di Luigi Salvatorelli – In “Nuova Antologia”, a. LXXXV, fasc. 1796, agosto 1950; poi in “Nuova Antologia”, a. CXVI, fasc. 2140, ottobre-dicembre 1981, Le Monnier, Firenze, pp. 376-385.


Concludendo il discorso alle due Camere di presentazione della compagine governativa, il primo presidente del Consiglio laico nella storia della Repubblica, il primo presidente laico dopo Parri nella storia del dopoguerra, terminava con queste parole: “So che sarei criticato se insistessi troppo sul ritorno a valori risorgimentali. Conosco tutte le insidie della retorica. Ma so che la nostra Repubblica non potrebbe preservare il suo futuro senza la coscienza della sua ispirazione originaria, di quella ispirazione che collega il primo al secondo Risorgimento, nell’opera secolare per la costruzione dello Stato e per il suo riscatto”.
Primo e secondo Risorgimento. Facendo eccezione alla regola di scegliere nella collezione di cento anni fa, la “Nuova Antologia” di questo fascicolo ripubblica un articolo di Luigi Salvatorelli uscito sulla “Nuova Antologia” dell’agosto 1950 (anno 85°, fasc. 1796) intitolato appunto “Primo e secondo Risorgimento”.
È la prima organica teorizzazione che il grande storico faceva del raccordo fra il riscatto nazionale e la resistenza. È la riaffermazione dell’ideale storiografico brillato nelle pagine di Pensiero e azione del Risorgimento. È la puntualizzazione, agli inizi degli anni cinquanta, dei valori di libertà, di umanità, di tolleranza, di fraternità che dall’epopea nazionale dell’ottocento si riverberavano nell’Italia democratica e repubblicana che stava costruendo faticosamente le sue istituzioni e realizzando le sue nuove alleanze internazionali.
Da un anno o poco più era nato “Il Mondo” di Mario Pannunzio. La nostra rivista era diretta da Mario Ferrara che rappresentava il punto di incontro ideale fra l’esperienza degli amici di Pannunzio e i filoni della più alta tradizione liberale. Salvatorelli concludeva il suo scritto con un commosso omaggio a Mazzini. Non a caso.


PRIMO E SECONDO RISORGIMENTO

di Luigi Salvatorelli

Ci sono state, ci sono, e ci saranno, due concezioni del Risorgimento italiano, diverse fino ad essere opposte. Per l’una, il Risorgimento è un fatto puramente politico, territoriale, statale: è l’esclusione del dominio absburgico dall’Italia, è l’assorbimento dei diversi stati italiani da parte del regno di Sardegna, è la costituzione del regno d’Italia. Questa concezione, partendo da una visione positivistica della storia, approda sul piano politico a un programma di assolutismo monarchico e dinastico. Per l’altra, il Risorgimento è un fatto, o meglio un processo, di carattere spirituale, una trasformazione intima e completa della vita italiana, una affermazione di autonomia per cui l’uomo italiano e il popolo italiano prendono, o riprendono, per iniziativa propria, un proprio posto nel mondo europeo, nella vita dell’umanità.
La concezione politico-territoriale informò di sé largamente nel periodo del Postrisorgimento, e più particolarmente nell’Italia umbertina, l’insegnamento ufficiale, e la volgarizzazione popolare: tuttavia essa non fu mai imbandita, diciamo così, allo stato puro; fu sempre mescolata – per naturale sanità d’istinto, e per continuità con la tradizione risorgimentale – fu mescolata, dico, con elementi della seconda. Che nel Risorgimento vi fosse un pensiero, un ideale, un fatto di coscienza – e non semplicemente una concatenazione di rivolte, battaglie, occupazioni militari, trattati, plebisciti, voti parlamentari, decreti reali – fu riconosciuto sempre, anche dai seguaci più ortodossi di quella che io ho chiamato la interpretazione sabaudistica del Risorgimento. Solo negli ultimi tempi, sotto il fascismo e per opera della combinazione operatasi fra questo e il sabaudismo, si arrivò alla affermazione piena, incoscientemente sfacciata, della teoria per cui il Risorgimento si riduceva all’aggregazione esteriore delle diverse regioni italiane al Piemonte sabaudo. Il paladino di questa concezione – paladino nei limiti consentitigli dal suo analfabetismo fondamentale – fu uno dei quadrumviri della Marcia su Roma.
