resistenze e le sue incertezze. Era un punto di incontro, esemplare, fra la vecchia tradizione repubblicana e ancora più mazziniana, respirata in casa, e i ceti emergenti del paese. Imprenditore avveduto, uomo che sapeva cimentarsi nella vita economica pagando in proprio. E insieme fiorentino innamorato della sua città. Uno dei quadri migliori del partito, un uomo che avrebbe avuto responsabilità importanti nei futuri vertici del partito. La sua morte ha cambiato un po’ la mia vita. Provai un sentimento di sofferenza che non ho mai superato: l’avervi in qualche modo concorso. Egli pagò anche per me, anche per il PRI. Fu un delitto trasversale. Mi è rimasto sempre un senso di rimorso, che non ho saputo vincere.

Sono anni che si combatte il terrorismo come fuga dalla ragione, come risposta irrazionale e sanguinosa ai mali della convivenza da contrastare con le armi della politica e della tolleranza. Cosa significa oggi la minaccia del terrorismo per l’avvenire delle società libere e della stessa democrazia moderna?

Il mio governo si caratterizzò di fronte all’opinione pubblica interna e internazionale come il governo della lotta più dura e alla fine vittoriosa contro il terrorismo. È stata una battaglia difficile. Quando assunsi la guida dell’esecutivo i servizi di informazione erano a pezzi, devastati dall’influenza piduista. Si trattava di rinnovare quasi integralmente i vertici militari: il 21 luglio compii la più grande rotazione, il più vasto avvicendamento di vertici militari che la storia italiana avesse mai registrato, da Caporetto in avanti (anzi si disse che il solo paragone possibile era quello, certo non augurale, con Caporetto).
Rappresentavo un partito piccolo, un vaso che poteva sembrare un vaso di coccio in mezzo a vasi di vetro. Sostenevo quasi da solo, con l’appoggio di Pertini e di pochi altri, la battaglia contro la P2. Battaglia nella quale mi identificai con tutte le mie forze. Arrivando all’unanimità al Senato.
Anche la lotta contro la P2 fu un momento della lotta contro le devastazioni e le infiltrazioni terroristiche. E il caso ha voluto che la lotta contro il terrorismo caratterizzasse anche tutti i miei anni al ministero della Difesa. Sono stato al centro di molte minacce terroristiche, soprattutto dopo il caso Abu Abbas. E ancora negli ultimi tempi da Beirut e dall’Iran si sono levate minacce contro di me, le stesse cui si era spinto, nell’aprile 1986, in prima persona il colonnello Gheddafi. Queste minacce mi hanno rafforzato in una determinazione: quella di combattere fino in fondo questa battaglia.

Anche dopo le disavventure della Casa Bianca con gli iraniani?

L’errore americano delle forniture all’Iran non solo non mi ha fatto cambiare opinione, ma mi ha radicato in una posizione che considero di ordine morale prima ancora che politico. E come tale appartenente ai fatti di coscienza. Sui quali nulla può la “ragion di Stato”. Né degli Stati Uniti né di chicchessia.

Tuttavia alcuni settori della stampa insistono, con particolare accanimento, sull’immagine di uno Spadolini “americano”, e gli contrappongono, magari, l’immagine di un Craxi “patriottico”. Eppure il suo partito è il più risorgimentale di tutti. Come la mettiamo con questa accusa di filo-americanismo a tutti i costi?

Non esiste un partito americano in Italia. E in ogni caso quel partito non comprende, né con la C né con la K, il partito repubblicano, che è il partito dell’indipendenza e dell’unità nazionale. Respinsi quella etichetta, anche quando scelsi autonomamente la via del non compromesso col terrorismo ai tempi di Abbas. E se tornassi indietro ripeterei la stessa scelta. Il fatto che poi il vertice degli Stati Uniti abbia deviato da quella linea – del resto sostenuta con errori e improvvisazioni anche nell’ottobre 1985 – non solo mi rafforza nella mia convinzione ma illumina in modo definitivo tutti quanti sull’autonomia e sulla libertà di quella determinazione. Appunto perché siamo il partito più risorgimentale, abbiamo il senso della collocazione occidentale del paese e conserviamo intatta la libertà di critica e di censura verso l’Occidente, quando smarrisce il filo della sua storia.

Detto questo noi dobbiamo fare sempre i conti con gli Stati Uniti. Né sapremmo concepire il mondo moderno senza la grande lezione di civiltà, di serietà, di scienza, e di amore per l’Europa che ci ha dato in duecento anni la democrazia americana. Il rischio è piuttosto un altro: l’isolazionismo che soffia dal Pacifico e che potrebbe spingere gli americani a separarsi dall’Europa. Non meno del terzaforzismo europeo, con qualche venatura di nazionalismo e di nazional-populismo, che potrebbe tendere a staccarsi dal vincolo euro-atlantico. Lo dissi all’università di Berkeley nel novembre 1982: la vera rivoluzione è stata quella atlantica. Che ha assorbito insieme la rivoluzione francese e la rivoluzione americana. Creando un nuovo diritto umano: che è compito nostro perfezionare e adeguare a un mondo che cambia.
Ed ecco perché torno sul terrorismo. Esso contiene la sola carica eversiva capace di distruggere le conquiste di due secoli. Sono immersi i pericoli che esso provoca nell’ordine internazionale e per la pace nel mondo. Corruttore delle coscienza giovanili; lontano dalle esperienze rivoluzionarie di cui si è nutrito l’Occidente – né la Rivoluzione francese né il Risorgimento italiano giustificarono mai il terrorismo - ; incentivo certo a regimi repressivi di libertà. Il terrorismo è, come dice Aron il suicidio comune dell’umanità.

