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  1. #1
    Avamposto
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    Arrow Introduzione all'ecologia nazionalsocialista: Walther Darre' e il Blut und Boden

    Ecologia nazionalsocialista : Walther Darrè



    Il binomio sangue e suolo, Blut und Boden, che radica il popolo al proprio territorio in una dimensione spaziale, temporale e genealogica, richiedeva da parte della politica nazionalsocialista un approccio al tema della terra innovativo e assolutamente invertito rispetto alla visione liberale-marxista della terra come mezzo di produzione.

    L’ecologismo dei partiti verdi di oggi che si è assolutizzato in meri slogan e azioni di cieca protesta poggia le sue basi sulla concezione della difesa dell’ambiente promossa dalla Germania degli anni nazionalsocialisti.

    Ecocompatibilità del lavoro con il territorio, salvaguardia e rispetto degli animali, controllo dell’urbanizzazione, riequilibrio dei dissesti ecologici causati dall’abuso delle risorse, limitazione della tecnologia nel lavoro della terra, considerazione degli impatti ambientali sono tutti obiettivi che troviamo nella politica agricola e ambientale varata dal ministro del Reich per l’Alimentazione e l’Agricoltura Walther Richard Darrè.



    Prima del Nazionalsocialismo si erano formati dei gruppi di giovani come i Wandervoegel (uccelli migratori) o la lega degli Artamani (uomini agricoli), che ambivano ad un ritorno alle origini della società, alla vita rurale degli antenati, vissuta di sano lavoro dei campi in piena armonia con la natura. Questo stile di vita collettivo, nazionalista e gerarchico doveva generare un ricongiungimento fra l’uomo e il suolo, in una dimensione di popolo autosufficiente e pronto ad espandersi nei territori tradizionalmente considerati tedeschi ad anticipare quello che sarà per Adolfo la necessità di uno spazio vitale, Lebensraum, uno degli ideali che diede il La alla seconda guerra mondiale.



    Walther Darrè aveva fatto parte della Lega degli Artamani (e con lui anche il futuro Reichsführer delle SS Himmler) e nel 1929 era uscito il suo libro “La nuova nobiltà di sangue e di suolo” in cui il contadino incarna la forza più sana del Volk e la più nobile in quanto custode della terra (cui Himmler opporrà il ruolo dell’elite guerriera delle SS come colonna vertebrale della società).

    Per Darrè la proprietà della terra diventa sacra e inalienabile: nel 1933 infatti emanava la legge sull’eredità dei poderi che non potevano essere venduti, ma dovevano passare in eredità ad un figlio il quale avrebbe dovuto continuare a mantenere tutta la famiglia.

    Inoltre si stabilì l’espropriazione e la ridistribuzione di alcuni latifondi a mezzadri che avrebbero potuto poi riscattarli.

    Il ruralismo di Darrè doveva rimanere indipendente dall’economia, ma fondare l’economia, amalgamare la nazione e caratterizzare lo stato contro le tendenze accentratrici e prevaricanti dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione (e fu questa spinta industriale e urbana poi a prevalere e a volere la guerra).

    Darrè istituì l’Anno del servizio Agricolo Obbligatorio, Landjahr, che era uno servizio obbligatorio cui dovevano partecipare ragazzi e ragazze scelti dal Reich per doti di resistenza fisica e di valore. A questa istituzione fino al 1940 parteciparono più di 200.000 giovani: in questa specie di colonie i giovani, divisi in gruppi, la mattina seguivano corsi di educazione fisica e spirituale e gareggiavano in agoni culturali e il pomeriggio si dedicavano alle attività agricole. Inoltre a loro era affidata la gestione e l’organizzazione di feste folkloristiche di paese nei villaggi vicini.

    Darrè era fortemente contrario alla sfrenata tecnologizzazione dell’agricoltura che avrebbe decretato lo svilimento della figura del contadino e danni sensibili alla terra:

    “Se l'uomo realizzasse tutto quello che gli permettono le possibilità della sua tecnologia, arriverebbe allora a comprendere che la vita su questa Terra sfigurata, vita resa troppo automatica e troppo impersonale, non varrebbe più la pena di essere vissuta.
    Vedrebbe che, sfruttando tutto quello che la Terra può dare, noi la distruggeremmo e questo cataclisma ci distruggerebbe a nostra volta.
    Che ciascuno di noi vegli, nei limiti delle proprie forze, affinché il cambiamento di rotta intervenga prima che sia irrimediabilmente troppo tardi”.

