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    Predefinito Breve storia della Federazione Nazionale Combattenti RSI

    Breve storia della Federazione Nazionale Combattenti RSI:
    March 1st, 2005 · Lasciare un commento (No Comments)

    l’integralismo Fascista come antitesi al “neofascismo atlantico di servizio”.

    «Il Fascismo è l’unico socialismo possibile»
    Benito Mussolini

    «Il movimento legionario lotta per la creazione dello Stato totalitario… La concezione totalitaria della trasformazione dello Stato ci impedisce di accordare una qualunque importanza a queste nozioni prive per noi di significato… Noi… non possiamo essere né a destra né a sinistra, per la buona ragione che il nostro movimento abbraccia tutto quanto il piano della vita nazionale… “Sinistra” e “destra”? Dove sono?… Quando la stessa rivoluzione russa si nazionalizza intensamente… e quella fascista si socializza sempre più profondamente, che senso hanno più le etichette desuete di “destra” e di “sinistra”?»
    V. Marin

    «Noi (….) non abbiamo paura nè del comunismo, nè del bolscevismo. C’è un’altra cosa che ci fa paura: è che gli operai di queste fabbriche non abbiano a sufficienza da mangiare. Essi hanno fame. Bisogna che siano soddisfatte queste due necessità: la fame e il desiderio di giustizia»
    Corneliu Codreanu

    Sviluppando un breve discorso sulla storia dell’ultimo schieramento fascista repubblicano, che continuava a combattere, anche dopo il ’45, per quegli stessi ideali rivoluzionari e socialisti avviati da Mussolini il 23 marzo 1919, va al riguardo, da subito, specificato che la visione storica del fenomeno fascista promossa dalla Federazione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana era certamente antitetica rispetto a quella falsificazione storiografica sviluppata dall’estrema destra tradizionalista e reazionaria, la quale, finalizzando tutti i propri sforzi al contenimento di una presunta avanzata sovietica sull’Europa Occidentale (ma, come dimostreranno poi, in modo inequivocabile, i fatti storici 1979-1991, vi sarà un’aggressione occidentalista-sionista-vaticanista contro l’URSS, non viceversa), tendeva a proporre un modello storiografico nel quale venisse alla luce un fascismo essenzialmente anti-comunista ed anti-bolscevico. Modello storiografico, frutto di un’immane falsificazione, poiché già nel 1921 Benito Mussolini sosteneva che non esisteva, in Italia ed in Europa, un pericolo bolscevico, ma che l’unico autentico pericolo era quello del democraticismo neutralista, frutto politico del supermaterialismo anglosassone. Modello storiografico falso, quello del fascismo come anti-comunismo realizzato, non solo e non tanto perché Mussolini disse e spiegò ai suoi vecchi compagni che la “rivoluzione russa” non era possibile in Italia semplicemente perché le condizioni socio-economiche dell’Italia erano ben diverse, chiaramente, da quelle russe, («Noi non siamo contrari alla rivoluzione russa, siamo contrari alla “copia” della rivoluzione russa in Italia» disse il Duce il 9 novembre 1919) quanto perché Gentile, il filosofo del fascismo, prendeva le mosse, nella sua concezione filosofico-politica, proprio dalla meditazione dell’immanentismo marxiano, sviluppando poi una trasformazione in chiave idealistica e spiritualistica del marxismo, ma lasciando come supremo testamento, prima del suo martirio, fortemente voluto non dagli stalinisti sovietici, ma dagli imperialisti angloamericani, il nazionalcomunismo («il comunismo di Giovanni Gentile» come lo chiamerà Ugo Spirito1) di “Genesi e Struttura della società”, il comunismo nazionale italiano, l’unico autentico comunismo italiano, come rileverà anche Ugo Spirito dopo la guerra, comunismo tecnico centrato sul concetto dello Stato del lavoratore.

    Va ancora specificato che, nella visione dei fascisti repubblicani della FNCRSI, il fascismo -a differenza ed in antitesi alla vulgata della destra tradizionalista controrivoluzionaria- era:

    1) un movimento dell’ultra-sinistra nazionale, come scrisse Fantauzzi nel “Foglio di Orientamento” della Federazione Nazionale, nel 1996. Il fascismo era un movimento rivoluzionario, non tradizionalista, né rivoluzionario-conservatore. Movimento rivoluzionario di sinistra che aveva come principale obiettivo non quello della sbirresca salvezza della patria dalle orde sovversive, ma la realizzazione dell’Italia del lavoro e della produzione, dell’eguaglianza di fronte al lavoro e della creazione del fronte mondiale dei popoli sfruttati, oltre alla realizzazione di un regime totalitario fondato sulla mobilitazione permanente delle masse. Modernizzazione della nazione ed equa distribuzione delle risorse a livello planetario (sarà costante nel Duce la revisione della marxiana lotta di classe, che viveva ora nella concezione della santità della guerra anti-imperialista dei “popoli sfruttati”, i popoli proletari, contro i “popoli capitalistici”, i popoli e le lobbies della plutocrazia), sono i compiti sociali fondamentali che il fascismo, sin dal suo apparire, si pone.

    2) Un socialismo nazionale fondato sul dominio del principio anti-mercantilistico ed anti-capitalistico dell’autarchia, dello stato totalitario basato sull’«industria chiusa» (1922-1943) -il maggiore storico del fascismo, De Felice, non a caso, parla del regime fascista come di un regime totalitario di sinistra2 che andrebbe confrontato, quanto a realizzazioni sociali, con il regime sovietico; uno storico comunista, il Pennacchi, parla del regime fascista come di una dittatura del proletariato-contadinato3 – parzialmente realizzato a causa dell’inevitabile compromesso con le più potenti forze industriali italiani. Compromesso inevitabile poiché il fine della modernizzazione (la via “italica” alla modernità, non quella tecnocratica, come specificavano i fascisti integralisti) della nazione era per il Duce, come lo fu per Lenin, primario ed assoluto. Compromesso che però, come specifica, il Gregor, conduceva ad autentiche pianificazioni di settore che ben poco avevano di diverso da quelle della Russia sovietica (l’Italia “proletaria e fascista” era, con la Russia sovietica, la nazione, che, tra le due guerre, maggiormente aveva esteso e realizzato la proprietà statale4).

    3) Il termine ultimo del corporativismo era il socialismo realizzato, caratterizzato dall’abolizione della differenza dualistica tra pubblico e privato: nel 1934, disse Mussolini all’ex-sindaco di Milano socialista di Milano Caldara, convergendo dunque con le analisi di Ugo Spirito (il fascismo come superbolscevismo) e con quelle di Pellizzi (il fascismo come unica possibile attuazione del comunismo civile5, essendo il comunismo, in questa visione, la metafisica dell’amore e dei diseredati, non quello occidentalista e sionista dell’odio nichilista e della distruzione): «Se il corporativismo vorrà essere una cosa seria dovrà proporsi, come termine, la proprietà corporativa. Comunque per me, il corporativismo non è che un modo per arrivare al socialismo»6.

    4) Considerate queste premesse, la FNCRSI considerava l’autentica Dottrina Fascista incarnata nei princìpi della RSI.

    In RSI, non a caso, l’essenza di “sinistra” del Fascismo permetteva agli “integralisti” rivoluzionari fascisti di consacrarsi, storicamente, come il blocco più avanzato dell’estrema sinistra mondiale.

    Dall’ultimo Direttorio Nazionale del Partito Fascista Repubblicano, svoltosi il 5 aprile del ’45 a Milano, in via Mozart, veniva infatti lasciato come supremo testamento il seguente “messaggio”, che sosteneva esplicitamente la natura “reazionaria” del bolscevismo rispetto alla via rivoluzionaria, nazional-comunista, del Fascismo Repubblicano:

    «Eventuali tendenze al collettivismo bolscevico non costituirebbero affatto un estremismo dinamico rispetto al programma sociale del Fascismo repubblicano: costituirebbero invece un richiamo reazionario verso forme di supercapitalismo statale quali quelle bolsceviche, che la nostra Rivoluzione considera altrettanto sorpassate quanto una società che si basi sulla conservazione borghese»7.

    Non è un caso, ancora, che il Duce, presa ormai coscienza, della sconfitta, solamente militare del Fascismo repubblicano, trasferiva idealmente i poteri della RSI alle correnti della Sinistra Nazionale; diceva di voler lasciare l’eredità della socializzazione ai socialisti ed ai comunisti, non ai borghesi, voleva che gli imperialisti invasori trovassero il Nord socializzato e che i lavoratori difendessero il “socialismo reale” fascista repubblicano8.

    Come è possibile, si chiedeva il Fascista Repubblicano Gaspare Fantauzzi, ultimo responsabile della FNCRSI, negli ultimi anni di vita meditando sull’ingloriosa storia del neofascismo, che quasi nessuno, se non marginali correnti “fasciste”, tra cui appunto la Federazione Nazionale Combattenti RSI, si sia dato la pena di continuare il progetto autenticamente neo-fascista promosso da Mussolini negli ultimi mesi di vita, quello della Sinistra Nazionale? Ora io, che ho molta stima di J. Evola, non faccio altro che riportare la tesi dei vertici della FNCRSI, in particolare di Altomonte9, che così spiegava il tradimento anti-fascista, lo sbandamento a destra, non solo dei missisti (termine che la FNCRSI usava per indicare i missini), ma di tutta la destra radicale italiana: nel 1945, appena finita la guerra, in Italia, secondo l’interpretazione della FNCRSI, vi fu una operazione Evola promossa dal Ministero degli Interni. L’operazione Evola era, per la FNCRSI, questa: de-fascistizzare l’ambiente neofascista, buttare a mare il messaggio del Socialista di Predappio (chiamato dal Gregor, al pari di Lenin, marxista eretico, non anti-marxista), cancellare dalla coscienza dei reduci della RSI la possibilità di un neo-fascismo rivoluzionario, un socialismo nazionale, come lo voleva il Duce, un vero neo-fascismo, dunque, che avesse non in Mosca, ma nel blocco Londra-New York-Tel Aviv il suo vero nemico, quello che in fondo era stato il solo nemico del fascismo. Non so, né posso sapere se vi fu l’operazione Evola. So però che vi fu, indubbiamente, la defascistizzazione dell’ambiente: si iniziò ad interpretare un movimento “sovversivo”, massimalista, le cui figure storicamente di spicco venivano dal mondo marxista, sindacalista, anarchico, come un mai esistito movimento di natura tradizionalista (i più coerenti tradizionalisti furono i traditori del 25 luglio!); si iniziarono a sviluppare dei riferimenti storici, sempre e comunque controrivoluzionari e reazionari, esattamente contrari alla visione storica mussoliniana, che, in fondo, era rimasta sempre socialista, e sempre continuava a vedere le vicende storiche con la lente del partito degli oppressi e degli sfruttati, non con quella della nobiltà e del clero; si fece credere ad intere generazioni che il pericolo venisse da Mosca, non da Londra, non da oltre Oceano: ciliegina sulla torta, si iniziò spudoratamente, quando ancora i corpi straziati, privi di vita, così vilmente massacrati nelle “radiose giornate”, dei nostri camerati delle Brigate Nere, della Legione Autonoma Mobile Ettore Muti, della GNR, non erano stati ancora trovati dai propri cari, quando quei corpi ormai santificati poiché fu santa la loro adesione ad una idea del mondo realmente “giustizialista”, non terrorista, marcivano in qualche fossa comune del Nord Italia, perché a Londra, e non al Cremlino, ci fu un bel giorno la pianificazione di una strategia terrorista antifascista bandita a livello planetario, a teorizzare un golpe in difesa di uno Stato antifascista, colonia geopoliticamente molto importante dell’impero sionista, anglo-americano.

    Queste le indicazioni del maestro della gioventù nazional-rivoluzionaria:

    «La svolta è rappresentata dal luglio 1960, come dimostra l’articolo pubblicato da Evola su “L’Italiano”-sotto forma di lettera al direttore Romualdi…- dal titolo, “C’è un democratico con la spina dorsale?” Evola tratteggia (…) un’Italia ormai assediata dal comunismo (…) la sola alternativa appare la messa al bando del Partito Comunista in nome della “democrazia”, della “libertà democratica”. L’azione dovrà svolgersi su due livelli. Il primo, legislativo… seguirà le esperienze degli Stati Uniti e della Germania Occidentale, eliminando il Partito Comunista in nome della Costituzione (…) Il secondo livello è, invece, di carattere operativo… Evola delinea i contorni di un golpe di destra in difesa dello Stato minacciato dal comunismo… Il presupposto è la costituzione di una maggioranza “democratica” di destra, con i testa i liberali e i monarchici e non appoggiata dai missini (…) Un’azione preparatoria andrebbe, poi, svolta all’interno dell’esercito (…) Evola giunge a ipotizzare anche il sostegno del Vaticano, in nome dell’anticomunismo, e della NATO, in difesa dello Stato minacciato dal “sovvertimento antidemocratico”. Quanto ai militanti di estrema destra, essi sono chiamati a proteggere lo Stato»10.

    Dal 1959, dal giorno, il 17 maggio, dell’espulsione di Junio Valerio Borghese11 dalla FNCRSI, il carattere fascista rivoluzionario, in Italia, veniva esclusivamente conservato, diffuso, attualizzato dai combattenti della FNCRSI. Furono loro a sostenere che se potenziali alleati vi potevano essere, per un vero schieramento neo-fascista, andavano cercati, a livello internazionale, nei popoli oppressi dalla logica sfruttatrice e rapinatrice del capitalismo planetario; furono loro a tacciare in continuazione un intero ambiente, quello della destra radicale italiana, oltre le sfumature, di infatuazione atlantista; furono loro a riprendere la concezione del mondo “comunista” di Ugo Spirito12, fondata sulla percezione di un senso messianico non materialista e di una comunione spirituale, a-marxista, immanente nella via nazionale del comunismo russo e del comunismo cinese, di contro ad un ambiente, quello della destra, che sperava addirittura in un’affermazione della destra più nazionalista e reazionaria statunitense, in vista della creazione di un blocco euro-occidentale che, ancora una volta, ripetesse l’assedio anti-russo ed anti-sovietico. Di contro ad un ambiente che si prostituiva, come indicava il loro maestro (che voleva peraltro farci credere che sì Mussolini era una brava persona, aveva recuperato il culto della romanità, ma trascurava di notare che quel culto lo aveva recuperato, come già fecero i giacobini, in funzione rivoluzionaria e pedagogica, in un clima da mobilitazione popolare continua, non tradizionalista ed aristocratica, una brava persona sì ma andava depurato da quel “socialismo di fondo”, da quell’aspetto plebeo, anti-borghese, di figlio del popolo che lo aveva sempre contraddistinto) con generali ed antifascisti vari, l’azione di Gaspare Fantauzzi, quella di Bruno Ripanti, come quella dei vertici della FNCRSI, che mai cedettero alla destra, rimane, nella storia italiana, la voce della purezza e dell’integralismo fascista. La voce dell’estrema sinistra nazional-patriottica, la quale rifiutava di adottare, da quando Fantauzzi divenne il responsabile principale della Federazione, in una Nazione che era colonia americana dal ’45, l’insignificante slogan «Né USA né URSS».

    Fu, non a caso, la voce dell’ultimo Fascista Italiano, quella di Gaspare Fantauzzi, a levarsi in difesa del grande popolo russo, aggredito da una direttiva sionista emanata dall’ebreo Brzezinski, che conduceva alla destabilizzazione del governo filo-sovietico afghano (era al potere la fazione Khalq del PPD, che stava dando avvio a radicali riforme socialiste di contro al semi-feudalesimo tribale che privilegiava una ristretta fascia della popolazione) ed anche, in pratica, alla possibilità della destabilizzazione dell’intera Asia Centrale sovietica, minacciata ora dal nuovo fronte integralista islamico supportato dal mondialismo occidentale. Gli ultimi Fascisti Italiani salutavano l’ingresso dell’Armata Rossa a Kabul. Questa era la posizione che ogni vero fascista anti-imperialista avrebbe dovuto prendere, rispetto all’azione militare preventiva e difensiva realizzata dall’Armata Rossa sovietica, il 27 dicembre del ’79, quando ormai l’Impero americano, tramite i “sudditi” di turno, scagliava il suo ultimo attacco contro la Russia, ponendo definitivamente le basi per la vittoria sul nazional-comunismo sovietico13, nella terza guerra mondiale. In un ambiente che sognava adesso, frangente storico in cui islamismo faceva rima con americanismo ed anti-sovietismo, l’islamizzazione dell’universo, il Fascista Repubblicano Fantauzzi, prima di ogni altro geopolitico di fama internazionale, comprendeva l’essenza anti-imperialista, anti-talassocratica ed anti-atlantista della cosiddetta invasione sovietica dell’Afghanistan14. Proprio Fantauzzi aveva compreso, lo scriveva ancora in una lettera del gennaio ’87, che il Partito della Russia, la corrente nazional-patriottica ed antisionista ben presente nell’Unione Sovietica, era, a livello mondiale, quanto vi fosse allora di meno distante dal fascismo repubblicano. Non erano affatto casuali gli avvenimenti massmediatici diffusisi in piena guerra fredda, la feroce russofobia propagatasi a livello planetario, gli isterici appelli per la liberazione degli ebrei sovietici, la continua aggiunta di uno zero sul numero delle vittime delle feroci repressioni sovietiche e tanti altri di questi eventi…

    Gaspare Fantuazzi, autentico soldato di Mussolini, figlio politico del marxista eretico di Predappio, donò la sua intera esistenza umana e politica al progetto della Sinistra Nazionale; estremamente significativo fu il suo impegno nel Movimento Antagonista -che aveva nella rivista “Aurora”, «mensile della Sinistra Nazionale», il suo caposaldo di lotta politica antimperialista- il quale, nel momento storico in cui in Russia bandiere rosse con la falce e con il martello sfilavano accanto ai tradizionali simboli nazional-patriottici, nel momento storico in cui Zjuganov (ritenuto da più di un osservatore un autentico neo-fascista russo15) iniziava la sua assai ammirabile offensiva nazional-comunista contro la tragedia sociale e morale importata in Russia dal capitalismo, che introduceva nell’ex-URSS problemi sociali gravissimi, che dal ’29 erano stati sconfitti, in quello stesso momento storico, appunto, organizzava a Bologna, nel ’93, la “Marcia del Lavoro”, “Marcia” in cui le bandiere rosse, come simbolo della giustizia sociale, si trovavano finalmente accanto ai tricolori, come simbolo della lotta di liberazione nazionale anti-imperialista.

    Si ricomponeva, seppur per un breve ma intenso periodo, il fronte storico della Repubblica Sociale Italiana, il fronte del socialismo nazionale, il fronte della Patria del Lavoro e della solidarietà sociale, il fronte del superamento delle ingiustizie planetarie attuate su scala internazionale da una casta privilegiata di super-capitalisti.