Come è nato il suo vincolo di amicizia, ricambiato, con il popolo di Israele?

Israele? È la città di Dio che si incontra con la città degli uomini. È la terza Roma di Mazzini che diventa terza Gerusalemme. È uno Stato laico su basi di rigore religioso e di assoluta identità con la questione morale. È il “Dio e popolo” trasferito nella storia di un popolo: quello che fu il sogno dell’Italia risorgimentale applicato altrove. Ed è anche il martirio di questo secolo. L’ombra del genocidio. Il rispetto più alto dei canoni di dignità umana.
Ciò rende imperdonabili gli errori dei governi di Israele – che non sono stati pochi in questi anni – e accentua l’obbligo che abbiamo tutti noi di difendere gli ebrei. Non a caso il mio intervento più significativo fu al Congresso mondiale ebraico, che è qualcosa di ben diverso dallo stesso Stato di Israele. È la comunità degli ebrei che si contrappone a un’interpretazione riduttiva o nazionalista di un fenomeno destinato a rappresentare sul piano universale, il rispetto dei valori di minoranza, dei valori di coscienza.
È quanto esattamente ho detto il 28 gennaio dell’86 a Gerusalemme al Congresso mondiale ebraico: “la mia presenza fra voi (non come uomo di governo ma in primo luogo come uomo di cultura e come uomo libero) vuole essere la testimonianza che l’intima coscienza dell’Europa condivide la vostra battaglia per l’affermazione dei princìpi di umanità, oltre le barriere ideologiche e di fede religiosa. Ed è in questo spirito che vi porto una parola fraterna di amicizia e di solidarietà. Nella consapevolezza che la causa comune che difendiamo è proprio causa di minoranza, con tutti i sacrifici che tale condizione comporta. Sempre, quando è in gioco la causa di Israele, si muove il partito di chi guarda alle cose del Medio Oriente come fatti di esclusiva Realpolitik. C’è sempre qualcuno, da qualche parte, che ripete: ‘Parigi val bene una messa’. Ma come ammonì il filosofo Benedetto Croce, nel Senato italiano, nel 1929, contro il fascismo: ‘Accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza’. E questo limite insuperabile di coscienza io l’ho avuto ben preciso quando mi sono trovato, in qualche momento del mio operare politico, di fronte a scelte a cui ho dato una risposta di natura morale prevalente su quella politica. Sono pronto a rifarlo in tutte le occasioni in cui fosse necessario. E credo di non essere solo”.

Qualche tempo fa Luciano Lama mi disse, con tono semiserio, che il partito repubblicano italiano è l’ultimo partito stalinista dell’Europa occidentale. È un’accusa che ogni tanto ritorna sulle labbra di amici od avversari. Probabilmente, per “stalinismo” del PRI intendono una eccessiva invadenza dei segretari di questo partito, una loro inarrestabile tendenza al protagonismo e all’autocrazia. Che cosa risponde?

Essere paragonato a La Malfa mi onora. Per quanto mi riguarda, la segreteria del PRI è per tanti aspetti l’operazione più complessa che io ho dovuto affrontare nella vita. Più difficile della presidenza del Consiglio, più difficile della direzione del “Corriere della Sera”. Altro che stalinismo! Si tratta di impegnare tutte le energie e tutte le capacità cui alludeva Montanelli quando con molto affetto mi definiva, all’inizio del mio mandato, il segretario fiorentino. Mi richiamerei a Machiavelli piuttosto che a Stalin.

Democrazia cristiana. Democrazia laica. Ma intanto cosa sopravvive oggi della distinzione fra laici e cattolici? Si possono fondare su di essa le future prospettive della politica nazionale?