    Fra le sue emanazioni ci fu la legge del 1934 per il rimboschimento di molte aree che erano lasciate brulle; stabiliva il divieto di disboscamento per creare aree agricole e i rapporti da mantenere fra specie di piante. A questa seguì una legge del 1935 sulla “protezione della natura” che diede la possibilità alle autorità di frenare i danni derivati dagli effetti distruttivi dello sviluppo economico nelle campagne, stabilì dei vincoli paesaggistici e la fondazioni di enti parco, e impose severe norme nell’ambito dell’edificabilità di strutture e infrastrutture a fronte del loro impatto ambientale. Inoltre Darrè fu autore di studi sui dissesti idrogeologici, sulla pericolosità di fertilizzanti chimici e sulla conservazione della biomassa a fini agricoli.

    Questo pazzo criminale di guerra fu imputato come gli altri a Norimberga, carcerato per 5 anni, e morì poco dopo la sua scarcerazione nel 1953.

    Alla politica rurale e tradizionale di Darrè in materia di agricoltura compatibile e sostenibile si affiancano le leggi sulla difesa degli animali e contro la caccia.

    La legge sulla “protezione degli animali” prevedeva pene severe contro chi provocava deliberatamente sofferenze agli animali, lo sfruttamento incontrollato delle bestie da lavoro e infine si proibiva la vivisezione e la possibilità di fare esperimenti era strettamente vincolata a scopi di carattere medico, e solo in casi di estrema necessità.

    La legge “contro la caccia” invece poneva fine alle modalità secolari di cacciare a cavallo e con la muta di cani, cosa che infastidì una certa aristocrazia; si poteva cacciare solo dietro licenza ottenuta dopo un corso di 100 ore di lezione e un esame di tre ore.

  2. #2
    Avamposto
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    Predefinito Rif: Introduzione all'ecologia nazionalsocialista: Walther Darre' e il Blut und Boden