    Ma in un ambiente che aveva il culto delle SS e non delle SA, della Decima Mas e non delle Brigate Nere e della Legione Autonoma Mobile Ettore Muti guidata dal fascista di sinistra Franco Colombo, dell’Evola controrivoluzionario e non di Nicola Bombacci, di E. Priebke (considerato da Fantauzzi un traditore del Duce, al pari degli Himmler, degli Wolff, dei Dolmann e degli altri simili maniaci dell’anticomunismo militante16) e non di Codreanu, la sua presenza era decisamente fuori luogo. Prima di lasciare la terra, idealmente vedeva in Vincenzo Vinciguerra «l’unico vero fascista del dopoguerra italiano»17; rimaneva, in particolare, colpito, dal suo gesto effettivamente ammirabile, quello che lo porterà a prendere consapevolmente, come sosteneva Fantauzzi, un autentico «ergastolo per la libertà». Rimaneva colpito dal fatto che Vinciguerra, seppur molto dopo la Federazione Nazionale, sviluppava un tipo di analisi del mondo neofascista, molto simile a quella già formulata dalla Federazione decenni prima. Vinciguerra, unico fascista sottoposto al trattamento speciale del cosiddetto 41bis, non a caso ha scritto:

    «Le teorie di Evola avevano sancito il superamento ideologico del fascismo italiano (…) ma non avevano creato alcuna idea forza capace di sostituirlo e di rappresentare un’alternativa al mondo presente»18.

    Vinciguerra sottolineava che la rivoluzione fascista, progressista ed ulteriore rispetto a quella francese e a quella sovietica, veniva astrattamente concepita dalle schiere reazionarie neofasciste come rivoluzione conservatrice, o come semplice reazione al massimalismo delle sinistre italiane.

    Dopo la conclusione del progetto politico della Sinistra Nazionale, Fantauzzi si avvicinava al «mensile militante per la comunità nazionalpopolare», “Avanguardia”, di cui apprezzava in particolar modo l’analisi revisionistica del fenomeno neofascista supportata, molto spesso, nelle analisi condotte dal mensile trapanese, dalle elaborazioni di Vinciguerra. Fantauzzi, non a caso, doveva svolgere una relazione sul tema, “Natura e ruolo del neofascismo”, al convegno “Alternativa Rivoluzionaria al Sistema”, svoltosi il 26 maggio 2002 a Civita Castellana: la malattia radicale che poi lo avrebbe condotto di lì a pochi giorni alla morte rese impossibile la sua partecipazione al convegno19.

    La Federazione nazionale, inoltre, non vedeva assolutamente un’antitesi tra il Mussolini socialista marxista ed il Mussolini fascista. Vedeva e sottolineava, come farà lo storico Z. Sternhell20, la continuità rivoluzionaria del giovane Mussolini, che, socialista “esasperato” dal determinismo controrivoluzionario del materialismo storico, realizzava implacabilmente, nella sua storia politica, la visione dell’«avanguardia rivoluzionaria» la quale, imbevuta di «idealismo volontaristico», si poneva come il punto zero del marxismo sperimentato e trasceso in un’ottica idealistica:

    «Marx è definito da Mussolini “il magnifico filosofo della violenza operaia”. Non si può negare che il futuro Duce del fascismo si era fatto, assai precocemente, la fama di barricadiero e blanquista; (…) la campagna anticlericale, di inaudita violenza, che egli condusse nel Trentino, come pure il fatto che portasse fino ad eccessi sanguinosi, in Romagna, le lotte sociali tra braccianti, mezzadri e proprietari, e ancora che, nel 1914, unico dei capi marxisti, difendesse le violenze della “settimana rossa” (…) ma la lotta di classe è esposta a un pericolo (…) il “socialismo degli avvocati”, con la sua predilezione per le trattative parlamentari e la sua accentuazione dell’autonomia dello sviluppo, conduce al “totale rifiuto del marxismo” e quindi alla decadenza (…) Se per comunismo si intende l’ala intransigente staccatasi da quella riformista (…) del partito socialista, Mussolini può essere a ragione definito il primo e da un certo punto di vista, l’unico comunista europeo del periodo (…)»21.

    Ora, è significativo che Gregor non definisca il fascismo un bolscevismo incompiuto, ma, di contro, definisca il leninismo un «fascismo imperfetto»22; nel leninismo, infatti, non è condotto, a differenza dell’attivismo fascista, alle sue estreme conseguenze quel processo di trasformazione volontaristica ed idealistica della parte sana del marxismo; nel leninismo, non a caso, vi fu poco spazio, per la visione totalitaria assoluta dell’identità rivoluzionaria tra Stato ed individuo, tra pubblico e privato23; quando in URSS si arrivava, seppur parzialmente, a sperimentare ciò, si sacrificavano alcuni precetti fondamentali del marxismo classico e con notevole ritardo, si seguiva la strada intrapresa con ben largo anticipo del Duce: «Il fatto è che la società sovietica, come molte delle società che sono state edificate sotto gli auspici dei regimi rivoluzionari di massa, ha assunto caratteristiche che sono manifestamente fascistiche»24.

    Ancora, Augusto Del Noce, al pari di molti storici marxisti -come Otto Bauer e Franz Borkenau, che sottolineavano la natura progressista e rivoluzionaria della via di sviluppo intrapresa dal fascismo italiano-, ha sempre, con molta intelligenza e lucidità, specificato che il fascismo non realizzò minimamente una reazione anti-comunista, nel contesto italiano dell’epoca, ma di contro, attuò una rivoluzione ulteriore al marx-leninismo, addirittura un “inveramento” della parte sana del marxismo, che veniva così liberata dal dogmatismo metafiscistico e materialistico della filosofia di Marx25.

    Fantauzzi riteneva appunto che il fascismo fosse stato il movimento mondiale degli sfruttati, dei disederati, degli esclusi dal “grande banchetto” del capitalismo internazionale. In un suo indimenticabile articolo, comparso nel gennaio 1998 in “Aurora”, Gaspare Fantauzzi aveva infatti ricordato:

    «Per abbattere questo mondo -in cui il 20% degli esseri umani consuma oltre l’80% delle risorse- nacque il fascismo (…) Mussolini è il campione di questa rivoluzione. È necessario perciò estrapolare il fascismo dal contesto della destra conservatrice in cui è stato subdolamente relegato e restituirlo a quello che Mussolini soleva chiamare popolo “proletario e fascista” (…) Per cancellare una volta per sempre lo schiavistico mercato del lavoro, travolgendo tutti gli egoismi e tutti gli edonismi, che permettono la convivenza di obesità e morti per fame (…) Si impone dunque la necessità di rivivificare gli aspetti del Mussolini demitizzato, senza orpelli, del “figlio del fabbro”, dell’uomo che è carne e sangue del popolo, del socialista rivoluzionario che adotta la camicia nera come simbolo di umiltà prima che di coraggio, del campione generoso di un’Italia più giusta e più grande con una missione universale da compiere, dell’ideatore del movimento più giovane e significativo del XX secolo (…); del rivoluzionario che attinse luce interiore ed energia operativa dalle inquietudini, dai fermenti e dalle passioni di intere generazioni, del Capo di Governo che comunica alla Nazione di aver assicurato il pane al suo popolo con la Bonifica Integrale, del Duce sconfitto che fonda la prima Repubblica Sociale della storia e che, infine, di contro alle menzogne partigiane, muore lottando in difesa della sua dignità di uomo.

    È un compito essenziale.

    Nell’opinione pubblica si è gradualmente compiuta la rimozione (…) del Mussolini rivoluzionario (…) Ciò vale anche per le scelte (…) di insegne intenzionalmente surrettizie fatte proprie dai gruppuscoli sorti ai margini dell’MSI: asce, rune, croci uncinate, tutte volte a negare l’ideale innesto del fascismo alla romanità».

    In conclusione, va affermato che la revisione del fenomeno neofascista condotta dalla Federazione Nazionale, oltre ad essere precedente a quella di Vincenzo Vinciguerra, era, per certi versi, anche più radicale. Fantauzzi, in particolare, sottolineava spesso, che l’intera militanza esistenziale, socialista-nazionale, del Duce, era l’antitesi storica, inequivocabile, del «neofascismo atlantico di servizio». Mussolini, nella concezione del mondo rivoluzionaria ed anti-imperialista di Fantauzzi, rimaneva il condottiero della violenza proletaria e contadina, rimaneva il simbolo indistruttibile del patriottismo di popolo, il simbolo stesso delle più significative lotte sociali del popolo italiano. La metafisica della povertà e del comunismo messianico, come superamento storico del capitale, la prassi, solamente attuata, nella storia del XX secolo, nel movimento legionario romeno ed in RSI, del lavoro volontario, la cultura del lavoratore, che abbatte, con l’autoconsapevolezza della forza-lavoro, la schiavitù del capitale e del salario, l’essenza comunistica della concezione dell’eguaglianza di fronte al lavoro, nella realtà immanente del piano, caratterizzato dalla valorizzazione delle differenze tecniche (Ugo Spirito definiva l’esperienza storica fascista un comunismo tecnico), ponevano Corneliu Codreanu e Benito Mussolini quali simboli storici dell’«eterna sinistra».

    Come meravigliarsi, oggi, se gli oppressi del mondo, che un giorno dettero al Duce, e non al leader dei Soviet, il massimo titolo onorifico, la spada dell’Islam, rifuggiranno poi terrorizzati il reazionarismo della destra radicale neofascista? Come meravigliarsi se la concezione mussoliniana, autenticamente comunista, quella della guerra planetaria del sangue contro l’oro, riviveva, seppur brevemente, seppur a livello confuso ed inconscio, nell’intero dopoguerra italiano, soltanto nei proclami rivoluzionari di chi aveva posto all’ordine del giorno il problema storico della liberazione nazionale dallo «Stato imperialista delle multinazionali», e non nei proclami reazionari della destra di tutte le forme ed i colori che agiva con l’occhio fisso alla Grecia, alla Turchia, alla destra razzista nazionalista nord-americana, poi al Cile e, quindi, ad Israele, baluardo dell’Occidente nella lotta mondiale contro il nazionalcomunismo sovietico? Che cosa c’entravano questi pruriti reazionari con Mussolini, autentico figlio del Popolo:

    «La natura, i sentimenti, la sincerità delle idee di un uomo si svelano nei momenti cruciali dell’esistere e Mussolini si è sempre dimostrato, in ogni occasione, un infaticabile servitore del popolo. Chi come lui, appena diciannovenne, avrebbe scelto di vivere volontariamente sulla propria pelle l’estrema indigenza degli ultimi in Svizzera (…) facendo anche lo spaccapietre ed adattandosi a dormire sotto i ponti, per un motivo di carattere ideale: non fare il soldato al servizio di un governo antipopolare? Senza un attimo di tregua, appena tornato a Forlì, si pone poi coraggiosamente al fianco dei braccianti che versano in una condizione di grave emarginazione e ne sostiene la rivolta (…) Per il bene del popolo Mussolini rompe finalmente gli indugi. Il 23 marzo 1919, in un palazzo milanese di Piazza San sepolcro, vara un nuovo movimento politico (…) Fasci si chiamano i gruppi politici di sinistra, fasci di azione rivoluzionaria si chiamano le associazioni di sinistra che sostengono l’entrata in guerra dell’Italia, e fascisti sembra naturale chiamare i componenti del nuovo movimento. La parola fasci fa riferimento al fascio littorio dell’antica Roma, divenuto simbolo della rivoluzione francese come allegoria del popolo unito e del suo potere solare. I rami che si possono piegare ma difficilmente spezzare rappresentano il popolo, la corda che li lega l’unità; l’ascia, il sole. Socialista rivoluzionario, sospettato di bolscevismo dalla polizia, per le elezioni politiche del ’19 propone a tutta la sinistra interventista di presentarsi in un’unica formazione»26.

    Che cosa c’entravano gli istinti reazionari della destra tradizionale con l’Uomo di Stato che, solitario, sostenuto soltanto dall’unità mistica e totalitaria del suo Popolo, sfidava, con una radicale logica rivoluzionaria, nei giorni più intensi e luminosi dell’intera storia italiana, con il suo imperialismo proletario (l’imperialismo proletario tanto diffamato dalla destra aristocratica e/o borghese oltre che, naturalmente, dalla propaganda demo-antifascista, imperialismo proletario che mai avrebbe concesso lo scempio di milioni di bambini e di uomini cinicamente lasciati morire sotto i colpi della cosiddetta “fame strutturale”), l’imperialismo del capitale, dello sfruttamento mondiale, del sovraprofitto imperialistico?

    Non c’entrava e non c’entra niente.

    Infatti, non era stato proprio il Duce a scrivere:

    «Il socialismo “invasione barbarica” è una fantasia marxista, tradizionale. Nel concetto marxista il proletariato si rovescia sulla civiltà attuale -demolendone l’ingranaggio statale, trasformando il modo di produzione economica, capovolgendo la “tavola dei valori morali”.

    (…) Voi credete di mortificarci chiamandoci “barbari” e noi invece siamo fieri della “nostra” barbarie.

    I borghesi di tutte le epoche -dai patrizi di Roma… ai proprietari repubblicani di Ravenna- hanno sempre chiamato “barbari” i ribelli, gli uomini nuovi, gli eresiarchi. Per Roma repubblicana, erano “barbari” gli schiavi di Spartaco che insorsero, pugnarono e seppero morire – per Roma imperiale erano “barbari” i cristiani (…) per la nobiltà, per il clero e per gli ultimi Capeto erano “barbari” gli epici sanculotti che demolivano la Bastiglia (…) E noi gridiamo allora: vivano i barbari (…) i nuovi barbari, coscienti del valore della loro forza, non si faranno più ammansare dai dominatori o dai politicanti, ma creeranno il “loro” mondo, inizieranno la “loro” civiltà”27?

    A 60 anni dalla morte del Duce, osteggiato, calunniato, insanguinato e dileggiato da quegli stessi che avrebbero dovuto esserne i prosecutori, i “neofascisti”, il vero fascismo è la barbarie che avanza.

    Quello incarnato da Fantauzzi fino all’ultimo battito cardiaco. È barbarie in quanto è stato, è, sarà, l’unico vero incubo del mondo. Il “male assoluto”. Mussolini, nel suo “Testamento”, diceva che il fascismo, per la prima volta nella storia, aveva veramente turbato i sonni dei capitalisti e dei grandi speculatori. Nolte, spiega, che fino alla morte, nel Duce, «le finalità del marxismo avevano continuato a vivere»28. Il fascismo è barbarie, incubo perenne della borghesia capitalista mondiale.

    Nel luogo storico del neo-fascismo, quello del golpismo, della violenza gratuita finalizzata alla controrivoluzionaria “soluzione greca”, quello in cui sogna di restaurare il regno borbonico o l’impero austro-ungarico, quello in cui i socialisti come Garibaldi, Pisacane, Cesare Battisti vengono considerati “sovversivi”, ma anche quello in cui migliaia di giovani erano effettivamente convinti di indossare la camicia nera, mentre si ritroveranno, di contro, con quella del carabiniere29, ben visibile era piantata, con un giuramento al Duce che si rinnovava quotidianamente, una bandiera rossa. Dal dopoguerra ad oggi, la bandiera rossa, la bandiera rivoluzionaria ed anticapitalistica della prima Repubblica Sociale della storia, è stata il testamento spirituale ed ideologico del fascismo integralistico della FNCRSI. Inoltre, riguardo il marxismo eretico di Mussolini, basterebbero poche parole per sintetizzare la milizia rivoluzionaria di tutta una vita: «Comunismo al servizio del patriottismo».

    Grazie a Fantauzzi, unico effettivo continuatore, nel dopoguerra italiano, della via rivoluzionaria dei “socialisti reali”: dei Mussolini, dei Bombacci, dei Pavolini, dei Colombo. Dei Codreanu e dei Vasile Marin. Grazie a Fantauzzi, che ci ha insegnato tutto questo.

    Dormi in pace Gaspare Fantauzzi, dormi assieme ai tuoi fratelli, gli innumerevoli martiri della RSI: il tuo sacrificio non è stato vano!

    Luca Fantini
    FNCRSI

    Note:

    [1] U. Spirito, Giovanni Gentile, Firenze 1969, pag. 194.

    [2] R. De Felice, Intervista sul fascismo, a cura di Michael A. Leeden, Bari 1985, pp. 105-106.

    [3] A. Pennacchi, Viaggio per le città del Duce, Milano 2003, pag. 389.

    [4] V. Castronovo, L’industria italiana dall’ottocento ad oggi, Milano 1990, pp. 163-244.

    [5] “Il fascismo è nato come supremo sforzo di un popolo civile…per attuare una forma di comunismo civile. Il comunismo fascista si chiama corporativismo. E qui…si ripresenta il problema uno e bino del fascismo tutto, che è un problema di libertà nel collettivismo, e di collettivismo nella libertà”. C. Pellizzi, Postilla, “Il Selvaggio”, 1 maggio 1932.

    [6] D. Susmel, Nenni e Mussolini, Milano 1969, pag. 250.

    [7] Testo della dichiarazione sociale del Direttorio Nazionale del Partito Fascista Repubblicano, Milano 4.4.1945.

    [8] E. Amicucci, I 600 giorni di Mussolini, Roma 1948, pag. 152.

    [9] La notizia mi è stata fornita dagli ultimi rappresentanti della FNCRSI; Roma, marzo 2004.

    [10] F. Cassata, A destra del Fascismo. Profilo politico di Julius Evola, Torino 2003, pp. 348-350.

    [11] Ancora oggi troviamo qualche neofascista che è disposto ad esaltare il filosionismo e l’anticomunismo atlantista del principe Borghese. A Faccia, 7 dicembre 1970, Perugia 1991, pag. 74.

    [12] U. Spirito, Il comunismo, Firenze 1965.

    [13] E’ uno storico a sottolineare alcuni connotati fascisti presenti nel nazionalcomunismo sovietico; L. Incisa di Camerana, Fascismo, populismo, modernizzazione, in Che cos’è il Fascismo?, a cura di A. campi, Roma 2003, pp. 129-130.

    [14] N. M. Ahmed, Guerra alla verità, Roma 2004, pag. 15.

    [15] Per fare solo un esempio, A. James Gregor, Fascism and the new Russian Nationalism, in “Communist and Post-Communist Studies”, XXXI, n.1, pp.1-15.

    [16] G. Fantauzzi, Recensioni librarie, Archivio FNCRSI, Roma, Luglio 200.

    [17] Corrispondenza privata di Gaspare Fantauzzi, Roma 1997.

    [18] V. Vinciguerra, Ergastolo per la libertà, Firenze 1989, pag. 3.

    [19] L’intervento che Fantauzzi inviò egualmente per l’occasione compariva nel N. 197 di “Avanguardia”, Giugno 2002, pp. 1-2.