Ma poiché, come dice il proverbio, Dio manda il freddo secondo i panni, la sorte volle che, mentre nel mondo ufficiale si pompeggiava la concezione deteriore, nel campo degli studiosi autentici si riprendeva e perfezionava l’interpretazione giusta, la quale non era se non la prosecuzione di ciò che gli uomini maggiori e migliori del Risorgimento avevano pensato dell’opera loro. Poiché, da quando il termine “Risorgimento” si è cominciato ad usare per un dato periodo culminante della storia d’Italia, esso termine non è stato preso mai in senso puramente statale-territoriale, ma è stato inteso sempre come, innanzi tutto, un fatto di coltura, di coscienza, un atto spirituale: da Saverio Bettinelli a Giosuè Carducci, da Alfieri a Gioberti, dai patrioti “giacobini” del 1799 a Santarosa, da Mazzini a Cavour.
Risorgimento è dunque il processo di pensiero e di azione per cui l’Italia, dopo avere occupato un posto insigne nell’Europa medievale-rinascimentale, ed esser decaduta nel periodo delle dominazioni straniere e della Controriforma, appartandosi dal circolo vivo di civiltà e dal movimento di progresso dell’Europa moderna, torna a riconnettersi con quel movimento, a rientrare in quel circolo, a riprendere una coscienza e una attività proprie, a ricostituirsi come personalità di nazione nella libertà degli individui, a contribuire come elemento costitutivo alla civiltà europea e umana. La cacciata dello straniero, il cambiamento di regime politico, l’unificazione statale, sono gli strumenti, gli esponenti di questo grandioso processo di risurrezione, e prendono il loro vero valore da questa trasformazione spirituale.
Ma il processo dello spirito, la vita dell’umanità è dramma, e non idillio, lotta e non passivo adattamento. Di contro al Risorgimento si è manifestato, fin dagli inizi di quello, l’Antirisorgimento. Che per una parte – la meno importante, sebbene sia quella a cui badano i più – consiste in una resistenza passiva dei poteri in carica, degli interessi acquisiti, delle tradizioni e delle abitudini contro le correnti innovatrici e le attività rivoluzionarie; per un’altra, la essenziale, fu contrapposizione attiva di altri sentimenti, di altri principî, di altri – diciamo pure – ideali ai sentimenti, ai principî, agli ideali ispiranti il moto risorgimentale.
A ogni fase del Risorgimento corrisponde una fase dell’Antirisorgimento. Il Risorgimento comincia nel Settecento, anzi nella prima metà del Settecento, col moto di rinnovamento culturale e civile legato ai nomi del Muratori, del Vico, del Giannone, cui succedono il Beccaria, il Verri, il Genovesi, il Filangieri, e via via, fino al Parini e all’Alfieri: rinnovamento spirituale di cui il riformismo principesco della seconda metà del secolo è un parziale e talora deviato riflesso, ma che per conto suo pone le premesse al risorgimento politico propriamente detto. Si tratta di svecchiare l’Italia, di trasformare secondo i nuovi “lumi” le sue condizioni politiche e sociali, di ricongiungere l’Italia all’Europa. Direttive della trasformazione l’antifeudalesimo e la organizzazione amministrativa uniforme e accentratrice, con abolizione dei privilegi di classe; l’anticlericalismo, o meglio l’anticurialismo, cioè la tendenza a ridurre i poteri della Chiesa e del pontefice, accompagnata dalla tolleranza religiosa, e da una incipiente laicizzazione della vita sociale; l’umanitarismo spiegantesi soprattutto nell’addolcimento richiesto dalle leggi penali, e in parte effettuato, fino all’abolizione leopoldina della pena di morte. La resistenza si esprime nel campo pubblicistico e nelle condanne delle autorità – che vanno dalle proibizioni della censura civile ed ecclesiastica all’imprigionamento perpetuo del Giannone. Nel campo politico, il riformismo borbonico e lorenese porta ai conflitti con la S. Sede, e talora a un principio di moti sanfedistici delle plebi.