    L’ideologia ruralista del Blut und Boden


    18 novembre 2008

    Autore: Luca Leonello Rimbotti




    Richard Walther Darré (Belgrano, 14 luglio 1895 – Monaco di Baviera, 5 settembre 1953)
    Era l’anno 377 a.C., quando a Roma vennero approvate le famose leggi Licinie-Sestie: esse prevedevano l’assegnazione di poderi familiari al popolo, introducendo il divieto di possedere più di 500 iugeri di terra. E molto nota è anche la figura storica di un Caio Gracco, che oltre duecento anni dopo proponeva la confisca delle proprietà terriere troppo estese – già veri latifondi – per redistribuirle in limitati lotti proletari, così da rinsaldare quel tessuto di piccola proprietà contadina familiare ed ereditaria, che a Roma veniva considerato centrale per la stabilità dello Stato e per l’identità tradizionale del popolo. Tanto che Virgilio, nelle Georgiche – non diversamente da Pound duemila anni dopo –, fece una celebre esaltazione della vita e dei valori rurali, cantando la figura del piccolo proprietario terriero e l’immutabile stile di vita rurale come l’ideale della convivenza a misura d’uomo: il contadino è lo scrigno delle virtù della stirpe, è saggio e frugale, laborioso e tenace; è insomma la colonna portante della società. Una concezione che, con Giulio Cesare, divenne epocale, con la distribuzione della terra ai veterani di guerra e il rafforzamento sociale del legionario-colono, fulcro dell’assetto etnico e politico fino a Impero inoltrato.
    A Roma, dunque, e sin dalle origini, il legame tra stirpe romano-italica e suolo dell’insediamento era una filosofia di vita e, allo stesso tempo, un sistema sociale ben saldo. È risaputo che, come riporta ad esempio Tito Livio, Augusto favoriva la celebrazione delle origini contadine del popolo romano, al fine, come ha scritto la storica Storoni-Mazzolani, «di infondere nei Romani il senso della propria identità etnica e culturale». Roma, in fondo, nasce contadina. E il suo mito di fondazione prende vita dalla sacralizzazione di un atto semplicissimo: la recinzione di un campo.
    La lotta al latifondo e al capitalismo agrario, e la mistica della comunione tra ceppo ereditario e suolo, come si vede, in Europa ha origini molto antiche. E dunque l’ideologia agraria rilanciata nel secolo XX dal Fascismo e dal Nazionalsocialismo con le formule del Ruralismo e del Blut und Boden (Sangue e Suolo), non fu una trovata moderna, magari per sedare le masse, ma la ripresa di arcaicissime tematiche identitarie. Per altro, l’attribuzione alla figura del contadino di virtù etiche insostituibili era stata una costante della civiltà europea. Basta ricordare che la suddivisione “trifunzionale” della società europea (sacerdoti-guerrieri-contadini), veneranda eredità indoeuropea, è stata studiata dagli storici in tutto il suo arco, che arrivò pressoché inalterato fino alla Rivoluzione francese.
    La recente uscita del libro di Andrea D’Onofrio Razza, sangue e suolo. Utopie della razza e progetti eugenetici nel ruralismo nazista (pubblicato dalla casa editrice universitaria ClioPress), ci permette di penetrare più a fondo in uno degli snodi essenziali delle ideologie anti-progressiste del Novecento. Qui si ha un chiaro esempio di come il Nazionalsocialismo – sulla scorta dell’esempio fascista – riuscisse a far convivere moderno dinamismo industriale e antica socialità contadina. Un binomio che ben riassume il tratto tipico di quei regimi, innestati sia sull’innovazione tecnologica che sulla tradizione popolare, secondo la conosciuta formula della “rivoluzione conservatrice”. In Germania, l’emanazione della legge del settembre 1933 sulla costituzione dell’Erbhof – il podere ereditario inalienabile che, su impulso del ministro dell’Agricoltura Walther Darré, il Terzo Reich mise al centro della riorganizzazione della società tedesca – rappresenta bene il tipo di lotta che gli ambienti ideologici nazionalsocialisti intendevano intraprendere. Nulla di nuovo. Se non nel modo radicale con cui si pensava di procedere. Si trattava, niente di meno, che di invertire il trend modernista di urbanizzazione e sradicamento delle popolazioni, secondo quei processi di industrializzazione che già alla fine dell’Ottocento i sociologi avevano studiato nei loro risvolti rovinosi dei tessuti sociali consolidati. D’Onofrio nota che all’ideologia rurale nazionalsocialista parteciparono anche studiosi che, per conto loro, già da tempo avevano proposto delle soluzioni al declino demografico tedesco del primo dopoguerra e allo spopolamento delle campagne dovuto al dilagare delle metropoli.
    Arno Breker, Die Partei (Il Partito).
    Demografi e studiosi come Friedrich Burgdörfer, direttore dell’Ufficio di Statistica, già in epoca pre-nazista erano giunti alla conclusione che il regresso delle nascite andava di pari passo con la crisi della popolazione agraria e dell’ideologia conservatrice che ne era il fondamento. E Spengler, fin dal 1918, spese parole di fuoco contro l’avvento della grande città, abitata da “nomadi” e “parassiti” snazionalizzati, del tutto avulsi da contesti di solidarismo comunitario, tipico invece dei fermi legami della società contadina. Il Nazionalsocialismo, su questi temi culturali e di ricerca scientifica, inserì la volontà politica di fare sul serio. Secondo modi che lo storico Domenico Conte, studioso di questi aspetti della Germania moderna, anni fa ha definito “originali”: l’istituzione di un’unica grande corporazione agraria – il Reichsnährstand –, la promulgazione di leggi che regolavano i premi di produzione, i prezzi, i consorzi di produttori, etc. Il tutto, stabilito in base alla programmazione statale – tendenza comune a tutto il mondo industrializzato dell’epoca – e sostenuto dall’ideologia del comunitarismo contadino. Del quale si propagandava l’idea che fosse in grado di autogovernarsi, senza bisogno di venir gestito da interventismi dell’autorità centrale.
