Il prossimo segretario generale della Nato non dev’essere David Cameron
La ventilata candidatura dell’ex premier britannico come successore di Stoltenberg rappresenta un rischio politico, militare e istituzionale che in questo momento storico l’Alleanza non può permettersi – e l’Italia meno che mai.
di Giuseppe Cucchi
Considerando che il mandato dell’attuale segretario generale della Nato, il norvegese Jens Stoltenberg, dovrebbe scadere nel 2018, il toto-successione può sembrare prematuro.
Già si parla, però, della possibile candidatura dell’ex premier britannico David Cameron, disoccupato dopo le dimissioni seguite alla sconfitta nel referendum decisivo per il Brexit.
Almeno per il momento l’interessato non conferma né smentisce, ma continua ad andare a caccia – così almeno dicono le cronache – e a occupare il tempo con analoghe occupazioni da unemployed di lusso.
C’è da chiedersi con un certo allarme come e perché gli articoli sull’eventualità di una candidatura siano comparsi così presto.
Per non citare il burrascoso contesto politico in cui gli Stati Uniti, il grande fratello dell’Alleanza Atlantica, sono dilaniati da una sorda guerra senza esclusione di colpi fra un presidente uscente e uno subentrante mentre il maggiore dei potenziali avversari della Nato, la Russia, assurge a maggiore dignità internazionale acquisendo un ruolo chiave per il futuro di tutto il Medio Oriente.
Di certo le indiscrezioni di stampa non sono state né ispirate né sollecitate dal Regno Unito. Quando infatti le candidature vengono ipotizzate con tanto anticipo, l’operazione ha di norma lo scopo di bruciarle, annunciandole con margini temporali tali da consentire a tutti coloro che le avversano di logorarle progressivamente sino a renderle impossibili.
Non sembra che questo sia l’intento nel caso di Cameron.
Un rigetto del suo nome – oltretutto molto tempestivo – non farebbe altro che aumentare l’impressione di estraneità del Regno Unito da un’Unione Europea che costituisce pur sempre uno dei pilastri portanti dell’Alleanza, anche se per ora solo in maniera sottintesa. Ciò non andrebbe certo nella direzione desiderata da Londra, apparsa finora orientata a cercare di ottenere un’uscita quanto più dolce possibile dall’Ue.
Potrebbe trattarsi di un tentativo di rassicurare i paesi del nordest europeo membri dell’Alleanza Atlantica che conservano intatto – se non addirittura aumentato – il timore di un eventuale ritorno offensivo della Russia, giudicando del tutto insufficienti alla bisogna gli schieramenti avanzati di reparti militari decisi dalla Nato nel vertice di Varsavia.
Gli inglesi sono visti un po’ come i “mastini” dello schieramento alleato e si sono sempre presentati come i meno disposti a ricercare il compromesso con Mosca. In un caso del genere la mente dell’operazione andrebbe quindi ricercata a Washington o, con probabilità ancora maggiore, nei corridoi del quartier generale dell’Alleanza a Bruxelles.
C’è comunque la possibilità che questo altro non sia che un ballon d’essai, una provocazione che abbia per autore lo stesso Cameron, interessato a raccogliere una prima serie di commenti sull’ipotesi onde valutare se essa possa o meno risultare realistica. Con il proposito, magari, di far ricadere successivamente il silenzio sulla materia salvo poi candidarsi realmente a tempo debito.
Qualsiasi cosa si celi dietro l’operazione, occorre sottolineare che una candidatura britannica costituisce per l’Alleanza Atlantica non soltanto un rischio politico e militare, ma anche la violazione palese di quelle regole non scritte di equilibrio interno della organizzazione che hanno contribuito a preservare sino a ora il giusto livello di coesione degli alleati.
Per quanto concerne il rischio, basta ricordare il dilettantismo politico spacciato per grinta con cui il Regno Unito è intervenuto con le proprie forze armate prima in Iraq, a fianco degli americani, e qualche anno dopo in Libia, nel cuore di una coalizione più complessa che ha finito col coinvolgere anche la stessa Nato, pretendendo di pacificare – ma riuscendo soltanto a destabilizzare – due aree importantissime per la sicurezza mediterranea e di riflesso per quella europea.
Londra svolge altresì un ruolo di rilievo fra coloro che maggiormente si oppongono a un compromesso con la Russia che chiuda definitivamente il contenzioso ucraino e permetta all’Occidente la ripresa di regolari relazioni con il Cremlino.
Un atteggiamento che ha la conseguenza negativa di mantenere l’attenzione dell’Alleanza e dell’Ue concentrata sulle frontiere di Nordest del continente, impedendo a entrambe le organizzazioni di dedicarsi nella dovuta misura a quei fermenti del mondo arabo islamico che dovrebbero invece costituire il fuoco delle comuni preoccupazioni.
Dal punto di vista degli equilibri interni, occorre sottolineare come in questo particolare momento storico la Nato abbia tutto l’interesse a favorire lo sviluppo di una capacità europea di sicurezza e di difesa che possa portare l’Ue a proporsi realmente – e non soltanto sulla carta – come il “pilastro europeo dell’Alleanza”.
Si tratta di uno sviluppo reso sinora impossibile dall’ostilità del Regno Unito, convinto che il rafforzamento dell’Europa avrebbe potuto incidere negativamente sulla “relazione particolare tra Usa ed Uk”, indebolendola o rendendola superflua. Vi è quindi da temere che un eventuale segretario generale britannico sia perlomeno tentato di insistere su questa linea politica, anteponendo i propri interessi nazionali a quelli delle due organizzazioni.
Vi è infine da considerare come le cariche di vertice dell’Alleanza Atlantica siano da sempre assegnate sulla base di un manuale Cencelli interno che prevede, ad esempio, che il Comandante supremo alleato in Europa (Saceur) sia sempre un americano. Il segretario generale dell’organizzazione, per contro, è sempre scelto fra gli europei. Per questa seconda carica è di norma prevista anche un’alternanza fra personalità che provengano dal Nord e dal Sud del continente.
Gli ultimi quindici anni hanno però visto una netta prevalenza del Nord, con gli ultimi tre segretari provenienti rispettivamente da Olanda, Danimarca e Norvegia. Ineludibile risultato: una politica che trascura il Sud conferendo ai problemi del Nord una preminenza che non è certo esagerato definire eccessiva.
Fino a qualche anno fa, la situazione era almeno in parte temperata dal fatto che il vicesegretario generale era sempre un italiano. Ironia della sorte fu proprio un italiano, l’allora premier Berlusconi, ad accettare che tale posizione ci venisse sottratta nel quadro di una complessa trattativa che portò all elezione del candidato danese e ci lasciò con promesse di compensazioni poi regolarmente disattese.
La scelta di un altro uomo del Nord potrebbe costituire un rischio importante tanto per la coesione interna dell’Alleanza quanto per l’equilibrio dei suoi successivi orientamenti. Cadendo su un candidato del Regno Unito, essa potrebbe inoltre accentuare la contrapposizione fra la Nato e l’Unione europea, certo non la loro complementarità.
Infine, se il prescelto fosse proprio Cameron, ci sarebbe da chiedersi come i membri Ue della Nato, che sono la maggioranza dei soci di quell’esclusivo club, abbiano potuto dimenticare i due disastri della campagna di Libia e del Brexit, entrambi largamente imputabili al predecessore di Theresa May.
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