    [20] Z. Sternhell, Mussolini: un itinerario ideologico, in, Id., Nascita dell’ideologia fascista, Milano 1993, pp. 271-314.

    [21] E. Nolte, I tre volti del Fascismo, Milano 1971, pp. 229-230.

    [22] A. James Gregor, L’ideologia del Fascismo, Milano 1970, pag. 322.

    [23] Rispetto alla visione totalitaria fascista, si potrebbe addirittura affermare che la visione leninista dello stato è tutta interna ad una dinamica controrivoluzionaria e borghese. Lenin, Stato e rivoluzione, Roma 1970.

    [24] Ivi, pag. 323.

    [25] A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Torino 2004, pag. 304.

    [26] Giovanni Luigi Manco, La città fiorita. Il divenire del socialismo in Mussolini, Parma 1996, pp. 119, 122-123.

    [27] B. Mussolini, Avanti sempre o barbari!, in “Lotta di Classe”, 30 aprile 1910.

    [28] E. Nolte, Ivi, pag. 348.

    [29] V. Vinciguerra, Neofascisti? No, carabinieri, in “Avanguardia”, Settembre 2001, pag. 9.
    Breve storia della Federazione Nazionale Combattenti RSI: | Altermedia Italia
    Chiunque stia dalla parte di una giusta causa non può essere definito un terrorista.
    Yasser Arafat

    Una religione senza guerra è zoppa.
    Ruhollāh Mosavi Khomeyni

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    Predefinito Rif: Breve storia della Federazione Nazionale Combattenti RSI

    L'indirizzo web della FNCRSI


    www.fncrsi.altervista.org/
    Ultima modifica di stanis ruinas; 10-02-11 alle 17:15
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    Predefinito Rif: Breve storia della Federazione Nazionale Combattenti RSI

    Proporrei di inserire in questo thread un pò di materiale dal sito della Federazione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana.


    Articoli, documenti, immagini.


    Inizierò con alcuni scritti dal loro ottimo sito di controinformazione.
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    Predefinito Rif: Breve storia della Federazione Nazionale Combattenti RSI

    50° della Repubblica Sociale Italiana

    1 Dicembre 1943 -1993

    Quando dolorosamente la guerra approdò alla resa dell'8 settembre, inevitabile ma attuata in modo a dir poco criminoso, l'Italia si trovò spaccata in due, e nella parte non occupata dagli angloamericani si costituì la Repubblica Sociale. Che fu Stato sovrano, nella pienezza dei suoi poteri legislativi, esecutivi e giudiziari, e solo dipendente dai tedeschi in quelli operativi di guerra. E fu in grado di tutelare con fermezza la dignità nazionale e l'integrità del territorio, degli impianti industriali, della lira che non patì moneta d'occupazione.

    Secondo qualche pidocchio, alla RSI aderì chi vi era costretto in quanto compromesso col Regime. Chi era compromesso? I giovani volontari? O noi già combattenti, in molti più o meno gravemente feriti, fascisti, non fascisti e antifascisti, uniti dalla necessità morale di schierarci dalla parte perdente e «prender l'armi al grido per l'onore» perché:

    - non si può cambiare nemico come una ragazza volubile cambia il fidanzato;

    - si doveva continuare a combattere contro il nemico vero, il futuro spietato padrone del mondo.

    E fummo solo gli alfieri della dignità nazionale, quasi ignari che vi fossero italiani schierati in senso opposto. Quando dal Brennero affluirono, verso la fine della guerra, soldati italiani già prigionieri in Germania, fummo in grado di abbracciarli fraternamente e ristorarli nel corpo e nell'anima.

    E qualcosa della nostra pulizia morale dovette essere percepito anche da chi non era con noi se il 25 aprile 1945 a Bassano del Grappa, dove forte era il risentimento contro una mai dimenticata rappresaglia tedesca, i nostri reparti che sfilarono cantando per le vie furono coperti da una pioggia di fiori.

    Poesia la nostra. Ma la poesia può essere linfa vitale per la prosa.

    Noi non siamo neofascisti. Nessuno vorrebbe il ritorno in camicia nera. Ma non rinunciamo a preziose eredità quali la coerenza tra il dire e il fare, l'avversione per il supercapitalismo antisociale, l'imperativo dell'onestà.

    E, naturalmente, il patriottismo.

    In una conferenza tenuta una trentina di anni fa all'Università di Roma, Ferruccio Parri affermò: «Ci sono scimmie urlanti che parlano ancora di patria». Noi siamo ancora quelle scimmie e non ci riconosciamo in nessuna delle attuali forze politiche istituzionali, tutte più o meno colpevoli di lesa patria. Siamo consapevoli che non serve riempirsi la bocca della parola patria, ma ci sostiene la speranza di non essere soli, noi repubblichini, a volerne, nella sostanza, la rinascita materiale e morale.

    Gli insorti dei Paesi Bassi contro gli spagnoli furono detti "gneux" in senso spregiativo. E di tale denominazione ("pezzenti") fecero un titolo d'orgoglio e una bandiera.

    Così noi della denominazione repubblichini. Anche se "les gneux" vinsero e noi no.

    Può darsi che la nostra vittoria sia solo proiettata nel futuro.



    Italia - Repubblica - Socializzazione



    Il Comitato Direttivo

    (articolo apparso su "Aurora")







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    Predefinito Rif: Breve storia della Federazione Nazionale Combattenti RSI

    Sempre con noi!







    da “Aurora”, n° 16 (Aprile 1994)



    Bruno Ripanti: presente!



    F. Gaspare Fantauzzi


    Bruno Ripanti fu combattente nelle FF. AA. della Repubblica Sociale Italiana e fu decorato al V. M. sul campo.
    Uomo e capo di uomini, in pace e in guerra, non conobbe indecisione nel compimento del proprio dovere. Nel dopoguerra, si prodigò nell'assistenza di quelli più gravemente mutilati di lui, dei malati, dei carcerati e dei perseguitati. Per lungo tempo fu segretario nazionale della Federazione Nazionale Combattenti della RSI, organizzazione che tenne sempre lontana da compromessi e mercimoni.
    Sotto la sua ferma guida la FNCRSI -fedele ai postulati della RSI- fu il primo raggruppamento di fascisti ad adottare l'opzione di "scheda bianca" e di astensione dal voto, al fine di dimostrare il totale rigetto dell'anacronistico sistema demo-parlamentare e di proporre lo «stato di Popolo», quale più alta forma di democrazia.
    Bruno Ripanti era fascista per vocazione. La sua adesione alla Dottrina e allo stile di vita fascisti aveva origine da un processo in cui s'incontravano armoniosamente spontaneità e razionalità: era fascista, "naturaliter".
    La sua indiscussa onestà intellettuale e la sua profonda coscienza morale erano unite ad una connaturata coerenza pratica. Donde il suo prestigio fra i giovani che alla FNCRSI si accostavano, in quanto degna continuazione della RSI.
    Trenta anni fa, avendo egli fatto diffondere nei licei della Capitale un manifesto contro l'obbligo di svolgere un tema sulla Resistenza, in cui si sosteneva essere l'Italia diventata «una nazione scettica e corrotta», su denunzia partigiana, fu imputato e giudicato in Corte d'Assise per "vilipendio alla nazione", reato attribuito rarissimamente e soltanto a qualche riottoso slavo di confine.
    Fra gli atti persecutori subiti da Bruno Ripanti, quello fu certamente il peggiore, ma quel tema non fu più imposto agli studenti italiani.
    A causa delle intransigenti posizioni assunte dalla FNCRSI in più di una occasione, egli rimase pressoché solo a sostenerle al cospetto di un nemico interamente padrone del campo e a fronte di sedicenti camerati, incapaci di più alta tenuta, quando non addirittura subdoli o prezzolati.
    Dalla convinzione che da un'unica idea politica non possono sortire più opzioni elettorali, nasceva la sua costante lotta ad ogni deviazione e ad ogni patteggiamento con il sistema. In questo contesto, la sua vigorosa azione formativa e informativa fra i combattenti repubblicani attinse a valori di altissima coerenza e fedeltà ideali.
    Infatti, se le tradizioni costituiscono l'anima di una nazione, la sua fede politica ne è la forma spirituale, il tessuto interiore che unisce i cittadini e li rende partecipi di un unico destino storico.
    Bruno Ripanti, nel parlare come nello scrivere, possedeva uno stile asciutto, diretto, penetrante. Era nemico di ogni forma apologetica, ma se un giorno la storia potrà affermare che non tutti i fascisti collaborarono e collusero con l'attuale regime -che disonora la Patria e corrompe i suoi figli- potrà farlo principalmente per merito di Bruno Ripanti e di pochissimi altri che gli furono accanto.
    La sofferenza fisica e morale non erano un mistero per Bruno Ripanti -a 20 anni era già privo di un arto e straniero in Patria- e tuttavia il destino negli ultimi tempi ha voluto che, per il suo lungo patire dovuto ad un male insidioso, egli assumesse l'immagine stessa della più misteriosa figura biblica: quella del «giusto sofferente».
    Dal 16 febbraio '94, Bruno Ripanti non c'è più.
    Ci restano le sue lucide analisi, la sua condotta fiera e dignitosa, la sua profonda intelligenza delle cose della vita e del mondo e la sua grande e severa umanità. Preziosa terremo nel cuore la sua incrollabile fede nel trionfo dell'idea.


    F. Gaspare Fantauzzi




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    Predefinito Rif: Breve storia della Federazione Nazionale Combattenti RSI

    Rileggendo



    Rovistando tra le vecchie carte capita spesso di rinvenire libri, saggi ed articoli dei quali si era persa memoria, anche quando furono determinanti la nostra formazione e le nostre scelte politiche.

    Queste pagine di "Azimut" (quindicinale della Federazione Nazionale Combattenti della RSI), nel rileggerle, hanno rinnovato in noi l'emozione di quei giorni lontani quando, giovanissimi, scoprimmo che esisteva un altro fascismo. Un «Fascismo» speciale, sofferto e vissuto in modo totalmente diverso da quello «nostalgico» e un po' «trombonesco» delle federazioni missine.

    Leggendo "Azimut" e "Corrispondenza Repubblicana" conoscemmo un "Che" Guevara ben diverso da quello che dipingevano "Il Secolo d'Italia" e tutta la stampa e pubblicistica destrorsa; capimmo le ragioni dei Vietnamiti impegnati in una durissima guerra per l'indipendenza e l'unità nazionale. Ci fu spiegato il dramma del Popolo palestinese che la propaganda missina dipingeva come un'accozzaglia di selvaggi terroristi.

    Quelle pagine ci insegnarono che vi era una «certa» differenza tra il fascismo e i militari golpisti dell'Europa e dell'America Latina e che Fidel Castro, Nasser e gli esponenti della Teologia della Liberazione non erano dei «servi di Mosca», ma degli uomini che lottavano per la libertà della loro terra, la dignità ed il benessere dei loro popoli.

    Riproponiamo una di queste pagine, quale doveroso omaggio a coloro che non tradirono se stessi, vissero e vivono la loro «eresia» con la coerenza e l'umiltà proprie di chi ha la certezza di adempiere ad un dovere verso la propria comunità politica e l'intera nazione.











    28 maggio 1972



    Mi è doveroso rivolgere, nell'atto di assumere la Presidenza della Federazione, per designazione della Direzione Nazionale, un cordiale saluto a tutti Voi che mantenete, da ventisette anni, la più alta tensione ideale, come vinti solo dalla spada e non dallo spirito della buona causa.

    Se qualcuno volesse, col furore teologico che contraddistingue tanta parte dello schieramento politico italiano, istruire ancora il processo al nostro passato, noi avvertiamo che il giudizio appartiene, ormai, al tribunale della Storia, il cui metro di valore si flette, da tempo, ad esigenze di pensiero, dal quale rifugge ogni residuo teocratico di popolo eletto o di impero universale, ma anche ogni meccanicistica determinazione di fattori di potenza o mistica del successo.

    Le idee dei vinti affiorano all'orizzonte terrestre della catastrofe umana, prodotta dalla supremazia pragmatica del messianismo economico, per lievitare le speranze del mondo, dal quale nessun livore di parte può estraniarci.

    Vi sono alcune intuizioni storiche, gravide di futuro e risolutive dell'ordine sociale, di cui ci sentiamo depositari e responsabili di fronte alle nuove generazioni italiane ed europee.

    Ma, se qualcuno volesse confonderci con strumenti banali di interessi costituiti o con infantili farneticazioni di servi sciocchi, per avallare il suo pervicace rifiuto alla nostra presenza sulla scena dei destini, prossimi o futuri, della nostra civiltà, avremmo da offrire alcune chiare precisazioni.

    Noi non abbiamo bisogno di fare apologia del regime mussoliniano del ventennio, poiché lo consideriamo un fenomeno irripetibile di potere personale, nel compromesso esiziale con le forze del privilegio e dell'ingiustizia sociale, dei suoi errori siamo i critici più severi e che, comunque, consideriamo storicamente concluso.

    Una ricostituzione del partito nazionale fascista, con strutture di tipo militare o casermiero, provocherebbe, tra le nostre file, sonorosissime risate, ma, se si volesse ipotizzare simile eventualità, l'evento ci troverebbe, inevitabilmente sull'altra sponda, considerando il funesto esperimento del partito unico, mutuato dal bolscevismo, non solo antitetico agli strumenti istituzionali dello Stato di popolo, che noi vagheggiamo, ma uno degli errori contingenti dell'azione mussoliniana.

    Siamo contro l'organizzazione sistematica della violenza civile che lasciamo all'iniziativa dei lazzaroni del capitalismo e delle iene dell'odio di classe, poiché la nostra carica spirituale esclude sia la canagliata privata, che l'oltraggio pubblico.

    Neghiamo, infine, ogni teorizzazione filosofica a giustificazione dottrinaria della dittatura personale e delle caste sociali.

    Ciò per evitare le commistioni arbitrarie e gli scambi d'indirizzo.

    Ma dobbiamo, alle mezzecalzette della cultura, della politica e della stampa, alcune altre indicazioni sulla presenza ideologica delle nostre formazioni.

    Della religiosità dello spirito e, quindi, dell'invarcabile mistero della trascendenza, noi abbiamo un concetto filosofico ed umano, che ci permette di respingere tutte le mitologie e tutte le istituzioni terrene che discendono dai mito.

    Dello Stato di popolo, a correzione di ogni tentativo di identificarlo con forme tradizionali del passato, noi abbiamo un modello ideale che comporta schemi assolutamente e mai realizzati nella storia di tutte le istituzioni del consenso, della rappresentanza e dell'inserimento dell'individuo nella società.

    Della libertà umana, quale momento della piena realizzazione individuale, abbiamo sì alto concetto, da identificarla con lo stesso fine dell'individuazione storica dello Stato.

    Del marxismo noi non neghiamo, anzi confermiamo, in termini originali e categorici, il supremo anelito alla giustizia sociale, ma confutiamo l'errore della sua metodologia collettivista e materialista, pertanto, lo scavalchiamo a sinistra della sua burocratica cristallizzazione di partito, del suo permanente furore persecutorio e della sua infernale gerarchia di setta, per confinarlo nel suo pesante ruolo di comprimario della reazione.

    Siamo per la subordinazione essenziale dell'economia, come necessaria produzione della ricchezza, alle attività superiori dello spirito umano, la cui rivoluzione deve precedere il nuovo assetto delle strutture e degli strumenti istituzionali.

    Siamo per la Storia come contingenza e cioè come svolgimento spirituale, senza disegni provvidenziali e senza dialettiche determinazioni, nel cui alveo la molteplicità degli uomini si convogli come unità di libertà e di giustizia, e, nella congiuntura storica, siamo per un'Europa che ritrovi le vie dello spirito, senza ricadere negli equivoci del suo fanatismo religioso, dei suoi miti nazionali, del suo culto del privilegio, per uno Stato europeo che non concilii temporaneamente gli interessi incancreniti nell'ingiustizia, ma attui definitivamente quella libertà e quella giustizia.

    (...)

    La sinistra marxista, cosciente dell'impossibilità di revocare a breve scadenza l'ipoteca capitalista degli Usa e del consumismo animale, rinnega il suo miglior defunto, che ha lasciato scritto il suo pensiero sull'incompatibilità di progresso proletario e società borghese, e promette, coprendolo con uno sipario di carta e di parole il plotone d'esecuzione alla democrazia e ai partiti.

    La destra nazionale blatera di ordine e di dignità dello Stato, rispolvera macabre alleanze massoniche e tradisce miserevolmente il suo gioco, rispolverando l'inganno corporativo per concludere con l'equilibrio padronale dei costi e dei ricavi.

    In tale prospettiva di confusioni e di falsità, noi portiamo l'annuncio, tutto da svolgere, per la più vasta comunità di uomini, ove il territorio, la bandiera e la popolazione siano concetti superati di un secolo concluso, ma anche i municipalismi ed i razzismi regionali siano residui barbarici di un'epoca medioevale.

    Annunciamo l'Europa, come Stato di popolo, in cui la libertà non sia un mito naturale della spontaneità animale, ma una luminosa conquista morale dell'uomo, come liberazione da tutte le servitù, da attuare per gli altri, con gli altri, nessuno escluso, neanche il peggiore nemico, senza la cui umanità non esiste la nostra umanità.

    Nessuno s'illuda di fabbricarsi un Dio per sé o per la propria tribù.

    Ciascuno registri la propria presenza nel mondo, come limite e condizione, cioè viva in termini di altissima religiosità.



    p. F. Altomonte











    «Italia per bene»

    Giorgio Pini



    Tristemente nostalgica del più grigio passato, la vignetta di copertina di un fascicolo de "il Borghese" presentava due carabinieri in contemplazione di un aulico ritratto di Umberto I, con la didascalia: «L'Italia per bene».

    Queste assurde, incredibili serenate a un tempo che fu e che non tornerà, ispirate all'ottusa concezione dello Stato di polizia, non sono sentite nemmeno da chi le suona per sfruttare ai fini editoriali i deteriori sentimentalismi dei ceti conservatori più chiusi, dei pensionati ancora vaghi delle fallite imprese autoritarie dei Bava Beccaris e dei Pelloux, squallidi eroi dell'Italia umbertina, e per deviare su strada sbagliata le idee dei giovani più sprovveduti.

    Italiani onesti, dotati di civiche virtù, ce ne furono senz'altro in quel periodo spiritualmente e materialmente depresso dopo il magnifico slancio risorgimentale, come ce n'erano stati prima, ce ne furono dopo, ce ne sono, checché ne dicano i disfattisti professionali di oggi, e ce ne saranno domani. Ma resta fermo che l'Italia dell'ultimo quarto dell'Ottocento visse una fase spiritualmente, politicamente, socialmente, economicamente depressa, di paese che stentava a maturare come nazione e a rendere tutti i cittadini partecipi alla vita dello Stato.