    Scrive D’Onofrio che, dietro questi intendimenti, batteva un’interpretazione razzistica fortemente versata a considerare il popolo dal punto di vista biologico, quasi zoologico. È quando riporta le opinioni di studiosi come Günther, fiancheggiatore del Blut und Boden e teorico della “purezza razziale” del ceto contadino. Si tratta di una deformazione di prospettiva che, di solito, la storiografia compie, assegnando in esclusiva al Nazionalsocialismo intenzioni che, in quei decenni, appartenevano a molte altre sfere politiche. Per dire: l’igiene razziale (ad esempio, in Italia, promossa tra Otto- e Novecento da progressisti come Lombroso o Mantegazza) era materia di generale consenso, anche in contesti “democratici”. Nella Germania weimariana, protagonisti dell’igienismo razziale erano stati noti esponenti socialdemocratici come Ploetz e Grotjahn. E l’eugenetica – concepita in ambito liberale e darwinista –, in quel periodo divenuta legge di Stato negli USA o in Svezia e rimasta tale fino agli anni Sessanta del Novecento non fu una prerogativa di questo o quell’ideologo nazista, ma ricerca scientifica e prassi politica diffuse. Davvero non si vede, dunque, dove sia il motivo per dichiarare il ruralismo nazionalsocialista più una perversione “biologista”, che non una cultura di tipo tradizionale, modernamente riproposta.
    Adolf Wissel, Kalenberger Bauernfamilie (1939)
    Lo stesso D’Onofrio, d’altronde, riporta che il tratto tipico della “utopia” legata alle virtù del contadino tedesco era una forma di neopaganesimo, quindi un’impostazione spiritualista ben prima che “zoologica”. Alle accuse di materialismo rivolte nel 1937 da Pio XI alla «fede nella razza e nell’ereditarietà», i teorici nazisti ribattevano, scrive D’Onofrio, «che le leggi di natura non erano altro che leggi divine e il loro “rispetto” assieme alla cura delle qualità che Dio ci aveva regalato erano, perciò, tra le massime espressioni di religiosità».
    Crediamo che il nòcciolo della questione sia quindi un altro. Probabilmente, l’aspetto storicamente più importante del ruralismo – sia nazionalocialista che fascista – sta nella sua lotta alle degenerazioni della modernità. L’aggressione alle identità nazionali prodotta dall’avvento dell’anonimato di massa trovò allora dei critici severi. In questo senso, il Nazionalsocialismo fu un seguace di teorie socialdarwiniste pensate al di fuori del suo contesto, ma anche un singolare anticipatore di argomenti oggi attuali. L’ecologismo ambientalista, ad esempio. Anni fa, la studiosa Anna Bramwell scrisse un’importante biografia di Darré, presentandolo come un profeta del pensiero “verde”. In effetti, la lotta da lui intrapresa all’inquinamento e al disboscamento, la tutela degli equilibri ecosistemici, i divieti di caccia, la creazione dei parchi naturali etc., erano tutte politiche che si affiancavano alla difesa del podere contadino, al miglioramento della salute e dell’igiene popolare, alla protezione della cultura di villaggio e alla cura del territorio. Ivi compresa la nozione di paesaggio come elemento di influenza sul carattere. Darré fu un fiero avversario degli Junker, i grandi latifondisti prussiani. E sempre D’Onofrio, ma in un suo precedente libro sullo stesso argomento, Ruralismo e storia nel Terzo Reich (Liguori), ha precisato che la politica agraria nazionalsocialista venne presentata come una liberazione del contadinato tedesco dai secolari gravami del debito e della servitù sociale. Insomma: il ruralismo, innanzi tutto, come anti-capitalismo. In Razza, sangue e suolo il nostro autore specifica che, attraverso le leggi agrarie e gli strumenti della divulgazione ideologica, come l’autorevole rivista Odal, Darré si prefiggeva lo scopo di opporre al disintegrazionismo progressista la salda tenuta psico-sociale e bio-storica delle aggregazioni tradizionali. In questo, «si sarebbe dovuto ispirare innanzi tutto alla rigida coscienza razziale e biologica del popolo ebraico, per assumere a sua volta una coscienza di unità organica e biologica». Dunque, paradossalmente, il cuore sociale e culturale del razzialismo nazionalsocialista aveva in vista il modello rappresentato dallo storico nemico di razza, da sempre esempio vivente della cultura selettiva e della preservazione delle qualità ereditarie collettive.
    Infine, non può neppure esser taciuto il dato che Darré e i ruralisti rappresentavano un aspetto anti-imperialistico e immobilista della realtà sociale del Terzo Reich: non volevano produrre artificialmente la “razza superiore” ma, come è stato più volte puntualizzato dagli storici, volevano difendere un’etnia dalla minaccia di estinzione portata dalla crescita mondiale del cosmopolitismo: tale etnia minacciata, definita nordica dal lessico nazionalsocialista, cioè la “crema” del popolo tedesco, era il patrimonio di “sangue” cui era riservata la protezione della più intima Volksgeist, lo spirito popolare. Diversamente da un Himmler, Darré pensò il ceto contadino come pacifica e ristretta élite dedita al lavoro dei campi, più che a programmi guerrieri di conquista imperialistica. Forse per questo nel 1942 – ma solo allora e non prima – venne di fatto politicamente esautorato.


