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    Predefinito Giuseppe Mazzini (Genova, 1805 - Pisa, 1872)








    Si raccolgono qui scritti di e su Giuseppe Mazzini...
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #2
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    Predefinito Re: Giuseppe Mazzini (Genova, 1805 - Pisa, 1872)

    Il socialismo di Mazzini


    Da D. Mack Smith, “Mazzini”, Rizzoli, Milano 1993, pp. 276-284.



    Alcuni critici di Mazzini dubitavano della sincerità del suo impegno democratico; altri, più plausibilmente, videro nel suo Partito d’Azione il primo movimento veramente democratico della storia italiana. Mazzini non ignorava che l’idea di democrazia poteva essere interpretata in molti modi diversi, e nemmeno che essa poteva essere manipolata o sfruttata da un tiranno come Napoleone III o anche da una Chiesa autoritaria. Sapeva anche che il suffragio universale esigeva un elettorato politicamente consapevole, che in Italia era assente, e che in ogni caso sarebbe stato lontano dal garantire un buon governo. Tuttavia l’estensione del diritto di voto a un gran numero di cittadini era la premessa essenziale alla diffusione della coscienza sociale del senso di una individuale responsabilità politica. L’esperienza di tutta una vita non gli aveva fatto cambiare idea su questioni come quelle. Insisteva anche nel dire che il governo doveva essere responsabile davanti al popolo e che la sua sopravvivenza doveva dipendere da un voto popolare; altrimenti, come era avvenuto in Italia a partire dal 1860, una ristretta classe di politici sarebbe stata tentata di governare nel proprio interesse, dopo aver dato egoisticamente per scontato che quell’interesse si identificava con quello dell’intera comunità. A dispetto di tutti i suoi discorsi sulla sovranità popolare, Mazzini sapeva che il Risorgimento era inevitabilmente un movimento di minoranza, e tuttavia era assolutamente convinto che il suo successo finale sarebbe dipeso dalla sua capacità di assicurarsi l’appoggio delle masse facendole maggiormente partecipi delle proprie conquiste.

    Marx tuttavia lo accusò di essere un “borghese reazionario” che, forse senza accorgersene, stava aiutando le classi privilegiate ad erigere, nell’Italia unita, un regime corrotto e tirannico. Tale accusa era una replica al violento attacco ai socialisti francesi, da lui accusati di aver favorito l’ascesa al potere di Napoleone III inimicandosi le classi medie coi loro discorsi gratuiti sulla confisca della proprietà privata. Mazzini aveva paura che, in Italia, una guerra di classe avrebbe prodotto facilmente una reazione simile a quella, avrebbe sicuramente ritardato sia la conquista totale dell’indipendenza nazionale sia lo sviluppo economico del paese. Aveva osservato che la borghesia era volubile, e l’appoggio più costante gli proveniva dagli operai, ma appartenevano alla classe media molti degli italiani più patriottici, più impegnati nel lavoro, più consapevoli politicamente; il loro contributo era assolutamente indispensabile, sia nel movimento sia alla testa del movimento. Era uno dei motivi che lo inducevano a insistere nel denunciare la divisione provocata dal comunismo, che, a suo vedere, non soltanto si basava su di una teoria economica sbagliata, ma si traduceva in un espediente illiberale e oppressivo, mediante il quale un piccolo gruppo di intellettuali intendeva impadronirsi del potere assoluto sull’intera comunità. Benché il comunismo rappresentasse una falsa utopia, Mazzini era certo che un giorno le classi lavoratrici si sarebbero viste riconoscere il loro ruolo di componenti primarie della società. Di ciò ci si sarebbe dovuti rallegrare; soltanto, si augurava “che, a forza di perseguire smodatamente i propri interessi materiali, non finissero per diventare, a loro volta, una nuova borghesia”. Del resto, non sarebbe stato tollerabile che una tale rivoluzione sociale venisse effettuata mediante la violenza e senza il consenso generale: come Mazzini disse a un amico, ogni ordinamento messo in atto mediante la violenza, anche se è in sé superiore a quello precedente, è sempre tirannide.