    Ai lodatori del passato per diffamare il presente, che non sanno o fingono di non sapere cosa davvero fu quel passato, potremmo rinfacciare autorevoli testimonianze e giudizi degli scontenti di allora. Ma occorrerebbero volumi. Basti ricordare i famosi versi coi quali il Carducci fustigò la classe dirigente sua contemporanea. «Più che ci allontaniamo dalla grande rivoluzione -scrisse Crispi- e più gli animi diventano gelidi, meschini, quasi anti-patriottici». Di ciò fu non meno insofferente Oriani denunciante come reazionaria la monarchia.

    Clamorosi, gravissimi furono gli scandali scoppiati in quell'«Italia perbene», che i borghesi de "il Borghese" vogliono far passare per candido agnello. Nulla, da allora, si è visto di simile allo scandalo della Banca Romana, che coinvolse i maggiori politici del tempo, e sfiorò la Corte. Non parliamo dei brogli elettorali, del trasformismo politico, ch'era il contrario e molto peggio della partitocrazia, delle lotte personali fra notabili condotte senza esclusione di colpi, delle occulte influenze della massoneria in tutti i settori pubblici, burocratici, giudiziari e perfino militari. Fu quella una Italia tutt'altro che da rimpiangere; un'Italia che non meritò affatto poeti come Carducci, Pascoli, e D'Annunzio, come non meritò e perfino misconobbe un Oriani, un Marconi.

    Solo degli snobs discendenti dei «consorti» che per decenni fecero il bello e il brutto tempo, dei «padroni» dalla mentalità feudale, dei baroni latifondisti, degli oziosi salottieri possono rimpiangere quell'epoca di squilibrio economico, di sottoproletariato costretto alla fame o alla emigrazione, di piccola borghesia ridotta cliente della grossa borghesia insaziata di privilegi e di sovvenzioni, arbitra dello Stato, i cui funzionari perseguivano come malfattori quanti si impegnavano in difesa dei diritti del lavoro, e li diffamavano con motivazioni come la seguente a carico di Andrea Costa, arrestato e denunciato «per oziosità, vagabondaggio, e per sospetto di reato contro le persone e la proprietà»: motivazioni che marcano di supremo ridicolo la mentalità di quell'«Italia perbene» e del suo braccio secolare.

    Povera Italia uscita con le «mani nette» dalla conferenza di Berlino, perdente la partita di Tunisi, battuta ad Adua, priva di un programma per il Mezzogiorno abbandonato alla estrema miseria, ma rifiutante a lungo il diritto di sciopero, insidiata dall'opposizione clericale, dalle «questioni morali» che Crispi e Giolitti si rilanciavano. «Solo l'interesse materiale, la borsa, le importazioni e le esportazioni sono diventati il nostro Dio», scriveva nel suo Diario il presidente del Senato Domenico Farini. E se oggi Merzagora lamenta gli eccessi della partitocrazia, allora Farini deplorava invece la mancanza di una netta distinzione fra i partiti, e così dipingeva la Camera dei Deputati dell'epoca: «Una bettola dove trenta energumeni urlano come ossessi, bestemmiano come ubriachi e si impongono col chiasso, col turpiloquio, colle minacce alla grande maggioranza». Aggiungeva: «Come noi abbiamo uno spaventevole disavanzo finanziario, ne abbiamo un altro non meno spaventevole di forza e di rispettabilità militare».

    Ecco serviti gli adoratori dell'Italia umbertina, che sono poi i destrorsi conservatori, autoritari, ossia la più dannosa e tenace gramigna che da un secolo infesta la vita politica nazionale.

    A motivarne la condanna siamo d'accordo con le ragioni esposte da Silvano Spinetti nel suo "Vent'anni dopo - Ricominciare da zero", edito da Solidarismo. «Lo Stato liberal-capitalista -scrive Spinetti- si propone l'assoluto prepotere del potere economico sul potere politico, la subordinazione all'interesse economico di una minoranza del benessere della maggioranza, lo Stato al servizio dell'imprenditore da considerare come l'unico o il più grande benefattore della collettività, presentato come la vittima incompresa o tartassata del potere politico che egli invece indirettamente dirige o pone al suo servizio».

    «Si consideri la storia d'Italia dall'unità all'avvento del fascismo. La storia di uno Stato che, essendo apertamente o dietro le quinte diretto dai liberali o dai possidenti del tempo, fece dell'Italia il paese dove le distanze sociali erano maggiormente sentite. Fra il Nord e il Sud, fra gli imprenditori e i lavoratori. Fra i proprietari terrieri e i contadini. Dove le ricchezze e le terre erano più iniquamente distribuite. Dove si riscontrava il maggior numero di analfabeti e di disoccupati, il minor numero di ospedali, i più scadenti servizi pubblici».

    Questi, non altri, i veri connotati della «Italia perbene» cui si rivolgono i sensi elegiaci de "il Borghese" e la sua frusta apologia ispirata da aprioristica smania di contraddizione al presente, da una presentuosa formula etica, estetica e di costume che va respinta, soprattutto da furbo sfruttamento dell'animo dei farisei «benpensanti» e «uomini d'ordine», individualisti fanatici del più tetragono conservatorismo, dei più gretti egoismi antisociali.

    Ma peggio della speculazione editoriale sul vizio conservatore è la vergogna dei politici monarchici, missini, liberali che si assumono di sostenere in Parlamento non gli interessi della nazione, ma quelli di una classe, sempre di quella, soltanto di quella detentrice del potere economico, mai delle altre, con una tenacia degna di cani da guardia.

    Avete sentito come sono scattati mentre Gronchi confermava le sue vedute sociali al Senato? Nelle loro interruzioni si smascherava uno zelo sfacciato assolutamente unilaterale, e si scopriva la incredibile vocazione al rinnegamento di ciò che di valido resta del passato ciclo politico in tal modo offeso proprio da certuni che pretendono rappresentarlo.



    Giorgio Pini






    FNCRSI
    “Non vi è socialismo senza nazionalizzazione e socializzazione delle industrie” STANIS RUINAS

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    Predefinito Rif: Breve storia della Federazione Nazionale Combattenti RSI

    La destra, il tradizionalismo e noi
    Fabio Calabrese

    Dichiararsi di destra o di sinistra sono due modi per proclamarsi imbecille. Più che un paradosso, è una verità lapalissiana. Consideriamo quel che è oggi la sinistra. L'Italia e l'Europa sono ancora piene di semi-intellettuali (e semianalfabeti), di mezze tacche del pensiero, di nullità della politica che continuano a proclamarsi di sinistra ad un quindicennio di distanza dal crollo dei regimi del "socialismo reale". Eppure il fallimento dell'ideologia marxista, la sua inapplicabilità all'universo reale erano evidenti a chiunque non soffrisse di accecamento -volontario o dovuto a ristrettezza mentale- ben prima di allora. Nell'occidente industriale le classi sociali, contrariamente alle profezie di Marx, tendevano a convergere sempre più verso il ceto medio, mentre nei regimi comunisti, invece della società senza classi stava emergendo una società piramidale di tipo più che feudale, schiavistico, con una ristretta èlite di privilegiati sulla cima ed il popolino sprofondato nella miseria oltre che nell'oppressione, nella mancanza di libertà. La sinistra, molto prima degli anni '80 del XX secolo, era un cimitero di fallimenti.
    La destra se la passava o se la passa meglio? Io direi che la principale differenza è che mentre a sinistra l'idiozia regna sovrana, a destra, invece, l'idiozia regna sovrana. Diciamo la verità: l'uomo è un essere fondamentalmente pigro, e la maggior parte degli uomini farebbe qualsiasi cosa pur di evitare la fatica di usare quella strana escrescenza che ha dentro la scatola cranica. I paraocchi marxisti sono un eccellente modo per evitare la fatica di pensare, ma un modo altrettanto eccellente è rappresentato dalla mentalità di destra o conservatrice. Non è necessario valutare un'idea, una posizione politica, sociale o culturale per cercare di capirne la giustezza o l'errore, basta semplicemente stabilirne la priorità temporale. Questa mentalità si crede "forte" ma è solo ristretta.
    Facciamo qualche esempio. Di fronte al "marxismo ateo" ed ai culti portati in Europa dagli immigrati, l'islam prima di tutto, l'uomo di destra, il conservatore, è "naturalmente cristiano", non perché gliene freghi qualcosa, in definitiva, di quel che predicò o delirò duemila anni fa Gesù Cristo in Palestina, ma come «difesa della nostra identità culturale» perché «è sempre stato così». A parte il fatto che non è sempre stato così, costoro non si avvedono, o fanno finta di non avvedersi che sono proprio le Chiese cristiane, quella cattolica in testa, a spingere per il cosmopolitismo, il meticciato, la compromissione delle basi etniche e culturali dell'Europa.
    Altro esempio: poiché in ordine di tempo il liberalismo in campo socio-economico arriva prima del socialismo, il "destro", il conservatore sarà "liberal" (senza la "e" finale, mi raccomando, tanto per esprimere il debito servilismo verso i padroni d'oltreoceano), laddove occorrerebbe chiedersi come sarebbe possibile per un'eventuale classe politica che volesse essere rivoluzionaria e/o riformare radicalmente la società lasciare intatto il potere economico del grosso capitale, soprattutto finanziario, e come possa uno stato che voglia essere stato-nazione radicato nella coscienza dei propri cittadini, permettere pesanti sperequazioni sociali, avere "figli e figliastri", tollerare una classe di apolidi e zingari di lusso come sono gli appartenenti a quel ceto alto-borghese che sicuramente hanno molto più in comune con i "pari grado" del cosiddetto jet set internazionale che non con i propri concittadini.
    Se il liberalismo aveva aspetti positivi nel XVIII secolo, non ne ha più nell'età presente: riuscite ad interpretare la difesa fatta da John Locke della «proprietà che nasce dal lavoro» come un'arringa a favore di un Lapo Elkann che non ha mai lavorato un giorno in vita sua e sperpera in una sera tra cocaina e travestiti quello che basterebbe ad una famiglia media per vivere un paio di mesi?
    L'errore dei "compagni" non è stato il socialismo ma "l'internazionalismo proletario" che in pratica significava piegare il bene nazionale agli interessi dell'imperialismo sovietico. Un socialismo nazionale, un nazional-socialismo (per carità, tenete ben presente il trattino), mantiene intatta la sua ragion d'essere. Il fatto che una serie di leggi liberticide c'impedisce di chiamarci con il nostro vero nome, ma ci obbliga a ricorrere ad espressioni come "estrema destra" o "destra radicale" ha generato anche fra noi parecchi equivoci. Ad esempio oggi AN sempre più lontana da quel che un tempo fu il MSI, abbandona anche "la destra" e si sposta sempre più verso in centro, presentandosi come un partito neo-democristiano. Cosa cambia questo per noi? Giuda sarà pur libero di scegliersi il sicomoro nel Campo del Vasaio!
    In una serie di scambi epistolari che ho avuto con lui, il nostro Alberto B. Mariantoni ha voluto ribadire più volte un concetto che ha dalla sua la forza e la chiarezza della semplicità: "destra" e "sinistra" appartengono non solo al linguaggio ma alla mentalità, al mondo democratico-parlamentare. Dal momento che noi ci poniamo come ribelli verso questo mondo, questo sistema, questa mentalità, non possiamo essere di destra esattamente come non siamo di sinistra o di centro.
    Se le cose stessero esattamente in questi termini, il discorso potrebbe anche essere finito qui, ma ho il sospetto che stavolta la semplificazione sia un po' eccessiva. Julius Evola, ad esempio, è stato autore di un libro che s'intitola "Il fascismo dal punto di vista della destra" (o più semplicemente, a seconda delle edizioni, visto da destra), badate bene, non "La destra dal punto di vista del fascismo", o simili. Sono sicuro che "la destra" cui faceva riferimento Evola, e nella quale si collocava, non era intesa in senso puramente conservatore, né tanto meno parlamentare. E allora, il termine "destra" può essere assunto come sinonimo di "tradizione"? Sicuramente Evola, collocandosi "a destra" l'intendeva in quel modo.
    Ciò è assolutamente scorretto, dati i legami del termine "destra" con il parlamentarismo (sarebbe come chiedersi, se avete presente l'Assemblea Nazionale uscita dal giuramento di Pallacorda durante la rivoluzione francese, se siamo "di montagna", "di pianura" o "di palude", anzi, quest'ultimo dubbio sarebbe forse più gradevole per le sue similitudini naturalistiche), ma se il grande Julius (perché, riconosciamolo, era un grande, anche se questo non vuole certo dire che fosse immune dall'errore), è caduto in una scorrettezza, riconosciamogli che si tratta di una scorrettezza molto diffusa. Solo che, concedendo che in taluni casi il termine "destra" è usato impropriamente come sinonimo di "tradizione" o di "tradizionalismo" (c'è una differenza fra le due cose che vedremo più avanti di approfondire), non siamo in una posizione molto migliore di prima, perché a sua volta il termine "tradizione" è oggetto di ambiguità non minori. Alcune accezioni di questo termine possono essere più o meno interessanti, magari nell'ambito di un discorso politico rappresentano qualcosa di meritevole non solo di un interesse ma di una tutela in un'ottica di preservazione identitaria, ma non rientrano in un ambito politico in senso stretto, come quando si parla di "tradizioni popolari", dalle leggende alla gastronomia.
    Naturalmente, quello che qui c'interessa è però qualcosa di più attinente alla dimensione etica, politica, religiosa, all'orizzonte dei valori e dei rapporti fra gli uomini. Quanto meno, nell'ambito del tradizionalismo, ci sono due correnti nettamente riconoscibili: quello cattolico e quello che forse impropriamente si può definire esoterico, ispirato a Julius Evola e René Guenon, che si definisce talvolta come "tradizionalismo integrale".
    Riguardo al primo, non possono sussistere dubbi: è qualcosa che va scartato a priori, il tradizionalismo cattolico è una variante del cattolicesimo, che a sua volta è una branca del cristianesimo, e su questo -per dirla in parole povere- non ci piove, rimane dunque una di quelle forme di pensiero semitico-mediorientale in definitiva estranee all'Europa ed alla nostra sensibilità: ebraismo, cristianesimo, islam, marxismo, psicanalisi; sarà forse la più vicina al bordo, ma rimane al di là dell'abisso che separa "loro" da "noi". «Con il cristianesimo siamo diventati spiritualmente semiti», l'ha detto Pio XI, e per dei cattolici la parola di un pontefice dovrebbe essere vincolante. Non basta? Ricordiamo Giovanni Paolo II, secondo il quale i cristiani sono "fratelli minori" dell'ebraismo.
    Julius Evola ha cercato di costruire con molta abilità una specie di ponte fra cose eterogenee: fascismo, "destra", tradizionalismo; e non è nemmeno stato il solo, qualcuno ricorderà la celebre frase contenuta ne "Il mattino dei maghi" di Pauwels e Bergier secondo la quale il nazionalsocialismo sarebbe stato «il guenonismo più le divisioni corazzate» (1), ma se alcuni tradizionalisti sono compatibili con ciò che noi siamo, mentre altri no, allora il discrimine, ciò che realmente fa la differenza, non può essere rappresentato dal tradizionalismo, ma dev'essere qualcos'altro.
    Questo è il primo punto da tenere in considerazione; il secondo è che abbiamo qui a che fare con un'ambiguità doppia, che è connessa proprio alla differenza fra i concetti di "tradizione" e "tradizionalismo". Ambiguità doppia perché non c'è solo la contraddizione fra tradizionalisti cattolici ed "evoliani" o "pagani", ma anche una contraddizione interna a questi ultimi, la cui posizione, lungi dall'essere "forte" od "integrale" si rivela in effetti molto debole.
    In un suo recente scritto, Mario Polia, che è un antropologo oltre che un esponente dell'intellettualità cattolica tradizionale oggi in Italia, mi sembra abbia centrato bene il punto:
    «Una tradizione, del resto, non può essere definita solo in senso negativo, come opposizione ad un'anti-tradizione, ma richiede di essere definita principalmente in senso positivo nei riguardi del messaggio che essa tramanda e dal quale trae il motivo e la legittimazione della propria esistenza. Esiste, inoltre, un "tradizionalismo" in senso lato nel quale si riconoscono appartenenti singoli o gruppi, diversi in quanto a impostazione e tendenze, ma accomunati da un pronunciato antagonismo nei confronti del mondo moderno, delle sue strutture (religiose, sociali, politiche) e della sua cultura (neo-illuminista, edonista, materialista) in quanto ne avvertono fortemente le limitazioni e le aberrazioni. È comune alle varie tendenze del "tradizionalismo" (cultural-politico e/o spiritualista) la tensione verso il recupero di un'identità "spirituale" dai contorni in genere mal definiti, non-confessionale, caratterizzata dal sincretismo in campo religioso e, spesso, da una componente marcatamente anti-cristiana». (2)
    In tutta franchezza, e dispiace che a farlo sia nell'ambito delle due forme di tradizionalismo a confronto, quello che possiamo considerare un avversario, questo si che si chiama mettere il dito sulla piaga! A fronte della tradizione cattolica «definita in senso positivo nei riguardi del messaggio che essa tramanda» (prescindiamo per un momento dal valore di questo messaggio) c'è il «"tradizionalismo" in senso lato» (se non ricordo male le regole della lingua italiana, si usa porre una parola fra virgolette o quando si fa una citazione, o quando si vuole evidenziare il fatto che se ne sta facendo un uso improprio, per cui l'ulteriore specificazione "in senso lato" è pleonastica e l'insieme della frase ha un tono dispregiativo) che consisterebbe più nell'antagonismo rispetto a ciò che si ritiene sia anti-tradizione che in un contenuto positivo, che quando lo si cerca di definire, risulta al più una «tensione verso il recupero» (non il possesso!) di «un'identità "spirituale" (di nuovo virgolettato!) dai contorni in genere mal definiti», un "sincretismo" e chi più ne ha più ne metta.
    Possiamo dire che Mario Polia ha torto perché quello che dice non ci garba? Sappiamo benissimo che ha ragione! Se quello che abbiamo non è "una tradizione" che concretamente si tramanda, ma le suggestioni di un "pensiero primordiale" da ricostruire in via ipotetica, è chiaro che navighiamo nel soggettivismo, nell'astratto, in una «identità da recuperare» «dai contorni mal definiti», nel campato in aria. Da qui il bisogno di molti di poggiare infine i piedi sul terreno solido appoggiandosi ad una "tradizione positiva" che da due millenni in qua non può essere altro che quella delle religioni semitiche, cosa della quale ha dato l'esempio lo stesso René Guenon facendosi mussulmano nell'ultimo periodo della sua vita, ma quanti "camerata Tizio" abbiamo conosciuto che se non sono diventati "don Tizio", non sono poi andati tanto lontani da ciò? Scusate il paragone calcistico, ma cosa ce ne facciamo di centravanti specializzati in autogol? Se quella che sembrava una via maestra ci porta dritto nelle paludi, allora forse è il caso di cambiare strada.
    Torniamo un attimo ad esaminare il concetto di religione: esso ha due aspetti, uno è il rapporto "verticale" di ciascuno con la/le divinità, il destino dopo la morte e tutto quello che volete, e qui siamo in un orizzonte che non ha relazione con la politica, che è affidato alla coscienza di ciascuno e dove da un punto di vista politico non si ha diritto ad entrare; l'altro è l'aspetto "orizzontale" dei sistemi etici, di valori, dei rapporti interpersonali, e quest'ultima dimensione, inutile nasconderselo, non è estranea alla politica. Secondo l'etimologia più diffusa della parola, religio viene da religo, ossia "lego", "collego" (3).
    La religione è ciò che lega gli uomini gli uni agli altri ed il singolo alla comunità attraverso i comportamenti condivisi, il doppio legame rappresentato dai riti e dall'etica comune, almeno questa è la concezione esistita prima del cristianesimo. Nel libro "Gli "adelphi" della dissoluzione" del giornalista Maurizio Blondet è riportata un'intervista con il filosofo-sindaco di Venezia Massimo Cacciari, ed il suo contenuto è davvero sorprendente, considerati soprattutto il taglio culturale e la visione ideologica sia dell'intervistatore sia dell'intervistato (Maurizio Blondet è noto soprattutto come autore di "Auto-attentato in USA", un libro-denuncia sull'11 settembre 2001, e come impostazione culturale è un cattolico tradizionalista. Massimo Cacciari, maestro del "pensiero debole" assieme a Gianni Vattimo, non credo abbia bisogno di presentazioni).
    «Per cominciare [va] sgombrato il campo dall'abuso, dalla ripetizione a vanvera del termine "etica". Ethos, o per i latini Mos, non è affatto ciò che noi oggi intendiamo per "etico" o "morale". Ethos non indicava comportamenti soggettivi; indicava la "dimora", l'abitare in cui ogni uomo si trova alla nascita, la radice a cui ogni uomo appartiene. In questo senso, un greco non era più o meno "etico" per sua scelta o volontà. Egli apparteneva a un ethos. A una stirpe, a un linguaggio, a una polis. Che non era stato lui a scegliere (...). Ogni società tradizionale ha, o meglio è, un ethos. Ogni società tradizionale, come un albero rovesciato, ha la sua radice nella legge divina, nel nomos. La legge della polis, dice Erodoto, è l'immagine di Dike [la dea della Giustizia]. Un ethos impone all'uomo valori che non è lui a scegliere, a decidere, ma a cui appartiene. Ma in Europa questa appartenenza è entrata in crisi quasi fin dall'inizio. Per l'uomo europeo è venuto molto presto il tempo della frattura con l'ordine degli Dei, il tempo della de-cisione. L'ethos era già in crisi profonda con l'Ellenismo, "cosmopolita" ossia sradicato. "E duemila anni fa, l'ethos ha cessato completamente di esistere". Il Cristianesimo è stato dirompente rispetto ad ogni ethos" (...). Il Cristianesimo non ha più radici in costumi tradizionali, in una polis specifica, in un ethos; non ha più nemmeno una lingua sacra (...). Il Cristianesimo si rivela essenzialmente sovversivo dell'Antichità e dei suoi valori; che esso spezza definitivamente i legami fra gli Dei e la società. L'ethos antico era una religione civile (...). Il Cristianesimo, consumando la rottura con gli dei della Città, sradica l'uomo (.). Uno stato doloroso: il Cristianesimo getta l'uomo nella libertà come un naufrago è gettato in [un] mare in tempesta». (4)