    * * *
    Tratto da Linea del 30 maggio 2008.

    http://www.centrostudilaruna.it/l%E2...und-boden.html
    Ultima modifica di Avamposto; 26-07-10 alle 13:21

  3. #3
    Avamposto
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  4. #4
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    "non è Maurizio Lattanzio a sentirsi Dio, ma è Dio, quando è 'in forma', a sentirsi Maurizio Lattanzio"

  5. #5
    calici amari
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    Il sito dei... "VERDI" in Germania


    Nazi.org: Nationalist News Network
    Corpo sano in ambiente sano.

    Chi avvelena una persona per vendetta viene condannato per veneficio.
    Chi avvelena milioni di esseri umani per profitto viene onorato come capitano d'industria.

  6. #6
    Avamposto
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    Il pensiero “ecologista” di Walther Darré -


    di Francesco Lamendola




    La seconda guerra mondiale è finita da sessantacinque anni, circa il tempo tre generazioni: è molto, è poco?
    A volte sembra pochissimo, quando ci si accorge quale imbarazzo suscitano ancora certi nomi nel salotto buono della cultura odierna.
    Prendiamo il nome di Berto Ricci, ad esempio, sul quale ci proponiamo di tornare quanto prima con uno scritto specifico: impossibile negare la sua statura intellettuale e morale, la sua cristallina coerenza (magari ce ne fossero altri come lui, oggi); e, tuttavia, impossibile negare il suo fascismo.
    Appunto, il SUO fascismo: ma quanto sono stati i fascismi? E fino a che punto li si è voluti semplificare, appiattire, omologare su un modello unico di comodo, grottesco, caricaturale, allo scopo di poterlo meglio deridere, vilipendere, o, semplicemente, rifiutarsi di prenderlo in considerazione? Quest’ultima soluzione, la più comoda e la più ipocrita, fu quella del filosofo Benedetto Croce, con la sua teoria sulla «invasione degli Hyksos»: quasi che il fascismo fosse sceso sull’Italia direttamente dal pianeta Marte.
    Oppure, uscendo dai confini dell’Italia, prendiamo il caso di Ricardo Walther Darré, che fu ministro per l’Agricoltura e presidente dell’Associazione dei contadini nella Germania hitleriana: caso ancor più imbarazzante, se possibile, di quanto il nazismo è più imbarazzante (e peggio) del fascismo, rispetto alle categorie culturali, politiche e morali della odierna democrazia.
    Che cosa c’è di più lontano dal totalitarismo nazista, si pensa oggi comunemente, del pensiero ecologista e dei movimenti politici “verdi” che ad esso si ispirano? Guarda caso, l’unico Paese d’Europa nel quale i Verdi abbiano raggiunto una discreta forza elettorale è la Germania, dove si sono alleati con la socialdemocrazia per formare dei governi di centro-sinistra; e, per di più, con una resuscitata icona del Maggio ’68: quel Daniel Cohn-Bendit, già “eroe” barricadiero del Quartiere Latino, eletto deputato al Parlamento europeo nel 1994.
    Eppure…
    Proprio nella Germania guglielmina e, poi, nazista, era diffuso un robusto movimento ecologista “ante litteram”, fondato in parte sulle idee steineriane circa l’agricoltura biodinamica, in parte sulla reazione antiborghese dei cosiddetti Wandervoegel (“Uccelli migratori”, studenti girovaghi che anticipavano il Waldgänger poi profetizzato da Ernst Jünger) ed in parte sul mito ruralista e tendenzialmente razzista del “sangue e suolo” (“Blut und Boden”) e sulla ricerca di una nuova aristocrazia spirituale fondata sul rifiuto della modernità o, quanto meno, su un atteggiamento molto critico verso di essa, così come verso l’industrialismo, l’urbanesimo, l’internazionalismo (tutti elementi, sia detto fra parentesi, che si ritrovano, in diversa misura, anche nel nostro movimento di Strapaese e nel pensiero di Berto Ricci).
    Dobbiamo considerare tutto questo come una semplice coincidenza, oppure esiste un nesso organico fra l’odierno ecologismo europeo e gli aspetti proto-ecologisti presenti nella Germania degli anni Venti e Trenta del ‘900 e particolarmente nella concezione di Darré, esposta nei due libri «Il mondo contadino come sorgente di vita della razza tedesca», del 1928, e «Una nuova aristocrazia basata su sangue e suolo», del 1929?
    La storica inglese Anna Bramwell, già ricercatrice presso il Trinity College di Oxford, ha delineato la figura e il pensiero di questo anomalo esponente del Terzo Reich, nell’ormai lontano 1985, in un lucido volume con cui la cultura contemporanea politicamente corretta ha cercato di non fare i conti: «Walther Darré and Hitler’s Green Party» (Londra, Kensal Press), un estratto del quale apparve, con l’intrigante titolo «Il padre dei Verdi era un nazista?», sul mensile «Storia Illustrata» del novembre 1985, all’epoca diretto da Giordano Bruno Guerri. A quella monografia rimandiamo il lettore italiano desideroso di approfondire l’argomento.
    Darré odiava la civiltà industriale e aveva un sentimento tolstoiano della natura e della vita rurale; sognava un’Europa ove i contadini, da sempre oppressi e disprezzati (si pensi solo alla guerra di sterminio condotta contro di essi dai principi tedeschi nel 1525, con la lugubre benedizione di Lutero), diventassero la nuova aristocrazia; un’Europa dove la campagna assediasse letteralmente le città, le svuotasse del loro veleno, la fabbrica, e le costringesse ad assumere più umili dimensioni, strappando loro l’egemonia culturale e politica fino ad allora esercitata.
    Come si vede, il suo pensiero rientrava perfettamente in quella paura della modernità e in quel rifiuto dell’urbanismo di stampo americaneggiante che spazzò l’Europa tra le due guerre mondiali e di cui si possono cogliere numerosi riflessi, oltre che nella filosofia e nelle arti figurative, nella letteratura: dalla narrativa del romeno Cézar Petrescu (specialmente nel romanzo emblematico «Calea Victoriei», a quella del norvegese Knut Hamsun (col bellissimo «Pan»), al già citato Jünger, alla nostra rivista «Il Selvaggio» di Mino Maccari ed anche all’opera di Cesare Pavese e della sua contrapposizione fra città e campagna e fra storia e mito.