    Tuttavia Mazzini continuò a credere fino al termine della sua vita che il risorgimento politico sarebbe stato incompleto e avrebbe anche potuto fallire, se non avesse condotto a un mutamento di ciò che chiamava la scandalosa realtà degli attuali rapporti sociali. Ammetteva, come aveva già fatto in passato, che la Rivoluzione francese aveva fatto molto per l’affermazione delle libertà individuali; ma i risultati ottenuti non bastavano, perché, anche se grazie ad essi alcuni avevano raggiunto un benessere molto maggiore, non erano però state rimosse le ingiustizie sociali, e per la maggior parte della popolazione il livello di vita era migliorato di poco – se pure era migliorato. Non ci si poteva aspettare che sostenesse la legge e l’ordine una maggioranza popolare a cui erano quasi del tutto inaccessibili la giustizia e i tribunali. La sfrenata concorrenza generata dalla politica del laissez-faire, che, si diceva spesso, avrebbe inevitabilmente condotto a un aumento della produzione, aveva talvolta in pratica risultati opposti, in quanto abbassava i salari e riduceva le possibilità economiche dei comuni cittadini. Un motivo dell’arretratezza dell’Italia era – stranamente, forse – l’eccessivo individualismo. Soltanto da una maggiore cooperazione e da un più forte senso della comunità e dei doveri sociali sarebbe nata un’Italia prospera e veramente liberale; e soltanto se gli economisti avessero studiato la distribuzione tanto quanto la produzione, i necessari cambiamenti politici avrebbero avuto luogo con il consenso generale.

    A metà degli anni 1860 Mazzini, in anticipo sul suo tempo, chiedeva, fra le necessarie riforme sociali, l’assicurazione obbligatoria contro le malattie e la vecchiaia. Chiedeva anche l’abolizione della coscrizione: l’esercito di volontari di Garibaldi si era dimostrato assai più efficiente di quello regolare, e poi la relativa regolamentazione italiana era di un’iniquità spaventosa, in quanto consentiva ai ricchi di comperarsi l’esonero dal servizio militare, lasciando ai poveri il compito di combattere per un paese che negava loro il diritto di voto. Anche il sistema fiscale favoriva pesantemente gli interessi dei proprietari terrieri e doveva essere cambiato radicalmente, per ragioni di bilancio come di equità. Mazzini voleva la soppressione delle imposte indirette sui generi alimentari di prima necessità, che, oltre ad essere le più onerose a riscuotersi, gravavano soprattutto sui più poveri, su quelli, cioè, che riuscivano a mala pena a provvedere alle proprie più elementari necessità. In luogo di tali imposte si sarebbero dovute istituire un’imposta sul reddito proporzionata alla ricchezza e un’imposta sull’eredità che gravasse sulle grandi proprietà terriere. A sentire Myers, un suo amico inglese, l’idea di ricavare il grosso delle entrate fiscali da un’imposta sui redditi era, nella politica economica proposta da Mazzini, l’unico punto su cui si sarebbe trovato d’accordo un politico liberale del parlamento britannico.


    Vent’anni prima Mazzini aveva fondato una società di mutuo soccorso fra i lavoratori italiani di Londra, e negli anni 1860 propagandava il medesimo messaggio nelle conferenze domenicali che teneva a Hatton Garden ai “suoi lavoratori”. A quell’epoca promosse inoltre la costituzione di cooperative in dodici delle più importanti città italiane, sottolineando non soltanto i vantaggi economici della partecipazione alla proprietà e ai profitti, ma anche la necessità di aprire, per i loro membri, scuole gratuite, biblioteche circolanti e sale di lettura, e di assicurarsi contro le malattie. Il “Times” parlò a questo riguardo di “socialismo strisciante” e biasimò Mazzini quanto Marx, perché insistevano sui diritti del lavoro, sulle alte paghe e sugli orari ridotti, “lasciando al governo il compito di trovare lavoro a chi era incapace di farlo”.