Con la rivoluzione francese traboccante in Italia abbiamo il primo Risorgimento politico. Dal piano culturale si passa a quello governativo, dal riformismo alla democrazia, dal cosmopolitismo alla nazionalità. Spuntano i programmi (con parziali e temporanee attuazioni) liberali, democratici, unitari. Si può dire che l’Italia nel corso del secolo XIX non abbia fatto se non attuare (e neppure interamente) quanto in tre o quattro anni, dal 1796 al 1799, fu propugnato, disegnato e anche iniziato.
Contro questo primo Risorgimento politico si erge il primo vero e proprio Antirisorgimento, di cui il Settecento non aveva offerto se non spunti. Si forma in Italia, nel passaggio da un secolo all’altro, una situazione che anticipa in qualche misura quella che abbiamo visto ai nostri giorni.
Le insurrezioni dei lazzaroni napoletani e di Fra Diavolo, delle bande di contadini toscani gridanti Viva Maria – e brucianti in Siena gli Ebrei -, dei sabaudisti seguaci di Brandalucione in Piemonte, si presentano in nome del patriottismo: esse vogliono cacciare lo straniero, che è il “giacobino”. Ma accanto a loro c’è un altro straniero, che è quello che decide momentaneamente la contesa a suo favore, l’Austriaco (con rinforzo di Russi e perfino di Turchi), e dietro a sanfedisti ed austro-russi c’è l’assolutismo, l’intolleranza religiosa, i privilegi nobiliari ed ecclesiastici, la schiavitù del pensiero, l’Italia debole, arretrata, serva, la vecchia Italia che doveva scomparire perché la nuova sorgesse davvero. E per la nuova combattevano i cosiddetti giacobini italiani, che non potevano fare a meno di appoggiarsi alla Francia, ma al tempo stesso resistevano alla sua prepotenza e reclamavano – con energia che poteva anche esser giudicata assurda, guardando alle circostanze – i diritti paritarî della nazione italiana.
Venne, dopo l’intermezzo napoleonico, la Restaurazione; e l’Antirisorgimento parve consolidarsi nella quiete generalmente invocata. Invece, è proprio il periodo della Restaurazione quello culminante del Risorgimento, in cui tutte le sue forze ideali, tutte le sue correnti diverse – mazzinianesimo, moderatismo, liberalismo radicale – si spiegano completamente, si intrecciano, si urtano, ma in conclusione confluiscono a scuotere la vecchia Italia, a gettar le fondamenta della nuova. Ed è l’esplosione del Quarantotto: questa volta, non sono solo pochi intellettuali o agitatori, non sono solo le élites, è il popolo italiano che si avanza sulla scena. La nuova Italia, la democrazia italiana comincia a realizzarsi del Quarantotto.
Parve allora che l’Antirisorgimento fosse sgominato, o anzi convertito: nell’entusiasmo per Pio IX la fraternizzazione risorgimentale sembrò completa. Non era così: di fronte ai “piani” e ai neoguelfi c’erano i gregoriani: coloro che preferivano il pontefice morto al vivo (a una apologia di Gregorio XVI abbiamo assistito anche oggi). E Pio IX diventò ben presto gregoriano egli stesso. Le vittorie militari dell’Austria, l’intervento francese, il fallimento della rivoluzione europea fecero il resto. Fu il trionfo dell’Antirisorgimento nella sua seconda fase, la restaurazione del 1849 dopo quella del 1814.
Trionfo ancor più effimero del primo. La prima Restaurazione si basava ancora su forze morali notevoli. Essa ebbe fautori disinteressati, penne di scrittori che la difesero con piena convinzione. Adesso, rimaneva in campo la sola pubblicistica clericale, la Civiltà cattolica, a rappresentare nel campo delle idee l’Antirisorgimento. Dei governi italiani, uno fa propria la causa risorgimentale, combinandola con una certe dose di conservazione politico-dinastica. Trova, su questa linea, l’appoggio del cesarismo napoleonico – misto esso medesimo di antico e di moderno – e trionfa, assorbendo tutti gli altri stati italiani. Il regno d’Italia sorge “per grazia di Dio e per volontà della nazione”. Nella formula approvata dal primo parlamento italiano è indicato il carattere composito dell’edificio, la combinazione di vecchio e di nuovo.