    Presenta anche significativi punti d’incontro con la critica all’occidentalizzazione portata avanti dal filosofo russo contemporaneo Aleksandr Zinov’ev, del quale ci siamo appena occupati (con l’articolo «L’occidentalizzazione del mondo nel pensiero di Aleksandr Zinov’ev» del 14/06/10, sempre sul sito di Arianna Editrice) che, a sua volta, si rifà, almeno in parte, al pensiero di Dostojevskij e al dibattito tra slavofili e occidentalisti nella Russia di fine ‘800, che fa da sottofondo al capolavoro «I fratelli Karamazov».
    Un aspetto particolarmente imbarazzante delle teorie di Darré, che si è trasmesso ad alcuni filoni del contemporaneo pensiero “verde” (quello di David Icke, per citare un nome), è - imbarazzo nell’imbarazzo di questa inattesa, ingombrante parentela - una certa propensione, se non all’antisemitismo, certo alla diffidenza verso il modello culturale e, in parte, politico, di cui gli Ebrei sono stati portatori nel ‘900.
    Da Marx e Trotzkij a Cohn Bendit, Bernard Henry-Lévy e André Glucksmann, gli Ebrei sono stati all’avanguardia del pensiero socialista, rivoluzionario e “gauchista”.
    Però sono stati anche all’avanguardia, con i Rotschild ed altri potenti gruppi d’affari, di quel capitalismo d’assalto, finanziario e industriale, che ha contribuito a sostenere il Partito nazista nella sua scalata al potere, ha avuto pesantissime responsabilità nel crollo della Borsa di Wall Street e poi, dalla roccaforte di New York, ha sponsorizzato il braccio armato del sionismo attraverso lo Stato di Israele, fino alle ultime vicende dell’operazione “Piombo fuso” contro Gaza e dell’assalto alla flottiglia umanitaria che cercava di portare viveri e medicinali alla stremata popolazione della Striscia, sottoposta da anni ad un blocco illegale.
    Ora, viviamo in tempi di terribile semplificazione e di incessante ricatto psicologico e culturale, retaggio della guerra fredda ma, ancor più, frutto del Pensiero Unico ormai saldamente stabilito. Un neo-manicheismo sostenuto da appositi apparati repressivi, sia psicologici che giuridici epolizieschi, è stato imposto ovunque con successo, in nome di un manicheismo democratico ed egualitario tanto demagogico quanto funzionale ai poteri forti, i quali - a differenza di quelli del Novecento - si tengono scrupolosamente nell’ombra, sforzandosi di far parlare di sé il minimo indispensabile (vedi il Gruppo Bilderberg, la Commissione Trilaterale e le riunioni annuali nel Bosco Boemo, presso Sonoma, in California).
    Di questi tempi, si vorrebbe riscrivere la storia recente in termini di violento chiaroscuro, con tutto il Bene da una parte sola e tutto il Male possibile, dall’altra. Di conseguenza, scoprire che alcuni tratti del pensiero ecologista erano già presenti nel nazismo (ma siamo sicuri che ci sia stato un solo nazismo, come ci sarebbe stato un solo fascismo?), risulta inaccettabile alla maggior parte delle persone, anche di discreta cultura; per cui bisogna per forza o negare quella derivazione, magari a dispetto dell’evidenza, oppure parlare di convergenze casuali.
    Ma, come diceva appunto Berto Ricci, forse sarebbe ora di liberarci delle ultime scorie idealiste (con buona pace di Hegel e Croce) e di renderci conto che non tutto è storia: perché storia non è tutto quello che passa, ma quello che permane.
    Ciò premesso, non bisogna nemmeno cadere nell’eccesso opposto, tentando una strisciante riabilitazione del nazismo in funzione di quegli aspetti “ecologisti” che pure ebbero cittadinanza in esso, e sia pure cittadinanza minoritaria (Darré fu e rimase un isolato e alla fine, nel 1942, dovette dimettersi da ministro). Per cui, ad esempio, constatare come Darré fosse un fervente sostenitore dell’agricoltura biodinamica e fosse seriamente preoccupato per l’esaurimento e l’avvelenamento del suolo, non significa, automaticamente, che gli ecologisti d’oggi debbano sentirsi culturalmente debitori del nazismo, perché è molto più logico ammettere che sia il nazismo, o meglio le frange ecologiste in esso presenti, sia l’ecologismo dei nostri giorni, traggono ispirazione da alcuni principî e, diciamolo pure, da alcuni timori, che non sono propri né di questa, né di quell’area culturale, ma hanno a che fare, più genericamente, con il disagio della modernità.
    E qui si giunge al punto cruciale del discorso. Abbiamo visto che l’odio per la civiltà urbana, borghese e decadente, e l’esaltazione di una forte razza di contadini, sana e laboriosa, era una componente culturale non secondaria dell’Europa del primo Novecento, che poi andò a confluire, rispettivamente, nelle utopie ruraliste tanto del fascismo, quanto del nazismo; portandosi dietro, in questo secondo caso, il suo logico corollario, l’antisemitismo (in quanto gli Ebrei erano gli sradicati per eccellenza e i massimi esponenti del pensiero urbano e industriale: non si dimentichi l’adorazione di Marx per la macchina).
    Ebbene: il fatto che, nel fascismo e nel nazismo, andarono a confluire e a coagularsi molti elementi di origine ruralista, antiborghese, anti-industriale, e in una parola molti elementi nati dalla paura e dal rifiuto della modernità (ma il dibattito storico è ancora apertissimo: perché è certo che nel fascismo e nel nazismo vi furono anche elementi di esaltazione della modernità, come già era accaduto nel caso del futurismo) non significa che, in nome di essi, si possa rivendicare a quei movimenti una capacità profetica alla quale, ora, noi ci dovremmo riallacciare, come le pecorelle smarrite che tornano al pastore; ma non significa neppure che, ipocritamente, si debba far finta di non vederli o che li si debba negare e misconoscere.
    Il punto decisivo è che un rifiuto della modernità, il quale nasca dalla paura e dal desiderio di tornare all’antico, non può che dar luogo ad una concezione regressiva, anti-storica (nel senso indicato da Berto Ricci e non in quello di Croce) e, in ultima analisi, reazionaria, con gli inevitabili riflussi razzisti e isolazionisti: si pensi, oggi, al fenomeno culturale del leghismo, almeno nelle sue forme più rozze e velleitarie. Al contrario, una critica della modernità che ne assuma tutta la complessità e che ne metta in evidenza i limiti e i pericoli, filosofici non meno che pratici ed ecologici, si caratterizza come la doverosa e necessaria ricerca di una alternativa praticabile all’incombente catastrofe planetaria: senza di che, essa diviene sterile esercizio retorico o, peggio, irresponsabile nichilismo e moda intellettuale senza sostanza etica.