    Credo che raramente un "maestro della Tradizione" o presunto tale abbia centrato il punto con la stessa efficacia di Cacciari. La dissoluzione dell'Ethos come legame sacrale-comunitario: questo è l'effetto più tipico del cristianesimo, il suo "marchio di fabbrica". Occorrerebbe soltanto aggiungere che "la libertà" nella quale il cristianesimo «ha gettato l'uomo come un naufrago in un mare in tempesta» è soltanto apparente. Ad un sistema di fedeltà verso la propria civitas, la stirpe, le tradizioni, gli dei patri, il cristianesimo sostituisce l'esigente obbedienza a se stesso, a coloro che si presentano come i rappresentanti terreni della divinità che, in quanto portatori del messaggio divino si sentono legittimati ad usare i mezzi più spietati per imporlo, secondo la stessa prassi tirannica, omicida e genocida che sarà poi ripresa dalle moderne filiazioni del cristianesimo, il giacobinismo ed il bolscevismo. Occorre davvero fare l'elenco delle vittime della "libertà" cristiana da Ipazia a Galileo? Più chiaro di Cacciari, forse è stato solo Jean Jacques Rousseau che con il suo mito del "buon selvaggio" avrà anche inventato una favola delirante dalle conseguenze nefaste, ma sul cristianesimo aveva capito tutto: «Il cristianesimo separa l'uomo dal cittadino».
    Il punto è proprio questo, la separazione dell'uomo dal cittadino, inconcepibile nella grecità classica o nella Roma repubblicana, meglio ancora l'introduzione di un doppio sistema di fedeltà e di valori perennemente in conflitto, la lacerazione fra "l'etica" cristiana (caricatura dell'Ethos antico) ed i valori civici. Gli aspetti aberranti della modernità non sono altro che le estreme conseguenze della rivoluzione cristiana. Stavolta non sono René Guenon o Julius Evola a dircelo, ma sempre Massimo Cacciari: «Tutta la cultura cristiana è un correre ai ripari contro la tragedia che ha provocato, una tensione disperata a riparare il pericolo che viene dalla frattura tra la Città di Dio e la città dell'Uomo (...). La secolarizzazione totale che viviamo [è] figlia della sovversione originaria operata dal Cristianesimo (...). Lo spirito estetico-economico borghese non tollera di essere messo in discussione; non ammette di poter essere superato". (...) Verso ciò che è esterno ai suoi "valori" non ha pietà".
    E mi elencò i genocidi liberali: a cominciare dallo sterminio dei Pellerossa. «I Pellerossa erano radicati nel loro ethos, e l'americano vedeva nel loro ethos un sistema di non-libertà. Lo sterminio delle società sacrali, degli ethoi tradizionali, è prescritto dal liberalismo per il "bene" stesso dell'uomo». Per sradicare il Giappone dal proprio sacro nomos, non ci volle nulla di meno che l'olocausto nucleare. Migliaia di tonnellate di bombe furono necessarie per stroncare Fascismo e Nazismo, «forme di neopaganesimo che cercavano di ricollegare la società a un Ethos» (5).
    In realtà, nelle cose affermate da Cacciari non c'è nulla di assolutamente nuovo, semmai la novità consiste nel trovare simili parole in bocca ad un intellettuale di sinistra (e se queste sono le sue convinzioni, non si capisce bene quale altro motivo, tranne l'opportunismo, gli imponga di collocarsi in quell'area politica). Già Niccolò Machiavelli si era espresso in termini elogiativi verso le antiche religioni pagane che consolidavano il senso di appartenenza del singolo alla comunità, tenevano uniti l'uomo ed il cittadino invece di scindere le due cose. Proprio per questo motivo, il cristianesimo non si può considerare religio, ma solamente ciò che conserva i segni esteriori, superstiti, residuali del sacro, pur avendone smarrito il significato e la funzione, in una parola, superstitio. Occorre essere chiari ed onesti: nessuno può pretendere di avanzare prove certe dell'esistenza di un destino ultraterreno e di quale esso sia, e nemmeno l'ateo può dimostrare la sua convinzione negativa al riguardo. Ciò che interessa ai fini del nostro discorso è altro: la religione come datrice della morale, i sistemi di valori (o di disvalori) che reggono (o affossano) le comunità umane. Se la sopravvivenza individuale post mortem resta nella migliore delle ipotesi una speranza estremamente vaga, allora è sulla sopravvivenza di noi stessi nell'orizzonte mondano come traccia culturale e come impronta genetica, che dobbiamo puntare l'attenzione.
    A differenza del cristianesimo, le antiche religioni pagane svolgevano entrambe le funzioni, poiché, oltre a mantenere una speranza ultraterrena, si prendevano cura della permanenza nel tempo delle comunità assieme all'Ethos, al Nomos che esse incarnavano, mentre la strada indicata dal cristianesimo è, in termini culturali ma soprattutto genetici, quella del suicidio, cosa tanto più pericolosa oggi, in un momento il cui l'Europa si trova come mai in tutta la sua storia, a causa del decremento demografico degli Europei nativi e dell'immigrazione, esposta al rischio della cancellazione delle proprie basi culturali, ma soprattutto etniche per effetto del meticciato, dell'imbastardimento, oltre che della proliferazione cancerosa di comunità d'immigrati che sono delle enclave di non-Europa. Che "lo scopo" fondamentale di ogni vivente, scopo inconscio nella maggior parte delle creature, ma che noi come esseri senzienti possiamo decidere di perseguire consapevolmente oppure di pervertire, sia la preservazione e la propagazione dei propri geni nelle generazioni future, che la vita in tutta la sua bellezza, ricchezza e complessità si sia costruita a partire da inizi rudimentali grazie alla selezione derivante dalla competizione fra i diversi genomi, sotto la pressione di un ambiente implacabile con i deboli ed i rinunciatari, queste non sono certo cose che scopro io adesso.
    Io sono spiacente ma, come dice il proverbio, «medico pietoso fa la piaga verminosa», e devo qui citare una parola che ha il potere di gettare nel disgusto, nell'irritazione, nel panico i nostri conservatori, "destri" e tradizionalisti, tutti coloro che sono convinti di avere una Weltanschauung forte solo perché hanno una mentalità ristretta: evoluzione. Comunemente, sia "a destra" sia "a sinistra" si ha la sensazione che l'evoluzionismo sia «una cosa di sinistra». Il fatto è che "destra" e "sinistra" sbagliano alla stessa maniera sul medesimo punto, confondendo il concetto di evoluzione con quello di progresso, anche se poi alla risultante di questo malinteso appiccicano reazioni emotive opposte.
    Per capire quanto ciò sia erroneo, basterebbe considerare semplicemente la scala dei tempi: un homo sapiens anatomicamente moderno, non distinguibile da noi, esiste su questo pianeta da qualcosa come 50.000 anni (la stima più alta fissa intorno ai 100.000 anni la comparsa della nostra specie, la più bassa la situa intorno ai 16.000 anni, con la comparsa dell'uomo di Cro Magnon in Europa); quando noi invece parliamo di progresso, parliamo di un mutamento culturale e non biologico iniziato all'interno della cultura europeo-occidentale nel XVIII secolo con la rivoluzione industriale od al massimo nel XVII secolo con la rivoluzione scientifica. A sua volta, la nozione di progresso è ambigua e contraddittoria, al punto che si potrebbe dire che è uno di quei concetti che non esistono in quanto corrispondenti ad un oggetto reale, ma soltanto il ragione di una strumentalizzazione politica. Si considera assodato che esista una relazione fra progresso scientifico e tecnologico (il solo ambito nel quale l'utilizzo della parola "progresso" appare pienamente legittimo) e sviluppo del rispetto dei diritti umani, delle libertà civili della giustizia sociale e via dicendo, e tutto ciò è messo in relazione con "l'essere a sinistra" al punto che, molto spesso, nella terminologia inconsistente dei dibattiti politici, "di sinistra" e "progressista" vengono spesso usati come sinonimi intercambiabili. Ora, questo è, per usare la terminologia della giurisprudenza, un vero e proprio abuso della credulità popolare.
    Nella storia dell'Europa moderna, sviluppo scientifico e tecnologico e progresso dei diritti umani e delle libertà civili sono storicamente associati, ma è tutto da dimostrare che fra le due cose esista una connessione intrinseca: le polis greche antiche ed i Comuni italiani del Medio Evo ci mostrano la crescita delle libertà civili in assenza di sviluppo tecnologico, e d'altra parte la storia del comunismo nel XX secolo ci mostra chiaramente che allo sviluppo scientifico e tecnologico può non corrispondere una progressione delle libertà civili e dei diritti umani, ma che può avvenire esattamente il contrario.
    Ma il punto più importante è che, impadronendosi del concetto di progresso in questa maniera, la sinistra (che presume automaticamente ma si esime assolutamente dal dimostrare di essere dalla parte delle classi lavoratrici) ha compiuto una vera e propria, gigantesca appropriazione indebita.
    Consideriamo i Paesi del "socialismo realizzato" nei tardi anni '80, prima che il tipo di regimi che li governava si dissolvesse sotto il suo stesso peso, sotto il peso di un fallimento che ha ben pochi o nessun uguale nella storia. Con quale incredibile faccia di tolla la sinistra internazionale osava presentare quei regimi elefantiaci come "progressisti", come "democrazie popolari" (questo era il ridicolo eufemismo allora in uso!)? Si trattava di autocrazie elefantiache dove nessuno godeva di nessun diritto, eccetto l'élite dirigente al potere, e molto arretrate rispetto all'Occidente "capitalista" anche dal punto di vista tecnologico, capaci solo di distribuire ai propri sudditi oppressione e miseria. Dov'era "il progresso" qualunque cosa questa parola volesse significare?
    Una volta liberatici dall'equivoco "progressista", vediamo che l'evoluzionismo correttamente inteso dal punto di vista scientifico-biologico, non solo non fornisce alcun appiglio alla mentalità di sinistra, ma ne è la più bruciante sconfessione. Nulla quanto il ruolo creativo della selezione naturale che attraverso la lotta incessante costruisce i tipi più elevati, può essere messo alla base di una visione aristocratica della vita, la giusta risposta, come già osservava Friedrich Nietzsche, alla predilezione cristiana per tutto ciò che è debole, deforme e malriuscito.
    Parliamo del più deleterio mito marxista, quello dell'internazionalismo proletario. Da cosa se ne può dedurre l'infondatezza meglio che dalla competizione fra genomi simili, dalla tendenza insita in ogni vivente a trasmettere il proprio patrimonio genetico, che viene piuttosto a convalidare quelle "brutte cose" che nell'ottica progressista si chiamano "nazionalismo" e perfino "razzismo"? Vogliamo credere che sia più coerente con la nostra visione del mondo in termini sociali e politici un cascame di anacronismi morti e sepolti, oppure, come effettivamente è, i risultati di un secolo e mezzo di ricerca in campo biologico? Vi ripugna l'idea di discendere dalle scimmie? A parte il fatto che nelle questioni di conoscenza le nostre reazioni emotive non hanno il minimo valore, io trovo più ripugnante prostituire la propria intelligenza mettendosi al livello dei Testimoni di Geova, perché, volendo respingere l'idea evoluzionistica, alla fin fine non c'è alternativa al creazionismo, ossia proprio a quel monoteismo semitico di cui ci volevamo liberare. Cerchiamo di essere sinceri, di essere veramente sinceri, di non tenere compartimenti stagni fra le parti della nostra cultura e della nostra esperienza: l'idea cristiano-biblica di un Dio creatore, di un "padre celeste" era certamente più credibile qualche secolo fa, quando non conoscevamo le reali dimensioni dell'universo ed era più facile credere che esso fosse tutto gerarchizzato intorno a noi ad opera di una Causa Prima simile a noi, «a nostra immagine e somiglianza». A paragone, oggi torna ad essere più credibile il paganesimo con le sue divinità "piccole" e "terrestri" da un lato, dall'altro con la sua concezione del Fato come forza impersonale, trascendente ed imperscrutabile, al punto che potremmo giudicare il monoteismo di origine semitica come un gigantesco abbaglio durato duemila anni.
    La ripugnanza che molti provano all'idea di «discendere dalle scimmie» è la ripugnanza ad ammettere che l'uomo fa parte del mondo naturale, è il marchio più evidente che il cristianesimo ha lasciato su di noi, o su molti di noi, ma questa concezione schizofrenica non si limita a tracciare barriere fra l'uomo ed il resto della realtà naturale, le deve tracciare anche all'interno dell'uomo stesso demonizzando le "parti animali" del suo essere, a cominciare dalla sessualità.
    Contro queste aberrazioni valga in primo luogo la grande, fulminante oserei dire, risposta di Friedrich Nietzsche. I piccoli, i mezzi pensatori saranno sempre pronti a stravolgere il pensiero dei grandi a misura dei loro pregiudizi. Un ex-scienziato, Giuseppe Sermonti, fratello fra l'altro di uno dei mini-leader che pullulano nel radicalismo di destra, Rutilio Sermonti, ed autore di un libello antievoluzionista, "La luna nel bosco", ha prodotto qualche tempo addietro uno scritto, "Nietzsche contro Darwin", il cui tema è stato poi riproposto in diverse conferenze.
    Friedrich Nietzsche, filosofo del nichilismo aristocratico è forse l'unico pensatore di grande levatura che "la destra" possa in qualche modo attribuirsi, sebbene il suo franco ateismo, il suo rifiuto di ogni trascendente indimostrabile la metta costantemente in imbarazzo. Nietzsche era un antievoluzionista?
    Se noi vogliamo partire dal presupposto che gli scritti di un pensatore servono per rendere noto il suo pensiero e non per nasconderlo, proprio non si direbbe; se leggiamo quello che è forse lo scritto più famoso di Nietzsche, "Così parlò Zarathustra", uno dei suoi brani più noti, il Discorso di Zarathustra al mercato, troviamo:
    «Tutti gli esseri crearono qualche cosa che sorpassa loro stessi: e voi volete essere il riflusso di questa grande marea, e tornare piuttosto al bruto che superare l'uomo? (...) Voi avete percorso la strada che porta dal verme all'uomo, ma molto c'è ancora in voi del verme. Una volta eravate scimmie, e ancora adesso l'uomo è più scimmia di tutte le scimmie». (6)
    Che strano, sembra proprio di sentir parlare un evoluzionista! «Un'idea moderna, quindi un'idea falsa», così la pensano i campioni del conservatorismo e del tradizionalismo, ma se non vogliamo cadere nella semplificazione volta a sostituire la riflessione sul significato delle idee con il semplice stabilire la loro priorità temporale, dobbiamo distinguere fra le concezioni che sono la "seconda fase" della rivoluzione cristiana (o della perversione cristiana): democraticismo, egualitarismo, progressismo, marxismo, da quelle che nascono invece dall'ampliamento delle conoscenze che la rivoluzione scientifica ha portato con sé, ed allora potremmo trovarci di fronte a delle sorprese, come il fatto di scoprire che l'evoluzionismo non è affatto un'idea moderna, ma s'incontra con gli esiti di un antico pensiero naturalistico che il cristianesimo ha cancellato dalla cultura europea.
    Allora, studiando la filosofia antica, ci accorgeremo che quella linea di pensiero che attraverso Socrate, Platone ed Aristotele va infine a sboccare nella filosofia cristiana è una sorta di deviazione dal pensiero filosofico più antico, forse spiegabile con il fatto che con Socrate siamo già in un'epoca tarda, di decadenza delle polis, posteriore alla guerra del Peloponneso, e lo scopo della filosofia non era tanto conoscere la verità quanto offrire consolazione; ad esempio, l'abbandono della più moderna e più esatta teoria astronomica eliocentrica già sostenuta dai Pitagorici a favore del ritorno al geocentrismo compiuto da Aristotele, potrebbe essere interpretato come espressione del bisogno di sottolineare la centralità del mondo umano rispetto a quell'orizzonte naturalistico nel quale la più antica filosofia greca si era invece mossa. Dopo Talete, il filosofo greco più antico, di cui non ci è stato tramandato nessuno scritto, incontriamo il suo discepolo Anassimandro che ci si presenta con un pensiero -purtroppo un frammento- di notevole spessore:
    «Da dove le cose hanno origine, là esse ritornano. Morendo, i viventi pagano l'uno all'altro il fio dell'ingiustizia commessa vivendo».
    Analizzando i concetti espressi, vi troviamo una grande complessità: la vita, l'esistenza, prima di tutto è ciclica; inevitabilmente, prima o poi, ogni cosa deve ritornare a quel nulla, a quel non essere originario dal quale è emersa. Vivere, in secondo luogo, significa commettere ingiustizia, la vita si nutre di altra vita per poter esistere: gli animali erbivori si nutrono di piante, i carnivori di erbivori. Vivere significa causare e patire dolore. Lo si riconoscerà, siamo molto vicini al concetto darwiniano di lotta per la vita, ed alla visione di una natura che non ha alcuna misericordia per coloro che soccombono. Sarà un'opinione personale, ma a me sembra di cogliervi anche -come dire- un'eco anticipatrice del concetto esistenzialista di Kierkegaard per il quale "esistere" è un "ek-sistere", un "porsi fuori" dall'indifferenziato grembo del non essere, l'esito di una sorta di ribellione e quindi in un certo qual modo compiere un'ingiustizia.
    Vista da una certa distanza la vita è equilibrio, è armonia, ma considerato da vicino "il cerchio della vita" è assai meno idilliaco di quanto non reciti la pellicola-favola de "Il Re Leone". Non possiamo immaginarci una gazzella che, caduta sotto gli artigli di un grosso felino, riesca ad apprezzare l'equilibrio e l'armonia superiori che portano alla sua morte, nel momento in cui questi la sta sbranando. Io direi che qui sono avvertibili anche le somiglianze con il pensiero indiano e buddista: la vita come violenza ed il desiderio, l'istinto vitale come causa di sofferenza, che a sua volta costituisce un karma che andrà espiato, e ci dà l'impressione di essere molto vicini ad un originario fondo di pensiero indoeuropeo ma c'è ancora una cosa che va notata a questo riguardo. Talete, Anassimandro e tutti gli altri prima di Platone non si definivano, non erano chiamati filosofi, ma sofoi, saggi oppure fisiologoi, studiosi/conoscitori della natura.
    Il termine filosofo, filo-sofos, amante della conoscenza, è introdotto da Platone, ma facciamo attenzione, ci spiega il grande studioso della cultura greca Giorgio Colli, se questo termine in Platone significa ancora la ricerca di una conoscenza perduta da ritrovare, è con Aristotele che esso assume il significato della ricerca di una conoscenza nuova, mai da nessuno posseduta, che il filosofo inventa grazie alla forza del suo ingegno. È a partire da Aristotele, quindi a trapasso concluso dalla civiltà classica all'ellenismo, che il termine "filosofia" assume il significato che le diamo oggi, di elaborazione mentale personale astratta, talvolta frivola, perché -come faceva osservare Cicerone- tra i filosofi ha maggior reputazione chi inventa un'assurdità nuova che chi ripete una verità detta da altri.
    Fino ad allora, i sofoi o fisiologoi erano delle scuole, delle comunità di saggi che si trasmettevano attraverso le generazioni un sapere condiviso, riguardante sia gli insegnamenti etici sia la conoscenza del mondo naturale, in modo sostanzialmente analogo ai druidi ed alle scuole vediche dell'India. Riconosciuta la tragicità dell'esistenza, possiamo cadere nel pessimismo paralizzante di Kierkegaard, oppure accettarla, poiché essa è il prezzo necessario della bellezza e della gioia; è questo lo spirito del nichilismo aristocratico di Nietsche, ed è l'unica filosofia compatibile con il pensiero evoluzionista e con il ruolo creativo che esso assegna alla dura legge della selezione naturale.
    Tornando ad Anassimandro, le analogie con il pensiero evoluzionista sono più forti di quel che crederemmo: non solo il senso della vita riposto nell'ineludibile lotta per la sopravvivenza, ma, di più, l'idea che l'uomo deve discendere da antenati non umani, poiché, essendo il cucciolo dell'uomo totalmente inetto, a differenza di quelli di molte altre specie, come avrebbero fatto altrimenti i primi uomini a sopravvivere durante l'infanzia? Inoltre, seguendo probabilmente in questo l'insegnamento del suo maestro Talete che sosteneva essere l'acqua l'arché, il principio di tutte le cose, egli riteneva che la vita terrestre avesse avuto antenati acquatici. Tuttavia il pensatore che ci dà più di ogni altro l'impressione che i venticinque secoli che lo separano da Darwin e da Nietzsche siano stati una lunga e tutto sommato improduttiva digressione, non è Anassimandro, ma Eraclito, il grande Eraclito che fu forse suo discepolo, e del quale Nietzsche disse di «mettere a parte il nome con venerazione».
    Eraclito fu detto dai suoi contemporanei skoteinos, "oscuro", poiché, esattamente come Darwin e come Nietzsche, parlava un linguaggio talmente chiaro da indurre i più a preferire di non capire. Eraclito è noto come il filosofo del panta rei, del "tutto scorre", del «non ci si bagna due volte nello stesso fiume, perché l'acqua nella quale ci eravamo immersi la prima volta è già scorsa a valle», ma è soprattutto il pensatore che vede il mondo, nella sua essenza, basato sul conflitto, sull'antagonismo, la lotta, l'equilibrio dinamico di tensioni opposte, che scrive che «Omero ed Esiodo, che pregano gli dei di dare la pace al mondo, non sono consapevoli di pregare per sua morte». Egli fa il paragone dell'arco che, in quanto tale, esiste soltanto perché le opposte tensioni della corda e dell'asta sono in equilibrio; se prevale la tensione della corda e l'asta si spezza, non avremo più l'arco ma una corda con due pezzi di legno alle estremità; se prevale la tensione dell'asta ed è la corda a spezzarsi, avremo invece un bastone con alle estremità due funicelle. Eraclito non si ferma a questo: il conflitto fra tensione antagoniste, la guerra, la competizione, non solo mantengono l'equilibrio del mondo, ma, e qui pare veramente di leggere Darwin con venticinque secoli di anticipo, hanno un potere creatore, sono il potere creatore, egli scrive: «La guerra è madre e regina di tutte le cose». Subito dopo egli sposta l'attenzione dalla realtà naturale al mondo umano, aggiungendo: «Di alcuni essa fa degli uomini, di altri degli dei».
    Su questo punto è necessario essere molto chiari e non prestare il fianco ad equivoci. In altre epoche, quando la guerra non era, come oggi, l'assoluto dominio della tecnologia, quando l'abilità ed il coraggio dei combattenti contavano più del potenziale distruttivo, del livello tecnologico degli armamenti, essa poteva trasformare i ragazzi in uomini e gli uomini in eroi. Oggi certamente non è più così; nella nostra epoca non ci sono più guerrieri, ma le guerre non sono scomparse ma hanno, se possibile, ampliato indefinitamente la loro brutalità e distruttività. Ciò non è avvenuto solo in conseguenza dell'evoluzione tecnologica degli armamenti, ma anche di una precisa "filosofia" bellica. I nostri antenati avevano un'idea di conflitto "leale" che prevedeva una sostanziale parità dei combattenti ed il fatto di tenere gli inermi quanto più possibile fuori da esso. Questa concezione è stata ribaltata dalla comparsa sulla scena mondiale degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica.
    La "filosofia" bellica degli Stati Uniti non tende ad evitare, ma prescrive il massacro di civili inermi come metodo per demoralizzare la resistenza avversaria, e per creare una situazione che assicuri morti tendenzialmente zero alle proprie truppe e morti tendenzialmente infiniti all'avversario. Questo concetto bellico fu ampiamente sperimentato nella seconda guerra mondiale con bombardamenti che fecero quattro milioni di morti fra la popolazione civile in Europa e che possono essere a tutti gli effetti considerati un genocidio, non un crimine di guerra ma un crimine contro l'umanità e, per citare di nuovo Cacciari, «niente di meno dell'olocausto nucleare» contro il Giappone, ma è importante notare che nel XIX secolo, quando ancora in Europa si credeva ad un'idea di guerra "leale" e tutto sommato romantica, gli Stati Uniti procedevano allo sterminio, al genocidio degli Americani nativi, i cosiddetti "Pellirosse" che avevano la colpa di abitare i territori che gli yankee andavano occupando, qualcosa come cinque milioni di persone.
    Un uguale contributo all'imbarbarimento dell'idea stessa di conflitto è venuto dai Sovietici sinistramente animati dal comunismo, ideologia assassina di per sé. Noi non abbiamo dati precisi, ma sappiamo che prima della seconda guerra mondiale vivevano nelle terre ad est dell'Oder quindici milioni di tedeschi, la cui presenza è stata cancellata dall'Armata Rossa. Dopo il conflitto, sono stati contati dodici milioni di profughi, ed i tre milioni che mancano all'appello? Con ogni probabilità hanno fatto la stessa fine degli Italiani massacrati sulla sponda orientale dell'Adriatico dalle truppe del maresciallo Tito, qualcosa come 80-100 mila persone secondo le stime più attendibili. La guerra moderna, quindi, è qualcosa di molto diverso rispetto a ciò cui pensava Eraclito. Tanto più che oggi che le guerre non sono decise in alcun modo dalla superiorità fisica o genetica dei contendenti ma esclusivamente dal loro livello tecnologico, esse non esercitano alcuna funzione selettiva, ma sono esclusivamente distruzione indifferenziata.
    Ad ogni modo, dovremmo ammirare la grande intuizione circa il ruolo creativo della lotta per l'esistenza che precorre Darwin di due millenni e mezzo, concepita senza disporre dei metodi d'indagine della scienza moderna, ma probabilmente frutto di una conoscenza empirica, di una protratta familiarità con il mondo naturale che noi, civilizzati ed auto-addomesticati (direbbe Konrad Lorenz) uomini moderni non riusciamo più, perlopiù, ad avere.
    «Idee moderne, dunque false» apparirebbero piuttosto il creazionismo e la netta separazione fra essere umano e mondo naturale approdati in Europa con il cristianesimo oltre mezzo millennio più tardi.
    Io credo che nessun'altra concezione del mondo, nessun'altra Weltanschauung possa ricevere un avallo così esplicito dalla conoscenza scientifica, la preservazione della comunità nazionale intesa come identità etnica, comune genoma, Volksgemeinschaft e lo spirito della selezione che sta all'opposto dell'adorazione cristiana della deformità, della malattia, della bruttura, di tutto ciò che è malriuscito. Sono concetti che bisognerebbe avere estremamente chiari nel momento in cui la nostra identità etnico- biologica è minacciata dall'immigrazione, e la nostra identità culturale è sottoposta al doppio attacco del fondamentalismo islamico ma anche ed ancor di più, perché non ci aggredisce da fuori dai nostri confini, del simmetrico fondamentalismo biblico "neo-conservatore" oggi emergente negli USA, che non a caso vede nel darwinismo uno dei suoi bersagli preferiti. Ciò nonostante, non preferiamo accantonare ciò e ricorrere a vaghe suggestioni spiritualiste; scusate tanto, ma è come se avessimo nel nostro arsenale un potente pezzo d'artiglieria ma preferissimo scendere in battaglia con le fionde! I vagheggiatori di vaghi spiritualismi, che purtroppo abbondano fra i conservatori, i tradizionalisti, le file della "destra", qualunque cosa ciò significhi, potrebbero obiettare che ciò non sia altro che un "razzismo" od un "materialismo biologico" od un "biologismo materialista"; ebbene, in tal caso, costoro non hanno capito nulla, poiché «razza non è altro che spirito visto dall'esterno, così come "spirito" è razza vista dall'interno». (A. Rosenberg)
    In un recente saggio apparso su "Thule Italia", "Origine del monoteismo e sue conseguenze in Europa", Silvano Lorenzoni e Gianantonio Valli hanno scritto che sostituire all'esperienza del sacro la "fede in Dio" è come sostituire un arto vivente con una protesi. (7)
    Si può essere d'accordo a patto di comprendere cosa si debba intendere per "esperienza del sacro": escludendo la dubbia casistica paranormale nella quale rientrano anche i "miracoli" cattolici o le visioni mistiche degli anacoreti così simili agli esiti di un'intossicazione tossicologica, mi pare che esista un'unica esperienza possibile del sacro: la percezione della sacralità della vita stessa. La sacralità della vita, la percezione della santità della vita che scorre attraverso di noi, attorno a noi, che ci precede nel tempo e proseguirà dopo la nostra esistenza fisica, formando delle comunità cui gli uomini possono dare il nome di Patria.
    Se noi abbiamo compreso questo, possiamo anche capire che sebbene le leggi imposte sessant'anni fa dai vincitori ed applicate con zelo crescente dai loro lacché c'impediscono di usare il termine giusto e ci costringono a ricorrere a perifrasi, noi sappiamo benissimo ciò che siamo, e non abbiamo alcun bisogno di definirci di destra, di estrema destra, conservatori, tradizionalisti, o quant'altro. Ciò che noi siamo è definito perfettamente da una parola di otto lettere.