Nonostante ogni combinazione, ogni carattere composito, c’erano nel nuovo regime il principio di libertà, l’idea di sovranità popolare, germi capaci di sviluppo progressivo. La storia d’Italia dopo il 1870 – il Postrisorgimento – consiste appunto nelle vicende di quegli sviluppi, che furono talora anche regressi: tale fu certamente il periodo finale umbertino, dal secondo ministero Crispi a quello Pelloux. Ma il regresso non impedì la ripresa. Nel primo periodo del nuovo secolo, anteriormente alla guerra del 1914, si può ben dire che l’Italia stesse realizzandosi come democrazia nazionale, liberale e sociale: il proletariato si avviava a entrare in pieno nella vita della nazione. Non era una situazione consolidata, organica: vi erano possibilità concrete e prossime che lo diventasse.
Che cosa faceva intanto l’Antirisorgimento? L’Antirisorgimento agonizzava, e potremmo anzi dire che fosse morto, idealmente almeno. Anche nei momenti di regresso, anche nel periodo di reazione umbertino-crispina, o umbertino-pellouxiana, nessuno aveva osato rimettere in questione l’eredità ideale del Risorgimento: la libertà, la costituzione, la sovranità popolare. Si potevano fare, e si facevano, degli strappi pratici: non si impugnava il fondamento teorico risorgimentale dello stato italiano. Come Antirisorgimento ideale, non rimaneva se non la protesta cattolico-vaticana per la soppressione del potere temporale. Ma quella protesta era divenuta, da parte della stessa Curia romana, quasi puramente formale, mentre i cattolici italiani anche militanti avevano finito per non più occuparsene, e una parte crescente di essi prendeva parte alla vita politica, comprese le elezioni al Parlamento e l’entrata alla Camera, senza formulazioni di riserve per Roma italiana. Più in generale, la condizione delle relazioni fra Chiesa e Stato era espressa, paradossalmente nella forma, esattamente nella sostanza, dalla famosa frase giolittiana: le due parallele che non s’incontrano. Laicità nella libertà e nella pace religiose.
Pure, proprio a questo punto – a verificare, una volta di più, il carattere dialettico, antitetico, del corso storico – nasceva il nuovo Antirisorgimento: il movimento nazionalista. Era veramente nuovo, poiché si presentava (e certo era sinceramente creduto dai suoi iniziatori e seguaci) come un Ultra-Risorgimento, un Super-Risorgimento. Dopo la costituzione della patria italiana, esso ne voleva la espansione, la grandezza. Ma “non omnis qui dicit mihi, Domine, Domine, intrabit in regnum coelorum”. Non basta gridare “Viva l’Italia”, o “Viva la grande Italia” – più tardi “Viva l’Italia fascista” – per continuare davvero il Risorgimento.
La posizione ideale nazionalista consisteva in questo: accettando, e proponendosi di potenziare, l’Italia una, la Nazione italiana, esso riteneva che i principî ideali in cui nome lo stato unitario italiano si era realizzato, fossero da considerare come contingenti, transeunti, superati. Libertà, democrazia, laicità, umanità, erano ideologie: errate e vuote, secondo il dottrinarismo nazionalista. Avevano servito allora; oggi costituivano un impaccio, un pericolo, un danno. Occorreva sbarazzarsene: occorreva fondare il governo forte, lo Stato sovrano, che a null’altro pensasse, secondo nessun altro principio si regolasse, all’infuori della grandezza della nazione. Di fronte a questa scomparivano, annullati, rivelati nella loro inconsistenza, individui e umanità.
Lo spirito del Risorgimento era stato tutt’altro. Nella coscienza individuale esso aveva riposto la radice dell’idea italiana, e attraverso la libertà individuale aveva inteso realizzarla, e l’aveva di fatto realizzata, anche se con qualche ambiguità e incompiutezza. Per esso, il popolo italiano non doveva essere la materia maneggiata da uno o pochi superuomini per l’innalzamento dell’idolo Nazione; ma anzi il protagonista, la sostanza della nazione medesima. E il popolo, la nazione non erano stati per il Risorgimento il punto di arrivo, l’Ultima Thule: risorgendo, l’Italia doveva rientrare a far parte, in pieno, della civiltà europea, della vita dell’Umanità, e portare all’una e all’altra il suo contributo. Così avevano pensato e detto Balbo non meno che Cattaneo, Cavour non meno che Mazzini.