    Così, per esempio, nell’ideologia della Guardia di ferro di Codreanu si possono cogliere tanto una sincera aspirazione alla rifondazione morale della società romena, mediante un ritorno alla terra vista come sorgente di valori religiosi (in fondo, è lo stesso programma di Ottaviano Augusto dopo la fondazione del’Impero, sostenuto da intellettuali del calibro di Virgilio e Orazio), sia elementi intrinsecamente distruttivi, come un antisemitismo fanatico e l’esaltazione della violenza sistematica come “normale” strumento di lotta politica, che portarono all’imbarbarimento della vita sociale e aprirono la strada alla dittatura del generale Antonescu.
    Il caso dell’Italia e della Germani fra le due guerre è diverso da quello della Romania. Sia per Mussolini che per Hitler, il mito ruralista era, in sostanza, uno strumento propagandistico, in cui essi credevano poco; e ciò era particolarmente vero per la Germania, società industriale avanzata, in cui un “ritorno alla terra” era un anacronismo di fatto, alquanto stridente e decisamente inaccettabile per i ceti industriali e finanziari che sostenevano Hitler, pur se gradito agli junker prussiani e soprattutto ai contadini.
    Tornando all’Europa, e anzi al mondo, dei nostri giorni - il mondo della globalizzazione, dove la catena di fabbricazione di un paio di jeans passa attraverso una dozzina di Paesi e dove l’incidente petrolifero nel Golfo del Messico è destinato e ripercuotersi in ogni angolo dell’orbe terracqueo - occorre avere ben chiaro che l’ideologia della modernità: materialista, meccanicista, riduzionista, deve essere oltrepassata, non semplicemente negata; e oltrepassata conducendone una critica circostanziata e puntuale, che ne sappia cogliere gli stimoli utili, in vista di un salto di qualità della nostra evoluzione, sia materiale che spirituale.
    Ciò significa che, per esempio, sul terreno della politica noi dobbiamo pensare, studiare e proporre qualche cosa che sia di più e di meglio della democrazia; non qualche cosa che sia di meno e di peggio, come la dittatura o il totalitarismo esplicito.
    Solo se sapremo fare questo, potremo anche cogliere onestamente gli spunti potenzialmente positivi presenti nel pensiero protoecologista di un Darré - che, sia detto per inciso, non amava la guerra e non era un imperialista -, così come in una parte non secondaria della filosofia, dell’arte e della letteratura della prima metà del Novecento.
    Dobbiamo avere l’onestà intellettuale di riconoscere che ci siamo sbagliati.
    La critica al capitalismo è stata condotta in gran parte con le categorie politiche e culturali del marxismo-leninismo, ossia dell’altra faccia di quella stessa concezione industrialista che ha prodotto, a livello ecologico non meno che a livello sociale, disastri non certo minori di quelli del capitalismo stesso.
    D’altra parte, l’utopia tolstoiana e gandhiana non offre se non soluzioni regressive e consolatorie: ed è significativo che Gandhi, discepolo ideale di Tolstoj, sostenesse che «il peccato più grave di tutti è la macchina»: tipico esempio di quel rifiuto e di quella paura che si esprimono in una demonizzazione di ciò da cui non si riesce a liberarsi (in senso psicologico prima ancora che in senso materiale).
    Il nostro domani è ancora tutto da scrivere.
    Ci vogliono rigore, onestà, capacità di critica e di autocritica; soprattutto, bisogna smetterla di pensare per luoghi comuni ideologici e liberarsi dall’ossessione della “destra” e della “sinistra”, due categorie che non vogliono dire più nulla.
    Il che non significa cadere nel qualunquismo, ma riscoprire la concretezza e la bellezza del pensiero e dell’azione consapevoli, formulati in vista di fini e di valori e non semplicemente di paure, di ripulse o di oscure e inconfessabili nostalgie.
    D’altra parte, una vera consapevolezza olistica, oggi, implica il superamento del concetto stesso e delle pratiche legate all’ecologismo “stricto sensu”, il che la rende ancora più emancipata rispetto alle radici otto e novecentesche del pensiero ambientalista e biodinamico. Oggi, davanti ai disastri apocalittici dell’inquinamento ed all’esaurimento progressivo delle materie prime necessarie a questo tipo di economia, emerge con chiarezza la necessità di ripensare i concetti stessi di sviluppo e di crescita (il «principio di sovrabbondanza» tipico della modernità), riconoscendo in essi la radice del vicolo cieco nel quale attualmente siamo venuti a trovarci.
    Oggi è necessario pensare non più in termini di “sviluppo sostenibile”, ma di “decrescita sostenibile”, come affermato da studiosi quali Serge Latouche, Edward Goldsmith, Alain de Benoist, Mauro Bonaiuti; tanto più che tutta l’economia liberale classica, responsabile della disastrosa situazione attuale, è basata su un vero e proprio errore scientifico e filosofico, in quanto si ispira al modello della meccanica newtoniana ed ignora la termodinamica e il principio dell’entropia, ossia l’irreversibilità delle trasformazioni di materia ed energia.
    Occorre pensare in grande, rifiutando il paradigma economico e culturale oggi dominante; ma senza sognare impossibili scorciatoie. L’utopia di una società contadina che si “sbarazza” dell’urbanesimo, accarezzata da uomini come Walther Darré, l’abbiamo già vista in opera, purtroppo: è stata praticata dai Khmer rossi di Pol Pot, che svuotarono a forza le città cambogiane, a cominciare da Phnom Penh, nel contesto di una politica di “moralizzazione dei costumi” che si è configurata come un vero e proprio genocidio.
    Pensare in grande, dunque, ma con saggezza e discernimento: questa è la sfida che ci attende.