    Fabio Calabrese


    Note

    1) Louis Pauwels, Jacques Bergier: Il mattino dei maghi (Le matin des magiciens), Mondadori, Milano 1962.
    2) Mario Polia : Che cos'è la tradizione, "Minas Tirith" n. 13, Società Tolkieniana Italiana, Udine 2005.
    3) Al riguardo, Alberto B. Mariantoni mi ha fatto pervenire questa interessantissima precisazione: Quando citi religione, da religo, as, religavi, religatum, religare ("legare", "rilegare" e, per estensione forzata, "legarsi nei confronti di qualcuno o di qualcosa"), dovresti ugualmente precisare: "In senso giudeo-cristiano".
    Le ragioni sono le seguenti:
    religo, as -usato nel senso di religione- è semplicemente un verbo improprio. Nella letteratura classica latina, infatti, si attribuisce a questo verbo il significato ed il senso di "legare indietro", "legare da dietro o per di dietro" un carro. (Cicerone, "Tuscolanae disputationes" 1, 105); oppure, di "fissare gli ormeggi", "legare le gomene" di una nave. (Cesare, "De bello civili" 3, 15, 2); o ancora di "legare" le travi alle tavole o agli assi. (Cesare, "De bello civili" 2, 9, 5; 2, 10, 3). Come sai, invece, questo verbo è stato artatamente e volutamente utilizzato e diffuso dalla Patristica occidentale (Tertullianus, Minucius Felix, Ireneus, Lactantius, Augustinus, Servius, Calcidius, ecc.) per tentare di dimostrare, ad usum delphini, l'indimostrabile tesi dell'Ipostasi, oppure quella di presupposti "legami" tra l'uomo e Dio o tra il cosiddetto aldiquà ed un congetturato aldilà.
    b. In senso Latino e Romano (come precisa Cicerone in "De natura deorum" 2, 28; 2, 72), infatti, il vocabolo religione, viene etimologicamente fatto derivare da relego, is, relegi, relectum, relegere che significa "rileggere", "scorrere di nuovo", "rivedere con cura" e, per estensione, "osservare scrupolosamente un rito o le gestualità di un culto".
    Ciò non altera la sostanza del mio discorso, ma semmai la rafforza, perché per l'uomo antico, i riti ed i comportamenti condivisi erano precisamente ciò che legava gli uni agli altri i membri di una comunità, in vita e nel destino ultraterreno; al contrario, la parola nel senso cristiano viene ad indicare il legame con un presunto trascendente che azzera i legami civili e l'eticità civica, appunto "separa l'uomo dal cittadino". Quando noi parliamo di una religione di tipo semitico (ebraismo, cristianesimo, islam), non dobbiamo dimenticare che per essa agire moralmente significa solo cercare di compiacere il volere inesplicabile della propria divinità: è solo un caso fortuito se essa prescrive comportamenti eticamente accettabili, ma essa può prescrivere altrettanto bene lo sterminio degli "infedeli",
    la conversione forzata, la messa al rogo degli eretici, o la presunzione razzista della superiorità della tribù degli adoratori del suddetto "Dio", del "popolo eletto" su tutte le altre nazioni della Terra.
    4) Maurizio Blondet: "Gli "adelphi" della dissoluzione", Ares, Milano 2000.
    5) Ibid.
    6) Friedrich Nietzsche: "Così parlò Zarathustra" (Also sprach Zarathustra), Mursia, Milano 1962.
    7) Silvano Lorenzoni, Gianantonio Valli: "Origine del monoteismo e sue conseguenze in Europa", "Thule Italia", on line, Area privata
    http://www.thule-italia.net/religione/monoteismo.html
    La destra, il tradizionalismo e noi
    Chiunque stia dalla parte di una giusta causa non può essere definito un terrorista.
    Yasser Arafat

    Una religione senza guerra è zoppa.
    Ruhollāh Mosavi Khomeyni

  9. #9
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    Predefinito Rif: Breve storia della Federazione Nazionale Combattenti RSI

    un libro importante

    "Gli ultimi fascisti: Franco Colombo e gli arditi della Muti"
    Luca Fantini
    presentazione di Giuseppe Pieristè, del Centro Studi Franco Colombo,
    prefazione di Gilberto Cavallini.