    Tutto ciò era molto lontano dalla dottrina socialista della “mobilitazione delle masse” per la conquista violenta del potere; e tuttavia Mazzini sperava che il movimento cooperativo e l’unione, nei medesimi soggetti, di capitale e lavoro avrebbero dato inizio “a una immensa rivoluzione sociale che farà, per la fratellanza degli uomini, più di quanto abbiano fatto tutti i diciotto secoli del cristianesimo”. Si sentiva orgoglioso, Mazzini, quando pensava che si era battuto per quelle conquiste fin dal 1832: molto tempo prima “di tutti gli schiamazzi dei socialisti francesi”. Ai finanziamenti necessari si sarebbe potuto inizialmente provvedere con i pingui beni ecclesiastici, che il governo italiano stava già nazionalizzando per venderli a poco prezzo ai proprietari terrieri: era una grande ricchezza che poteva rendere molto di più se impiegata, secondo criteri molto più equi, per finanziare cooperative e piccole imprese agricole. Mazzini contava anche di costituire dei sindacati di lavoratori e di creare un’Unione sindacale nazionale, di modo che sarebbero stati i repubblicani e non i socialisti a dominare il nascente movimento della classe lavoratrice.

    Mazzini si rivolgeva soprattutto ai lavoratori delle città, fra i quali poteva trovare lettori la sua propaganda scritta, la sola a cui potesse ricorrere un esiliato come lui. Ciò lo esponeva alle critiche dei socialisti, che gli rimproveravano di trascurare i problemi della società rurale e di non tener conto del suo grande potenziale rivoluzionario; e tuttavia il problema dei contadini e di come coinvolgerli nella lotta era una questione che prese molte volte in esame. Mazzini vedeva nei contadini i principali produttori della ricchezza della comunità, nonostante che la loro indicibile povertà fosse una delle più avvilenti calamità che affliggevano l’Italia. Ciò che sapeva della Sicilia e della Russia gli faceva pensare che fossero, indubbiamente, in potenza, una forza rivoluzionaria; ma inevitabilmente ciò a cui erano interessati era un mutamento sociale ed economico, non un patriottismo che non erano in grado di comprendere. Una delle sue argomentazioni in favore di un’Italia unita era questa: a lungo andare, l’unità avrebbe portato la prosperità, e questa avrebbe consentito di curare la terribile piaga della miseria, mentre le jacqueries e le sommosse provocate dalla fame non avrebbero mai condotto a una rivoluzione vittoriosa. Al contrario: la minaccia di una guerra di classe contadina aveva prodotto risultati disastrosi, in quanto più d’una volta aveva allontanato la gente più povera dal patriottismo e al tempo stesso aveva costretto i liberali della classe media a ricorrere, per difendersi, al trono e all’altare.

    Quello dei contadini era un problema a cui si era trovato di fronte personalmente nel 1849. A Roma “il contado, l’elemento agricolo è non avverso, ma indifferente”: un segno positivo era stato, in quei mesi drammatici, il fatto che la popolazione rurale non si fosse sollevata per difendere la sovranità papale, e, al contrario, avesse accolto con favore le riforme agrarie che egli aveva tentato di introdurre. Ma era certo, Mazzini, che ogni tentativo socialista di fare dei lavoratori delle campagne i protagonisti della rivoluzione sarebbe finito assai male, e li avrebbe quasi sicuramente lasciati più poveri di prima. La loro inaffidabilità politica era tale che, nella guerra del 1848, molti di loro avevano sostenuto attivamente l’Austria; in occasione dei massacri di Pisacane e dei fratelli Bandiera avevano preso le parti del re di Napoli; e Garibaldi si vergognava di dover ammettere con costernazione di non avere mai avuto, nei suoi eserciti di volontari, un solo contadino.