Quando nel dopoguerra il fascismo sorse, esso fu da principio un movimento incomposto, che non sapeva ciò che volesse, salvo questo: che gli avventurieri dirigenti il movimento intendevano salire, e tagliarsi la porzione più ricca possibile nella vita nazionale. Il fascismo primitivo era un qualunquismo anticipato, e armato. Al momento della vittoria esso – e per lui il suo duce – ritenne di dover adottare una ideologia: e fu quella nazionalista. La quale si prestava meravigliosamente a sopprimere la libertà, a instaurare la dittatura. Era tutto quello che Mussolini voleva.
Col regime fascista, l’antirisorgimento potenziale del nazionalismo divenne attuale. La libertà non fu soltanto svalutata in teoria: fu soppressa in fatto. La democrazia fu battezzata autoritaria, cioè non-democrazia. La sovranità popolare fu elusa e beffeggiata attraverso le elezioni plebiscitarie. La società delle nazioni, rappresentante sia pure imperfetta dell’ideale di una organizzazione mondiale, fu derisa e vilipesa, nell’atto stesso di parteciparvi. Infine, l’idea di Europa, l’europeismo, che era stato un contrassegno fondamentale del Risorgimento, fin dal Settecento, venne schernito e programmaticamente negato. Ricordate il movimento dell’Antieuropa.
Un contrassegno, una riprova decisiva del carattere antirisorgimentale del nazionalfascismo lo troviamo nella sua politica ecclesiastica. Incominciarono i nazionalisti alleandosi nelle loro prime lotte elettorali con i clericali. Non dico con i cattolici: con i clericali, i temporalisti del Veneto, tipo mons. Scotton. E Mussolini continuò, acquistando per il primo “plebiscito” del 1929 il concorso dell’Azione cattolica attraverso la conclusione di quel concordato che dal pontefice – il quale, evidentemente, doveva intendersene – fu definito uno dei migliori conclusi dalla S. Sede. E il Concordato, per sé, fu ancora il meno: il più consistette nell’alleanza che il fascismo mirò a stringere e in larga misura strinse con il clero (specialmente l’alto clero) per cui si poté parlare non senza fondamento di “clerico-fascismo”.
Non fu questa, tuttavia, l’ultima tappa dell’Antirisorgimento. Anzi, proprio dal campo cattolico – o almeno da Pio XI, alla vigilia della morte – venne qualche ammonimento al fascismo a fermarsi sulla strada dell’abisso. Mussolini non l’ascoltò, e precipitò in pieno nel nazifascismo. Grazie alla solidarietà politica, morale, e poi militare con il regime delle proscrizioni agli ebrei, dei campi di concentrazione, dei massacri a falciatura di mitragliatrici e nelle camere a gas, l’Antirisorgimento, l’Antieuropa divenne, puramente e semplicemente, Antiumanità. Il nazifascismo arrivò alla negazione formale del concetto di Uomo, sostituito con quello di razza o di casta privilegiata, in diritto di asservire o distruggere quanti ad essa non appartengono.
Occorre tener ben presenti questi dati morali per giudicare quale rinnegamento totale della tradizione del Risorgimento, dei valori posti da esso a base della nuova Italia, abbiano rappresentato l’Asse, il Patto d’acciaio, il Tripartito. Quando se ne abbia piena coscienza, cade ogni tentativo – a cui si indulge da molti ancora oggi, o anzi oggi più che mai – di considerare la guerra del 1939 come una competizione bellica ordinaria fra le grandi potenze, una semplice partita politico-militare come ce ne sono state tante nella storia: mentre in realtà fu una lotta di principî, una prova mortale della civiltà umana, degna di essere inquadrata nel dualismo di Zarathustra e dell’Apocalisse cristiana.