    Selecta Editrice, selecta@eutelia.com € 15,00

    Giorgio Vitali
    «La rivoluzione è la rivincita della santità e della follia sul buonsenso»
    Benito Mussolini

    Che la guerra 1939-1945 non sia ancora terminata non siamo solo noi a sostenerlo. Certo, la guerra guerreggiata è finita da molto tempo, da mezzo secolo e qualcosa di più, (ma cos’è mezzo secolo di fronte ai tempi della storia?), sostituita da altre guerre, come le tante che sono state guerreggiate ai confini e nei dintorni delle due grandi potenze impegnate nella cosiddetta guerra fredda, eppoi le guerre per l’accerchiamento della Russia dopo l’implosione, ampiamente prevista dai pensatori fascisti, dell’Unione sovietica, quelle per l’affermazione dell’egemonia americana sul mondo e per l’occupazione di tutte le zone ricche di materie prime: minerali, fra cui l’uranio, petrolio, gas, e quant’altro. E quella in preparazione, di carattere squisitamente geopolitico che ci richiamano alla mente quelle del periodo napoleonico, uno scontro nel quale l’incidenza delle valutazioni geopolitiche è con grand’evidenza determinante nei programmi costantemente aggiornati dei centri d’elaborazione geostrategica di tutti gli Stati.
    Tuttavia, lo scontro fondamentale, quello che con maggiore evidenza emerse nell’ultimo periodo del secondo conflitto mondiale, resta ancora in piedi. Cinquant’anni di studi analitici condizionati dalla propaganda politica, da una filosofia pragmatista di bassa consistenza morale ed avallati da atteggiamenti, come quelli del cattolicesimo ufficiale, impostati sull’opportunismo, non hanno permesso di sottoporre all’attenzione dei giovani interessati a conoscere ciò che è veramente accaduto durante quei sei anni di guerra totale, la reale consistenza delle forze in gioco. Che erano, come sono ancora oggi, forze umane, componenti essenziali di personalità umane che, rispetto allo standard odierno dobbiamo considerare eccezionali. Perché la guerra del " sangue contro l’oro" può diventare un facile slogan che oggi molti ripetono retoricamente e senza convinzione, ma quando questa sostanziale antitesi s’incarna nelle persone, la faccenda si fa seria.

    Luca Fantini è un giovane storico laureato alla Sapienza che da qualche tempo si è cimentato in un compito non facile: dimostrare con le prove la sostanza delle persone impegnate in questo grande scontro. Egli non si ferma alla pura descrizione dei fatti, ma cerca al loro interno l'elemento psicologico e morale, lo stato d’animo costantemente in tensione, che ha indotto certe persone, molto più numerose di quanto i falsari della storia cercano di accreditare, ad impegnarsi fino in fondo in uno scontro senza quartiere in una vera e propria guerra di religione. Un suo primo libro è stato dedicato agli uomini della "Mistica fascista", questo è dedicato agli uomini della "Muti", personaggi sicuramente fuori del comune; un altro libro, già pronto ma in attesa di stampa, è dedicato alla storia della FNCRSI, organizzazione che durante tutto questo squallido dopoguerra ha tenuto duro. Cioè ha continuato a seguire senza tentennamenti la linea ideologico-politica del Partito Fascista Repubblicano. Si tratta di una posizione politica che al presente, pur non essendo vincente alla luce dei parametri di riferimento propri di questo Regime, dimostra giorno dopo giorno la propria lungimirante vitalità.
    Gli uomini della "Muti" sono i vecchi squadristi milanesi, i loro parenti, vicini e lontani, i giovani entusiasti allevati dal regime fascista, mobilitati dall’energia instancabile di Franco Colombo dopo il tradimento dell’otto settembre. Il loro impegno sarà pieno e totale per tutto il periodo della Repubblica Sociale a dimostrazione che i fascisti hanno combattuto sempre e fino alla fine. E ciò sia detto, in modo definitivo, contro la retorica post bellica tendente a svalutare l’impegno dei fascisti durante il conflitto. Se in conseguenza dell’incredibile tradimento del Savoia e dei suoi generali il popolo italiano si è ragionevolmente e comprensibilmente sbandato, i fascisti non si sono sbandati ed hanno continuato la loro guerra del «sangue contro l’oro». I fascisti non rappresentavano né dovevano farlo, la maggioranza degli italiani, perché giammai si è verificato nella storia il caso d’adesione plebiscitaria di un popolo ad un pensiero politico, un’ideologia, un personaggio, per carismatico che fosse. Un conto è il regime mussoliniano ed un conto è il fascismo ed i fascisti, e tutto ciò indipendentemente dal fatto che, per gli arditi della "Muti" il duce fosse un mito. Anche su questo punto occorre essere molto chiari.
    Significativamente l’autore riporta alcune considerazioni tratte da altro libro dedicato agli uomini della "Muti" (R. Occhi, "Siam fatti così. Storia della Legione Mobile Ettore Muti", Milano, 2002): «La storia degli arditi della Legione "Muti" potrà apparire cinica, negativa, tragica, disperata (…) Per i legionari della "Muti" la lealtà, l’onore, la fede nel fascismo erano considerate qualità cardine dell’individuo (…) La memorialistica resistenziale (…) dipingerà il loro coraggio e la loro determinazione come fanatismo. Tuttavia, al di là d’ogni enfasi retorica resistenziale (…) La stragrande maggioranza di loro fu testimonianza di una grande forza virile, di coraggio nel pericolo, di stoica serenità di fronte alla morte. Gli arditi della "Muti" furono spesso violenti e temerari, come del resto imponeva la situazione in cui agirono, ma furono soprattutto forti e fieri, destinati ad un crepuscolo che si consumerà in pochi mesi, come una candela che brucia troppo in fretta emanando tanta luce. La loro storia è tragica, anche perché i "vincitori" hanno voluto schiacciarla sotto un odio nato dalla paura, e gli storici accorsi al carro dei vincitori l’hanno sepolta nell’oblio».
    Queste precisazioni ci permettono di affermare un concetto molto chiaro: nella storia dell’uomo non c’è mai stato spazio per la tranquillità ed i compromessi. La storia umana è narrazione di violenze e di conquiste, fin dai tempi nei quali si dovevano affrontare i dinosauri. Come ci ha ampiamente dimostrato questo lungo dopoguerra, i rapporti di forza sono alla base delle relazioni fra le nazioni e dentro le nazioni. Non ci sono vie di mezzo: o si comanda o si obbedisce, parafrasando il titolo del libro di un noto psicologo «O si domina o si è dominati».
    Il regime che, per conto del capitale finanziario supernazionale gestisce l’Italia d’oggi è circondato solo dal disprezzo della stragrande maggioranza degli italiani, in nulla distinguendosi da quel regime prefascista che non ha lasciato alcuna traccia nel nostro passato. È un regime che gestisce la decadenza, che ha avuto uno dei suoi punti salienti a metà del secolo scorso con il tradimento e la menzogna, e la menzogna è sempre manifestazione di decadenza la quale non lascia tracce consistenti nella memoria storica, come quella degenerazione dell’Impero romano che però negli ultimi secoli della sua esistenza rimaneva ancora il cardine della vita civile e sociale del mondo civilizzato.
    Ma il declino non è soltanto qualcosa d’imposto. Si ha decadenza quando gli uomini mancano di quell’energia virile e vitale che li costringe a reagire automaticamente a qualsiasi forma d’imposizione. Se oggi l’Italia è territorio di conquista d’altri popoli, che vi giungono per vie tortuose con l’intenzione di prenderne possesso, la ragione risiede soltanto nel fatto che la nostra gioventù è snervata, priva d’energie, corrotta, dove la memoria della guerra civile, che è sempre una forma di terribile vitalità, si stempera in un pretesco dibattito sulla moralità della resistenza, senza un’immagine forte del futuro, soverchiata dalla corruzione politica, sessuale, morale, ove una classe politica d’infimo livello riesce con escamotages vari a perpetuare il proprio potere nonostante la sua palese inefficienza, stretta nella morsa fra l’esibizione scandalistica che travalica nelle giovani generazioni anche l’orrore di terribili fatti di sangue, e le formali polemiche sui preti pederasti; ultima in investimenti nella ricerca scientifica fra i paesi cosiddetti "sviluppati", un’amministrazione pubblica zeppa di mezze tacche in bilico tra abuso di potere e corruzione, non è un caso che questo paese soggiaccia ad un governo che ha ai suoi vertici esponenti del post-comunismo, l’ideologia del sottosviluppo e del regresso; gli eredi di coloro che dopo la resa fecero una carneficina di fascisti, mentre a loro è contrapposta la leadership di Silvio Berlusconi, l’uomo che, con la risatina e con la barzelletta, s’inserisce nel vecchio sistema di potere democristiano senza nulla cambiare, ma attuando una sostituzione di persone. Tuttavia, la percezione della crisi si sta diffondendo, tant’è vero che un recente sondaggio, condotto su un’alta percentuale di intervistati, ha dato una risposta sorprendente. L’ottanta percento ha risposto di essere in attesa di un «uomo forte».

    Eredi di un’antica tradizione di lotte
    Non a caso l’autore, Luca Fantini, richiama l’attenzione su alcuni fattori importanti: la composizione sociale degli arditi della "Muti", la loro provenienza politica, il retaggio del mazzinianesimo, che li rende antitetici in tutto agli strumenti mentali e culturali che hanno animato fino ai giorni nostri il partito comunista italiano. A tal proposito c’è un documento scritto nel 1899 da Francesco Saverio Merlino, esponente di spicco del movimento anarchico e poi del socialismo e difensore dell’anarchico regicida Gaetano Bresci. Questo scritto è stato ripubblicato di recente in un opuscolo intitolato "La mia eresia", dall’editore Nonluoghi.
    Contro l’allucinazione riduzionista del marxismo che riduce tutto a rapporti economici, Merlino scrive: «Se v'è qualcosa di veramente fondamentale e decisivo nella storia, questo è il concetto della vita, che varia non solo da individuo ad individuo, ma anche da una generazione all’altra e da un’epoca all’altra. Fra gli individui c’è chi vive per i godimenti materiali, chi consacra la sua attività alla scienza od all’arte, chi concentra i suoi affetti ed interessi nella famiglia, chi è tutto assorto nella lotta per un ideale sociale, e chi non pensa che a consolare i piccoli dolori, a fare del bene a quelli che gli stanno attorno (…) Possiamo noi assegnare al movimento unitario italiano il solo movente economico borghese? I seguaci di Garibaldi erano in gran parte popolani, ed erano mossi principalmente dall'idea della libertà e dell’indipendenza nazionale - come i giovani italiani accorsi recentemente in aiuto della Grecia».
    Ma a proposito dei comunisti d’oltralpe ecco un altro atto di denuncia: «Infatuati di materialismo storico e di lotta di classe, essi non sospettavano che una questione di giustizia potesse agitare l’anima di un popolo più che una questione d’ore di lavoro e di salari».
    Ecco tracciate in poche parole il grande dissidio che ha agitato il mondo italiano nel XX Secolo e che ha portato allo scontro cruento. Che non è lo scontro fra il marxismo ed il clericalismo, che sono, come abbiamo visto, complementari, ma tra due concezioni del socialismo, espresse chiaramente già alla fine del secolo precedente, e che ha portato moltissimi anarchico-socialisti la sindacalismo rivoluzionario prima ed al socialfascismo dopo, durante il momento più acuto dello scontro..
    L. Ganapini ("La repubblica delle camicie nere") scrive: «Nel quadro della cultura e dell’ideologia della repubblica neofascista, l’eredità della Grande Guerra, con il suo patrimonio d’esperienze, di ricordi vissuti o raccolti dalla voce dei padri, di leggende e di miti, si materializza attraverso il canto e attraverso d’esso rappresenta un punto di riferimento essenziale per tutti gli aspetti della vita dei fascisti repubblicani, delle loro formazioni, della concezione stessa della lotta anche sul piano militare. In parte per la "leggenda del Piave", estrema difesa di una Patria che, nel 1917 come nel 1943, sarebbe stata vittima dell’insensibilità dei suoi figli, se un pugno d’eroi non si fossero buttati sul nemico e non avessero dato il segnale della riscossa. Ma soprattutto perché l’"arditismo" costituisce un modello d’aggregazione e di mobilitazione, uno stile di guerra che risponde in profondità all’ispirazione delle forze armate della Repubblica e soprattutto dei volontari (…) Il vero modello di formazione militare nella Repubblica Sociale non è l’esercito regolare di Graziani, ma la banda volontaria, irregolare, indisciplinata per definizione. Per lunghi mesi Mussolini vagheggia anche la costituzione di Compagnie della Morte, portando alla luce un modello di sapore medievale e rinascimentale prettamente "italico", che configura (…) l’idea di Compagnie di Ventura»; ed infatti nel numero speciale di "Siam fatti così" del 18 marzo 1945, Colombo scrive: «Noi arditi (…) coltiviamo nel cuore il culto dei nostri morti, i quali comandano: tutto e tutti per l’Italia, tutto e tutti per il Fascismo!». Scrive ancora L. Ganapini: «La "Muti" di Milano è paradigmatica perché erige a proprio modello un comportamento irregolare, violento, plebeo. È singolare che, per quanto il decreto di Mussolini del 30 giugno 1944 riservasse alla sola Brigata Nera di Ravenna di intitolarsi al ravennate Ettore Muti, la formazione milanese conservi quel nome, di per sé già foriero di violenza, vendetta e sangue».
    Questa dichiarazione necessita di una nostra nota: nulla è più lontano dalla nostra sensibilità del falso buonismo che appesta l’apparentemente inarrestabile disfacimento di questo paese. Un buonismo melenso e di facciata che ignora sistematicamente e di proposito i genocidi, i massacri, lo sfruttamento integrale per opera delle truppe d’occupazione atlantiche in stretta combutta con le Multinazionali. "United Fruit", "Monsanto", "Royal Dutch/Shell", che estrae petrolio nigeriano, "Nike", degne eredi della "British East India Company", "British South Africa Company", "South Manchurian Railway", tanto per fare qualche nome. Noi riteniamo che in difesa dell’indipendenza e della libertà la violenza sia un sacro dovere oltre che un diritto.
    Per lo scrittore fascista Nello Quilici, perito con Italo Balbo nei cieli della Tripolitania, il fascismo avrebbe dovuto rappresentare un momento di sintesi di una tradizione antica. Il momento di presa di piena coscienza di una precisa identità storica e culturale. Ebbene: gli uomini della "Muti", senza tanta retorica e letteratura hanno rappresentato proprio questo momento, e se nel dopoguerra sono stati fatti oggetto di calunnie nulla toglie al loro impegno. Giovanni Falcone, un patriota ucciso dal terrorismo atlantico (dalla mafia italo-americana) soleva citare una frase di John Fitzgerald Kennedy, presumibilmente fatto fuori dalle stesse mani e per gli stessi interessi (signoraggio monetario): «Un uomo fa quel che è suo dovere fare, quali che siano le conseguenze personali, quali che siano gli ostacoli, i pericoli e le pressioni ricevute. Questa è la base di tutta la moralità umana».
    È una frase indicativa di una mentalità che ben s'addice agli uomini della "Muti", i quali hanno fatto sempre il loro dovere, con i mezzi a loro disposizione, dovere che consisteva nella difesa ad oltranza dell’ultima trincea di una rivoluzione originale che si identificava con la difesa della loro Terra e della sua bimillenaria storia. E talmente alto è il valore della loro moralità che NOI SIAMO tranquillamente sicuri che se all’ultimo minuto, per un capriccio del destino, avessero vinto loro, l’Italia non sarebbe percorsa e dominata da quella che noi abbiamo chiamato MACANDRA (Mafia Camorra e Ndrangheta), proprio perché sappiamo bene che la malavita organizzata è il cordone ombelicale che unisce l’Italia alla madrepatria della Malavita: gli Stati Uniti, e per questa ragione intoccabile ed invincibile.

    Autentico fenomeno rivoluzionario
    L’autore cita, dal libro di M. Soldani, "L’ultimo poeta armato: Alessandro Pavolini", 1999.
    «Se gli operai, sin dall’inizio, erano stati i primi ad esser chiamati a raccolta, ora si trattava di mantenere la promessa di uno Stato socialmente avanzato: e quale la dimostrazione migliore del dare le armi proprio a questa armata proletaria in lotta contro le demoplutocrazie, in nome della difesa di tutte le conquiste rivoluzionarie del Partito? La stessa uniforme delle squadre doveva testimoniare l’essenza di queste formazioni, vestite sì con la camicia nera, ma con la tuta blu da operaio ed il bracciale con la scritta Polizia Federale (…) Saranno le Squadre di Polizia Federale a presiedere il Congresso di Verona, eseguendo anche le prime azioni di rappresaglia legale come quella seguita all’uccisione di Ghisellini a Ferrara».
    D’altronde era stato Mussolini a scrivere che «La repubblica in Italia verrà dal proletariato o non verrà», per evitare, come annota De Felice, che non sia un’ennesima mascheratura del potere borghese, com’è di fatto la cosiddetta repubblica clericale nella quale viviamo.
    A conferma, c’è il Memoriale dei partiti interventisti di sinistra ai delegati dei Soviet nell’agosto 1917: «Noi abbiamo concepito la neutralità italiana prima, e l’intervento poi, come due diversi ma egualmente necessari strumenti di rivolta contro l’imperialismo di fuori e di dentro».
    Tuttavia, non si può comprendere Mussolini e quindi i fascisti se non si legge questo passo del futuro duce su Nietzsche: «Il superuomo è un simbolo, è l’esponente di questo periodo angoscioso e tragico di crisi che attraversa la coscienza europea nella ricerca di nuove fonti di piacere, di bellezza, d’ideale. È la constatazione della nostra debolezza, ma nel contempo la speranza della nostra redenzione. È il tramonto, è l’aurora. È soprattutto un inno alla vita vissuta con tutte le energie in una tensione continua verso qualcosa di più alto, di più fino, di più tentatore …»
    In altra occasione Mussolini scriveva: «Nella politica l’"uomo serio" è il personaggio dalle opinioni temperate; è reazionario ma non vuole la forca, è rivoluzionario ma non comprende il berretto frigio, rigetta la violenza, stigmatizza l’insurrezione (…) Nei momenti di crisi l’uomo serio si chiude in un dignitoso riserbo, in un prudente riserbo, e molto spesso in una cantina, salvo poi, quando le questioni siano risolte, ad uscir dai comodi nascondigli per imprecare ai vinti e celebrare i vincitori. Nella politica, l’uomo serio è l’eroe della sesta giornata».
    Concetti tanto chiari quanto profetici, scritti da una persona che conosceva bene gli italiani. Un popolo d’uomini seri. Spesso con la tonaca. Mussolini non disdegnava ammettere la dipendenza della Rivoluzione fascista dalla Grande Rivoluzione. Ed aveva ragione. Nel corso di un’intervista concessa ad un giornalista dell’Associated Press così dichiarò: «Nessun paese sfuggì agli effetti della rivoluzione francese e nessuno potrà non sentire l’influenza del nostro risveglio. Le nostre innovazioni più importanti consistono nel nuovo concetto delle funzioni dello Stato e nell’avere incorporato nello Stato le forze della produzione. Il fascismo respinge l’idea che una nazione sia un raggruppamento accidentale e temporaneo d’individui e afferma che la nazione è un’entità organica e vivente, che continua, da generazione a generazione, con un intangibile patrimonio fisico, morale e spirituale».
    Il fascismo pertanto si colloca nell’alveo delle rivoluzioni "nazionali", sviluppate dalla Grande rivoluzione, ma potenziate dal fascismo. Pertanto, possiamo tranquillamente collocare gli uomini della "Muti" tra quelle figure di rivoluzionari che seppero affrontare con spirito "romano" il sacrificio della vita, tramandateci dalle cronache di fine XVIII secolo e dall’epopea napoleonica.
    Fra queste figure una spicca in modo particolare, alla quale Mussolini aveva dedicato un sonetto, da noi pubblicato in un numero del nostro bollettino. Gracco Babeuf.
    Quest’uomo, in pieno riflusso, non rinunciò al suo ideale di giustizia sociale ed andò avanti per la sua strada fino alla fine. Condannato a morte nel 1796, tentò di suicidarsi in carcere assieme al suo sodale Darthé, ma non ci riuscì che in parte, e fu giustiziato dal Direttorio. Da notare che i suoi figli furono accesi bonapartisti perché avevano visto in Napoleone l’unica persona capace di sviluppare il progetto rivoluzionario, anche se con gli orpelli dell’imperatore. Non sono, infatti, le apparenze quelle che contano nella storia, ma ciò che vi si costruisce d’imperituro. I rivoluzionari autentici non sono coloro che utopizzano astrattamente ed a chiacchiere, come gli esponenti della sinistra pacifista che fino ad oggi ha mistificato con evidenza un ruolo usurpato, ma quelli che sanno riconoscere i veri capi ed assecondano quelli che garantiscono concretamente l’attuazione dei loro desideri. Non a caso Luca Fantini, riprendendo un mito cui i socialfascisti facevano riferimento, vale a dire Giuseppe Mazzini, cita alcune frasi significative del profeta della nostra rivoluzione nazionale.
    Ne aggiungiamo altre noi: «… il progetto sia nazionale, perché senza nazione costituita il progresso non è che una menzogna, la forza un sogno, la civiltà un’illusione; sia altamente sociale, perché noi dobbiamo combattere non la schiavitù ma l’individualismo; sia umanitaria perché l’umanità sola crea la patria ed a lei sola spetta dare il battesimo e sostenerlo …».
    «Ogni popolo, come ogni individuo, non esiste se non in quanto la sua esistenza segue una legge, ha uno scopo, rappresenta un elemento della grande vita comune dell’umanità. Dove ei non adempia a questa condizione, non è se non un ingombro inutile sopra la terra».
    Superfluo, da parte nostra, ricordare che in una lotta senza quartiere tra chi si batte per la concreta sopravvivenza della nazione ha sicuramente più diritto di vincere contro chi dice di battersi per valori astratti e finora mai realizzati in Italia come in altri paesi come il comunismo o la democrazia liberale. E difatti i togliattiani, nel dare inizio alla guerra civile a base di assassinii a tradimento, ubbidivano soltanto agli ordini di Stalin, in guerra contro la Germania nostra alleata.