    (17 Giugno 2010)


    Il pensiero “ecologista†di Walther Darré | Analisi | Rinascita.eu - Quotidiano di Sinistra Nazionale

  7. #7
    Avamposto
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  8. #8
    Avamposto
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    Monday, 27 July 2009


    Walther Darré-the Father of Green Fascism



    Walter Darré, a leading member of the Blut und Boden (Blood and Soil) movement, and later Nazi Minister of Agriculture, deserves to be better known as the father of Green Fascism. There are many aspects of this thinking that could quite easily be fitted in to the Ecology Movement. For example, in his capacity as Reich Minister for Agriculture, he was an early exponent of organic farming. When one strips away the racism from Blood and Soil and the other aspects of his oeuvre, then the familiar patterns emerge: the need for new farming techniques; a radical rethinking of the links between agriculture and industry; he even called for an end to 'globalisation', though in a different form of words!

    His first moves as Minister of Agriculture was to introduce security of tenure for medium and small farmers, followed by the implementation of a fair pricing system for their produce. He also wrote a series of articles, including one on the dangers of erosion. It was his view that soil was a living organism, part of a cycle of growth and decay, which, if misused, would have a serious impact on the quality of the food produced He was thus opposed to intensive forms of industrial farming and the unrestricted use of insecticides and chemical fertilisers. The problem for him was that his ideas on food production and the environment were at variance with the ultimate needs of the German war economy, and he was demoted in 1942.

    After the war he continued to defend and promote his ideas on small-scale and sustainable farming, including an attempt to found a society for the protection of the environment, right up to his death in 1953. I have a feeling that Prince Charles and Darré would have got along just fine.




    Ana the Imp: Walther Darré-the Father of Green Fascism
    Ultima modifica di Avamposto; 04-10-10 alle 10:55

  9. #9
    Avamposto
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  10. #10
    Avamposto
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