Intanto io tendo a definire il PRI come “partito della democrazia”. E non uso aggettivi, neanche quello di laico. È un punto di vantaggio rispetto al residuo confessionale che affiora in quel termine “cristiano” (che in Italia non è poi, come nella Germania federale, “interconfessionale” fra cattolici e protestanti, distribuiti quasi in egual misura nella CDU).
Secondo. Ricordo la radice della parola “laico”, che in greco vuol dire laos, cioè popolo, e come tale fu recepita dal latino tardo, laicus. “Appartenente al popolo profano”, per indicare chi non fa parte dello stato ecclesiastico. Ecco: noi siamo i “non chierici” della politica italiana. Il che non vuol dire anticlericali. Vuol dire soltanto fautori della pluralità delle fedi e difensori dell’Italia – avrebbe detto Jemolo – “come ‘casa comune’ di credenti e non credenti”.
Terzo. Il rapporto fra laici e cattolici si pone ancora in Italia, nonostante i grandi passi avanti di questi quarant’anni. Si pone in rapporto al nuovo Concordato; si pone in rapporto all’ora di religione, che ha avuto una soluzione pessima dal punto di vista legislativa (non consentendo l’ora alternativa).
E poi c’è un punto fondamentale che alimenta quella dialettica. La DC di De Gasperi esercitava un alto grado di mediazione politica, anche se contrastata dal Vaticano pacelliano. La DC attuale non è in grado di rispecchiare neanche parzialmente tutte le forze complesse e originali che si muovono nel laicato cattolico, che solcano il campo di un nuovo spiritualismo (che non è integralismo). Basti pensare a “Comunione e Liberazione” e a tutto quello che vuol dire nella vita della Chiesa e nell’attuale pontificato: portata talvolta a scavalcare lo Scudo crociato per dialoghi con partiti o pezzi di partiti laici, anche su temi essenziali come temi della scuola.

Chi ha avuto occasione di seguirla in qualche viaggio è rimasto sbalordito della sua capacità di resistenza allo stress fisico ed intellettuale. In un solo giorno, lei è capace di pronunciare cinque o sei discorsi. E tralascio il resto. Dove trova le energie per condurre una vita talmente “disumana”? esiste forse un ormone del potere?

Non so se esiste un ormone del potere. So che ci vuole grande dedizione per mantenere questo impegno: impegno culturale e politico, insieme, secondo quella regola gobettiana. Ed escludo in tutta la mia vita di avere goduto di condizioni di fortuna o di favore. Tutto è stato pagato, nulla mi è arrivato gratis. Io non credo alla filosofia del vento in poppa, della predestinazione. Tutto è figlio della volontà, della preparazione, del sacrificio, della rinuncia, della fede nella “religione del tempo”: di considerare cioè il tempo che ci è stato dato come cosa sacra, da non sciupare mai.
Respingo ogni interpretazione “miracolistica” della mia vita, del mio presunto successo. E anche questo termine “successo” mi piace poco. Un illuminista come me, un crociano, non può porsi la questione in questi termini. Il successo non esiste. Esiste il proprio compito, esiste, con termine mazziniano un po’ più superbo, la propria missione. Io mi sono dedicato alla cultura, ho cercato di fare alcune cose, molte anche con notevole sacrificio personale. Mi sono impegnato a fondo nel giornalismo per il quale ho speso metà della mia vita. Quindi sono arrivato alla politica e anche lì ho profuso molto tempo, molte forze. Per me non esiste chi ha successo. C’è solo chi ha compiuto meglio o peggio il proprio dovere, chi ha portato a termine in un modo o nell’altro il compito – uso il linguaggio antiretorico di Giacomo Devoto – che gli è stato assegnato.

Abbiamo parlato dell’attivismo spadoliniano: ci piacerebbe sapere qualcosa di più della vita privata di Giovanni Spadolini, della sua famiglia, delle sue amicizie, dei suoi odii e dei suoi amori. Lo Spadolini uomo pubblico mostra un volto cordiale e rassicurante. Ma lo Spadolini privato è sempre lo stesso? O c’è in lui una vena nascosta di crudeltà fiorentina?

Capisco il riferimento alla “crudeltà fiorentina”. Io stesso, nella chiusa della prefazione a Firenze mille anni, ho osservato che una storia del pessimismo fiorentino è ancora tutta da scrivere. Scopriremmo allora le radici di quel gusto della beffa e del motteggio che è connaturale nei fiorentini, di quel fondo di amarezza crudele e talvolta sadica che si sfoga nell’ironia e nella satira, in quanto non trova altro modo di colpire i lati ignobili o ridicoli dell’uomo. La maschera di Stenterello non è che l’ultimo fantasma, estenuato ed esausto, della spietatezza fiorentina. Una spietatezza che trova il suo limite nel realismo, che diventa senso concreto della storia, no al provvidenzialismo e al trionfalismo, amore nel particolare nella particolare ricerca della perfezione. La perfezione dell’imperfetto.
Ma ho sempre cercato di vincere quella vena di pessimismo, pessimismo da “Ecclesiaste”, che mi deriva dalla nativa fiorentinità, con un senso di fiducia e di speranza, che per tanta parte è legato alla mia esperienza milanese, ai tanti anni passati a Milano, e ai profondi vincoli con Milano. Ricordo Montale: “Milano è buona”. E il mio lo considero un innesto fra Firenze e Milano: non senza quella radice di atavica tolleranza che mi deriva dalle origini marchigiane della famiglia.
Quanto ai rapporti fra vita privata e vita pubblica voglio dirle solo una cosa: che da buon fiorentino ho tenuto nettamente separata la vita privata da quella pubblica. In questo mi considero emulo di Giolitti. Quand’era presidente del Consiglio non riconosceva, e neanche salutava per la strada, suo fratello.




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