Portata dal fascismo nella guerra a fianco dell’Anticristo, l’Italia si trovò in una situazione spaventosa, in un dilemma lacerante. L’Italia sembrava non avere scelta fra la sconfitta militare – preparata dallo stesso regime fascista, con i suoi sperperi, con la sua pessima amministrazione che fece trovare il paese indifeso – la quale non poteva non farle perdere molto; e una vittoria la quale, ottenuta al seguito della Germania hitleriana, l’avrebbe fatta diventare vassalla di questa e le avrebbe fatto perdere tutto, a cominciare dall’onore.
Da questo dilemma, che ha angosciato le nostre coscienze di italiani, non c’era altra via di uscita se non che il popolo italiano, nei suoi elementi migliori, non si limitasse a simpatizzare nell’intimo della coscienza per la causa giusta, ma scendesse nel campo dell’azione, assumesse esso medesimo una parte attiva in favore di questa causa giusta, e quindi cancellasse quel marchio che il regime fascista e la politica dell’Asse e del Patto d’acciaio rischiava di imprimergli; il marchio di complice almeno passivo in questo tentativo di asservimento dell’Europa ad un regime contrario a tutti i fondamenti della civiltà. Occorreva che italiani liberi da qualsiasi obbligo, da qualsiasi vincolo, per la loro propria volontà, scendessero in campo impegnando la libertà e la vita. Allora l’Italia non sarebbe stata più passiva, ma attiva, e la vittoria della causa giusta sarebbe divenuta anche la vittoria sua e quindi il dilemma mortale sarebbe stato superato. Chi ha compiuto quest’opera necessaria, quest’opera nazionale ed umana, è stata la Resistenza, sono stati i Partigiani.
Senza la Resistenza, senza i Partigiani, l’Italia del postfascismo sarebbe stato semplicemente un paese conteso fra due occupazioni straniere, l’una delle quali avrebbe finito per rimanere unica padrona. Certamente, noi avremmo riavuto un governo regolare, un regime liberale-democratico; ma sarebbe stato un governo creato dallo straniero, un regime imposto dal vincitore. L’Antirisorgimento sarebbe stato materialmente sconfitto; ma il Risorgimento non avrebbe rinnovato la sua vittoria. L’Italia del secondo dopoguerra sarebbe stata nient’altro che una più piccola Germania, un più piccolo Giappone, in cui i popoli portatori della civiltà europea, campioni della vittoriosa civiltà umana avrebbero esercitato, con l’autorità del vincitore e dell’occupante, non solo la direzione politica, ma la sovranità spirituale. Il nostro paese, cancellato lo svolgimento autoctono del Risorgimento e del Post-risorgimento, sarebbe caduto al regime di democrazia formale imposta: il più umiliante e il più assurdo, anche per un popolo che non avesse avuto Cavour e Mazzini.
Se l’Italia conservò e riacquistò la sua autonomia nazionale; se essa ha potuto darsi una costituzione che avrà tutti i difetti che si vuole, ma è pur sempre fondata sulla libertà, la democrazia, la socialità; se essa è rientrata nel novero dei paesi civili e nel giro della vita internazionale, con figura propria, con coscienza propria, con diritti propri; se essa può guardare a un futuro, difficile sì, ma pur tuttavia contenente auspici di uno sviluppo sempre maggiore e più alto, è alla Resistenza che l’Italia lo deve.
Non è una questione quantitativa: non si tratta di pesare con avara bilancia il contributo materiale dei Partigiani alla vittoria alleata. È stato già dimostrato, coi dati alla mano, che, anche quantitativamente, questo contributo fu assai maggiore di quanto non si supponga solitamente dai più, pur benevoli. Ma al disopra della questione di quantità c’è la qualità. La stoffa del Resistente è stata la medesima di quella del patriota cospiratore di cento anni addietro; il braccio del Partigiano è stato degno di quello del combattente dei Mille. E lo spirito, soprattutto lo spirito, era il medesimo: per la libertà contro l’oppressione, per la giustizia contro la tirannide, per l’Italia contro lo straniero, per il Risorgimento contro l’Antirisorgimento.