    Profilo storico di Franco Colombo
    Come uomo, Franco Colombo entra di diritto nel novero di quegli uomini che, sorti dal popolo e vissuti per il popolo, hanno costellato per tanti secoli la storia d’Italia. Il primo nome che ci viene alla mente è Filippo Corridoni, personaggio che sicuramente Colombo ha conosciuto in gioventù. Di Pippo così scriverà Curzio Malaparte, conoscitore non tenero di tipi italici: «Quest’uomo napoleonico, invano da Giorgio Sorel auspicato per la Francia, aveva in Italia preso un nome ed un viso in Filippo Corridoni. Nato dal popolo e partecipe di tutti gli istinti, di tutte le violenze e di tutte le passioni del popolo, irrigidito fisicamente, come in un osso, di volontà e di ribellione, consumato dalla tisi e bruciato dalla febbre delle sue persuasioni quasi istintive, ora insofferente ora paziente di tutto, ricco di sogni come un pastore e torvo di risentimenti come un servo della gleba, Filippo Corridoni aveva l’anima tumultuosa di un tribuno e gli occhi innocenti di un bambino (…) La sua forza era in quella sua tremenda innocenza, che domava le ciurme delle officine col peso di una fatalità, non di una volontà personale (…) Ma lo spirito rivoluzionario, nel popolo nostro, era morto, soffocato dallo spirito antirivoluzionario del socialismo (…) Il socialismo aveva intorpidito il popolo, ributtandolo a forza in quella sonnolenza borbonica, dalla quale gli uomini ed i fatti del nostro Risorgimento l’avevano tratto a fatica. Nelle annate che hanno di poco preceduto la guerra europea, il nostro popolo aveva raggiunto il più turpe stato di passività».
    Sempre su Corridoni scrive Vito Rastelli: «Contrariamente al socialismo -ed anche alla borghesia del tempo- il sindacalismo eroico, guardato oggi, si presenta nel suo rapido svolgimento storico, dal suo insorgere fino allo sfociamento nella guerra, come la sola effettiva ripresa nazionale di quel tempo».
    La seconda personalità che ci richiama alla mente la vicenda umana e nazionale di Franco Colombo è Francesco Ferrucci. A seguito del Sacco di Roma del 1527 il papa Clemente VII de Medici conclude un accordo a Bologna con Carlo V. Questo accordo prevede, more solito, la corona imperiale in cambio dell’aiuto per la riconquista di Firenze alla signoria medicea. Firenze resiste per dieci mesi all’assedio, Ferrucci respinge con sdegno le offerte di resa, arrivando perfino ad impiccare gli ambasciatori imperiali. La repubblica cade per il tradimento del Baglioni, capo delle truppe mercenarie. Ferrucci viene finito da Maramaldo dopo la battaglia di Gavinana del 3 agosto 1530. Non a caso il nome di Maramaldo, che non ebbe altra colpa se non quella di assassinare Ferrucci già mortalmente ferito («Tu dai a un morto!»), viene associato nella coscienza popolare ed anche per una certa assonanza dei nomi, a quello di Badoglio. Firenze, perla del Rinascimento italico, cade definitivamente nelle mani dei Medici, tributari dell’Impero, equivalente dell’epoca all’Impero atlantico d’oggi.
    Fantini riporta dal libro di L. Ganapini, "La repubblica delle camicie nere", una frase efficace: «Il nemico inafferrabile, il partigiano, un uomo che non scende in campo aperto, che forse proprio per questo non merita nemmeno rispetto o che, se lo merita, non riesce ad emergere con tratti definiti nemmeno nella memoria …».
    È chiaro pertanto che gli uomini di Colombo avevano tutto il diritto di reagire vigorosamente contro un pericolo sfuggente, mascherato, anonimo, diretta filiazione del tradimento come col tradimento e nottetempo la Firenze di Ferrucci era stata invasa dagli imperiali. Tanto anonimo da rimanere tale anche oggi, a distanza di oltre sessant’anni, nonostante una possente opera di mistificazione storica e di manipolazione cerebrale.
    Su "Vita di Sandro e di Arnaldo", Mussolini, negli anni trenta, scriveva: «Ma tutto quello che fu fatto non potrà essere cancellato …».
    Facile profezia. È quanto sta avvenendo oggi con un‘accentuazione indubbia dell’interesse internazionale su Mussolini e l’esperienza socialrepubblicana. E poiché la Storia dei popoli sfocia naturalmente nel mito, l’affannosa ricerca delle informazioni sugli ultimi momenti di vita del Duce configura una primordiale «ricerca del padre» che segue nel tempo all’altrettanto primordiale esposizione della vittima sacrificale sul non improvvisato (ora lo sappiamo!) golgotha di piazza Loreto.
    «Sono un animale ferito. Ero nato per la caverna e per la fionda, per il cielo intenso e il piacere definitivo del lampo: e mi fu data una culla morbida ed una stanza calda. Ero nato per la morte immutabile della farfalla: e l’acqua che mi crepò il cuore m’avrebbe solo bagnato» (Massimo Ferretti, "Polemica per un’epopea tascabile", in "Maledetti Italiani", Il Saggiatore, 2007)

    Conclusioni
    La storia e l’attualità ce l’insegnano. Esistono due Italie. Una delle due, per un’atroce destino, ha sempre in mano le redini del potere. Mentre mezz’Italia brucia in processo che è facile intuire come accelerazione della desertificazione, gli esponenti della partitocrazia discutono su chi deve essere il leader del prossimo pateracchio. Come ci descrive con ampia documentazione Ruggero Zangrandi nel libro "L’Italia tradita" dedicato all’otto settembre, alla sua preparazione ed alle conseguenze. A parte la figura d’un noto cialtrone come Badoglio, già responsabile di Caporetto, è una sarabanda di maschere del teatro dell’arte, intenti a tradirsi l’un l’altro, ad impartire ordini che loro stessi s’impegnano a rendere inefficaci, a buttare poveri ragazzi allo sbaraglio per coprire la loro falsa fuga, ad organizzare attentati ed omicidi, ad incitare attraverso la radio ad uccidere fascisti e loro famigliari. La menzogna è poi proseguita nel tempo col mito della resistenza, creato dapprima a tavolino per molteplici ragioni, a partire dall’interesse di Kesselring e dei comandi tedeschi, obbligati ad inventare il pericolo rappresentato dai partigiani per giustificare le loro inutili stragi di civili, o come il bisogno di gonfiare il numero degli amici degli "atlantici" per ottenere condizioni di pace meno umilianti.
    Dall’altra parte abbiamo l’Italia che non si piega, che non accetta compromessi, che non s’arrende. È l’Italia di Vittorio Veneto, alla quale fanno palese riferimento gli uomini della "Muti". È l’unica Italia che conta, è l’unica Italia che ha un significato, l’unica che valga la pena di prendere in considerazione. C’è un’Italia dei Dalla Chiesa, dei Falcone, dei Borsellino, dei Cassarà, dei Livatino, Chinnici, per non dire dei Mattei, Moro e tanti altri, lasciati soli a farsi ammazzare dall’unico, solito inequivocabile nemico e dai suoi sicari. È l’Italia dei Ferrucci, degli Andrea Doria, Paolo Sarpi, Marcantonio Bragadin, Pasquale Paoli, dei Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Galileo Galilei. Questa per noi è l’Italia. L’altra, semplicemente, non esiste. Pertanto, noi non abbiamo nulla da chiedere a nessuno, nessun riconoscimento postumo da chi non esiste.
    Corrado Alvaro, già fascista di sinistra, scrisse nel 1944 un pamphlet ripubblicato nel 1986 da Sellerio, dal titolo "l’Italia rinunzia?" È una denuncia sconsolata, tipica di una mentalità piagnona e senza prospettiva per il futuro, della situazione italiana come si presentava e continua ad essere, governata da "loro". Egli scrive: «Seguiamo pure questo sistema ipocrita, e quello che pur era, malgrado le apparenze, l’ideale del regime, di mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, rivoluzione e conservatorismo, sia ancora il nostro sistema. Sia ancora nostra la sua retorica che risolveva tutto sulla carta e nelle chiacchiere ed elucubrazioni dei suoi sciocchi teologi, come noi risolviamo tutto col nome di libertà e di democrazia, mentre il paese aspetta di vivere e di lavorare per il suo domani. Ma intanto il paese è immobile, segna il passo, non vive, non pensa, non agisce, è insicuro della sua interna e della sua vita domestica, e intraprende il suo ennesimo assalto allo Stato, agl’impieghi, ai benefici, essendo l’economia italiana distrutta ed essendo l’unico rifugio lo Stato».
    Poiché non ci sembra necessaria altra aggiunta, con quest’intervento concludiamo la recensione di un libro da leggere in ricordo d’uomini da ammirare ed imitare.
    Giorgio Vitali

    "Gli ultimi fascisti: Franco Colombo e gli arditi della Muti"
    Ultima modifica di Johann von Leers; 10-02-11 alle 18:39
    Chiunque stia dalla parte di una giusta causa non può essere definito un terrorista.
    Yasser Arafat

    Una religione senza guerra è zoppa.
    Ruhollāh Mosavi Khomeyni

  10. #10
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    Predefinito Rif: Breve storia della Federazione Nazionale Combattenti RSI

    Sempre con noi!







    da “Aurora”, n° 29 (Ottobre 1995)



    Bruno Casalboni, un italiano!



    Giorgio Vitali







    L'uomo vale non tanto
    per le sue idee
    ma in quanto le porta
    avanti a costo di tutto
    e contro tutti,
    se necessario.


    BRUNO CASALBONI
    28 8 1922 - 22 8 1995






    Bruno Casalboni è morto lo scorso agosto a Rimini, ove era nato 73 anni prima. Malgrado la malattia che lo perseguitava da tempo, non li dimostrava. La sua espansività romagnola comunicava ampiamente il suo spirito giovanile. Mentre mi accingo a scriverne questo breve ricordo, mi rendo conto che non lo sento lontano.
    Ci sono persone che, benché percepite come ormai fisicamente altrove, le senti aleggiare al tuo fianco, confermare i tuoi pensieri, i tuoi atti essenziali. Altre, le percepisci addirittura come «mai morte». E sono proprio queste «possibilità percettive», che sperimentiamo in momenti particolari della nostra vita, che ci fanno rigettare, tranquillamente, ogni concezione materialistico-meccanicista dell'esistenza. Con Bruno avevamo una non comune uniformità di vedute, ed era questa a tenerci vicini, anche se negli ultimi anni ci siamo visti raramente.
    Di statura nettamente superiore alla media, Bruno compie il servizio dl leva nei Granatieri, a Soriano nel Cimino. Volontario in Russia, ove si conquista la Medaglia d'Argento con la seguente motivazione:
    «Medaglia d'Argento al valor militare sul campo, concessa al Granatiere di Sardegna Bruno Casalboni, fu Ferruccio, classe 1922, Distretto di Forlì, XXXII Battaglione Anticarro Autocarrato. Facente parte di un Reparto che aveva ricevuto ordine di ripiegare, ha trovato la strada sbarrata da superiori forze avversarie, avendo il proprio Comandante di Reparto deciso di attaccare, si lanciava animosamente per primo contro il nemico, incurante del pericolo e della enorme preponderanza delle forze avversarie, gettava in un gruppo di esse, con un violento lancio di bombe a mano, l'indecisione ed il panico, facilitando l'esito dell'azione del proprio Reparto. Fronte Russo. Ansa di Werch-Mamon 17/12/'42».
    A dimostrazione delle miserie di una classe dirigente di sguatteri, la Medaglia d'Argento fu declassata nel dopoguerra a "Medaglia di Bronzo" con documento a firma di Pacciardi, per aver aderito alla RSI. (Come se gli atti di eroismo possano avere un "prezzo").
    Fatta per intero la "Ritirata di Russia", il Reparto cui apparteneva era stanziato a Bagnoregio. Dopo l'8 settembre Casalboni, assieme e Bezzeccheri, Chiti e Fiumi costituisce la 5ª Compagnia, Studenti Volontari Romani, che inizia le operazioni nella zona di Velletri-Cisterna contro gli Angloamericani sbarcati ad Anzio. La storia del Reparto, che diventerà il I Btg. Granatieri di Sardegna ed opererà prevalentemente in Liguria come componente del Raggruppamento "Cacciatori degli Appennini", è magistralmente narrata, nel volume recentemente pubblicato dalle Ed. Settimo Sigillo, dal cap. Francesco Christin: "Con gli Alamari nella RSI", al quale rimando per tutti coloro, soprattutto i giovani, che vogliono avere una idea su quei tempi, quei momenti, quel clima. Tra parentesi questo libro, come l'altro di notevole successo "A cercar la bella morte" di Mazzantini, permettono ai giovani nati e cresciuti nella società consumistica, di capire di quanta diuturna fatica fosse costituita la vita di questi soldati della RSI, per i quali il «fatto d'arme», l'agguato da parte del nemico, costituiva un momento fugace in una routine carica di tensione.
    Il Raggruppamento finisce la sua attività fra il 3 e il 5 maggio '45, quando il Comando della 34ª Divisione tedesca decora della Croce di Ferro di 1ª Classe il col. Langiasco, il col. Dal Piaz, il mag. Rosa della GNR. Nel pomeriggio dello stesso giorno una compagnia americana rende gli Onori Militari a tutti i reparti.
    Mentre per molti militari si aprono le porte dei campi di concentramento, per altri che in borghese tentano di tornare a casa, si prospetta il rischio (da essi non previsto, né immaginato) della strage o del linciaggio. Bruno, con alcuni amici, tenta questa seconda carta, viene fermato, messo al muro, ma salvato da un camerata che, in veste di partigiano e con altri come lui, percorrono la zona allo scopo di salvare i repubblicani dalle grinfie dei comunisti.
    L'epopea della RSI, cui con sempre maggiore attenzione si rivolgono gli storici, deve tener conto della complessità delle motivazioni che ha caratterizzato chi vi aderì. Per i giovani, per i quali la motivazione principale fu la ribellione contro la resa ed il tradimento, è bene tener presente che l'Onore fa tutt'uno con il senso di libertà ed indipendenza. Oggi si tende a relegare il fenomeno, come espressione di «Difesa dell'Onore», dimenticando che questo Onore è anche e sempre «difesa delle proprie idee», «tutela della propria specificità», difesa della propria libertà attraverso la difesa dei propri confini, dei confini della Nazione contro l'onnipervadente dominio angloamericano; quello che oggi si sostanzia nel «Mondialismo finanziario e culturale» e che all'epoca della quale parliamo era ampiamente percepito da molte più persone di quanto noi oggi possiamo immaginare.
    A guerra finita, inizia per Bruno, come per tanti altri reduci repubblicani, una storia di epurazione, di difficoltà economiche, che culmina con l'arresto nel '52 per la sua adesione alla RSI. Trasportato, ammanettato come un volgare lestofante di questa «democrazia», in treno a Novi Ligure, viene ampiamente assolto per non aver commesso il fatto che gli veniva falsamente imputato. Trovato lavoro nella informazione farmaceutica, vi profonde immediatamente le sue energie, e fonda un Sindacato di Informatori Scientifici aderente alla CISNaL (SINAPS-CISNaL), attraverso il quale riesce ad elaborare alcune iniziative di valorizzazione di una professionalità che a tutt'oggi ancora attende il giusto riconoscimento legislativo, dopo ben 31 anni dalla prima Proposta di Legge presentata dal SINAPS (1964). Anche dalla CISNaL le delusioni non tardano a venire, e consistono nel boicottaggio di tutte le iniziative che possano anche lontanamente ipotizzare un rischio per gli industriali del farmaco. Fedele ai propri princìpi di «repubblicanesimo sociale», aderisce alla FNCRSI, della quale fu a lungo Segretario Nazionale, collaborando con Giorgio Pini. Anche gravemente ammalato, non si ritira in appartata solitudine, ma al contrario partecipa attivamente e per quanto possibile alla vita politica. È sempre presente ai raduni dei suoi ex-commilitoni, che lo hanno ricordato il 17 settembre u.s., a Vitorchiano in provincia di Viterbo, vicino a quella Bagnoregio ove aveva iniziato l'esaltante avventura nella RSI.


    Giorgio Vitali




    FNCRSI
    “Non vi è socialismo senza nazionalizzazione e socializzazione delle industrie” STANIS RUINAS

 

 
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