Ma i Partigiani non uscirono di un tratto dalla terra, al batter del piede di un nuovo e più fortunato Pompeo. La Resistenza fu il sanguigno frutto maturo di una pianta robusta, dalle radici affondate nella storia d’Italia, nell’anima d’Italia: l’Antifascismo. L’Antifascismo fu prima, dietro, accanto alla Resistenza, così come le sopravvive, la difende e la continua. La Resistenza nel preciso senso militare della parola fu preceduta, preparata dalla Resistenza in senso lato: quella intellettuale, morale, politica, pubblicistica, propagandistica, cospiratoria. Come nel primo Risorgimento, la riscossa nazionale fu Pensiero e Azione, congiunti spesso nelle medesime persone, negli stessi organismi. Ebbe le sue correnti, le sue scuole diverse, in patria e nell’esilio; ebbe i suoi nuclei segreti e le sue associazioni pubbliche, la sua letteratura, i suoi foglietti volanti, i suoi processi, le sue prigioni, i suoi martiri: e ancora una volta il suo sangue fu seme di nuove piante e fiamma di nuovi incendi. La Resistenza poté salvare l’onore d’Italia perché prima l’Antifascismo aveva salvato la coscienza d’Italia. Come il primo Risorgimento, il secondo ebbe molteplicità di indirizzi, di gruppi, di partiti, talora anche lottanti fra loro. Ma come nel primo Risorgimento vi fu confluenza spontanea, integrazione morale, e anzi vi fu associazione e concordia volontarie più che non nel primo Risorgimento, perché più preciso, immediato, necessario era l’obbiettivo comune: la redenzione della patria, la liberazione dell’individuo. La meravigliosa collaborazione dei Comitati di liberazione nazionale fu anch’essa preceduta e preparata dalla solidarietà degli antifascisti. E non vi fu soltanto analogia spontanea, ricorso storico fra primo e secondo Risorgimento; ma ispirazione, coscientemente attinta dall’uno all’altro. I liberali rilessero i discorsi di Cavour; i socialisti meditarono Ferrari e Pisacane; i democratici si nutrirono di Mazzini. E anzi Mazzini, la coscienza più alta del Risorgimento, forse lo spirito più grande del secolo XIX, fu maestro a tutti, dai democratico-cristiani che si avvidero come egli sia stato un eroe della religiosità, ai socialisti e comunisti, che lo riconciliarono con Marx, nell’Olimpo di coloro che hanno dato un impulso decisivo al progresso dell’umanità. E Cavour venne terzo; poiché liberalismo e socialismo presero coscienza, in molte menti acute, in molti spiriti generosi, della affinità finale, della complementarietà esistente fra loro. Né fu un embrassons-nous, un “baiser Lamourette”; fu la solidarietà effettiva di una coscienza morale comune.
Lo storico dovrà pur registrare – anche le ignominie, anche le sciocchezze fanno parte talora della storia – il tentativo di pareggiare fascismo e antifascismo, come fratelli siamesi litiganti fra loro. Registrandolo, passerà oltre, scrollando le spalle. La storia non è qualunquista. Essa ha deciso da tempo, inappellabilmente, fra impero absburgico e popolo italiano, fra Borboni e unità d’Italia, fra Potere Temporale del pontefice e Roma italiana, fra giacobini e sanfedisti del 1799: e così ha deciso oggi tra fascismo e antifascismo. Gli uni hanno perduto e gli altri hanno vinto: vinto, intendiamoci, non solo materialmente, ma moralmente, idealmente. Die Weltgeschichte ist das Weltgericht: la storia del mondo è il Giudizio universale, il Giudizio di Dio. Individui e collettività, parlamenti e governi, partiti e chiese non hanno che da registrarlo. La Resistenza, nel senso ristretto e nel senso più largo, è il fatto fondamentale della nuova vita italiana perché è su di essa che si è edificato il nuovo Stato, è dalla sua opera che è uscita la nuova Costituzione: dalla sua opera proviene il fatto che finalmente l’Italia abbia completamente realizzato l’esigenza mazziniana, l’esigenza dell’autodeterminazione popolare, esplicita, completa, col voto del 2 giugno e poi con la costituzione elaborata dai legittimi rappresentanti del popolo.
La Resistenza non è stata un partito, è stata una associazione di partiti, o anche di senza partito, ma tuttavia raccolti in una fede comune: fede nella democrazia, fede nella giustizia, fede nella libertà. Questa fede è il fondamento morale, e anzi la base giuridica della nuova Italia; con essa e per essa matureranno i destini della Patria.

Luigi Salvatorelli