    Non era tuttavia giustificata l’accusa, ripetutamente mossa a Mazzini, di ignorare la più numerosa delle classi sociali italiane. Dato che si trattava di analfabeti, dall’Inghilterra non poteva esercitare personalmente alcuna influenza su di loro con i suoi scritti propagandistici; in compenso, sollecitò ripetutamente quelli del suo partito a ricorrere, dovunque fosse possibile, a contatti individuali e alla propaganda orale; e a dare alla redenzione dei contadini la massima importanza e ad assicurarsi il loro appoggio; a fare di tutto per convincerli che una nazione unita e un governo rappresentativo avrebbero voluto dire, per loro, un’esistenza di gran lunga migliore. Con l’abolizione delle imposte locali sulla farina e sul sale, con la restituzione ai contadini dei sei milioni di ettari di terreno incolto di cui si erano abusivamente impadroniti i proprietari confinanti, e che spesso erano lasciati incolti, e – soprattutto – con la formazione di una nuova classe di piccoli proprietari, si sarebbe compiuta nella società italiana una grande, indispensabile rivoluzione.


    Marx e Mazzini a Londra abitavano a poche vie di distanza e si incontrarono almeno una volta in una riunione pubblica. Anche Marx fu sollecitato dai drammatici mutamenti sociali che erano in corso in Inghilterra a sviluppare una sua analisi, completamente diversa, della società, e le proprie tesi sulla necessità di una rivoluzione globale. Il leader comunista spregiava Garibaldi e rifiutò un’occasione per incontrarlo, ma il suo atteggiamento verso Mazzini era quasi di allarme e apprensione, oltre che di disprezzo. Le loro visioni erano assolutamente inconciliabili; Marx respingeva ogni religione trascendentale e guardava con sospetto al patriottismo, e altrettanto inaccettabili erano, per Mazzini, la condanna marxiana della proprietà privata e l’idea di una guerra di classe che sarebbe culminata nella dittatura del proletariato. Marx riconosceva che Mazzini aveva guidato per trent’anni la rivoluzione italiana, e che era “il più abile rappresentante delle aspirazioni dei suoi compatrioti”, ma i marxisti manifestavano talvolta un indicibile disprezzo per “la nobiltà posticcia, la tronfia boriosità, la verbosità e il misticismo profetico” che facevano, del più anziano Mazzini, un pericoloso anacronismo nella nuova èra socialista. Alcuni di loro ammettevano che egli rivestiva una funzione importante nel capeggiare l’unico gruppo radicale italiano che rifiutava di farsi corrompere e assorbire dalla classe dominante, ma altri lo accusavano di condannare i contadini a una schiavitù peggiore di quella che vigeva nell’antica Roma. Già nel dicembre del 1858, a Londra, un manifesto socialista metteva in guardia le classi lavoratrici dell’Europa contro un’alleanza con quel rappresentante del “repubblicanesimo borghese” e con i “cosiddetti democratici”.

    Nel 1864 alcuni socialisti inglesi simpatizzanti per Mazzini si unirono a un gruppo di esuli europei per porre le basi di quella che sarebbe diventata l’Internazionale socialista. Mazzini, che non stava bene, non partecipò alla seduta inaugurale, ma vi parteciparono alcuni suoi compagni, e il primo manifesto dell’associazione fu, disse Marx, “il solito minestrone di Mazzini”. Alle prime riunioni non presenziò neppure Marx, che però fu chiamato a far parte del consiglio generale, e, quasi immediatamente gli diede un indirizzo completamente diverso. Mazzini era troppo ammalato per potersi battere seriamente con un rivale più giovane, più spietato e politicamente più scaltro, anche se, due anni dopo, gli avrebbe proposto, inutilmente, una discussione amichevole sui loro contrasti. Quando si diffuse la falsa notizia della sua morte, il consiglio dell’Internazionale avrebbe voluto esprimere pubblicamente il proprio dolore per “la grande perdita che abbiamo subita”; ma Marx oppose il suo veto. Per il capo repubblicano fu una crudele delusione vedere come, dopo che molti dei suoi compagni meno radicali avevano cambiato bandiera passando dalla parte della monarchia, molti di quelli più radicali, ora, lo abbandonassero per unirsi o a Marx o a Bakunin; un indizio del fatto che lui, nella lontana Inghilterra, non era più in sintonia col modo di pensare della gioventù italiana. Poteva fare soltanto una previsione: la guerra di classe si sarebbe rivelata una beffa e, col tempo, avrebbe quasi certamente portato al despotismo. Marx, scrisse, era un uomo di acuta intelligenza, ma aveva nel cuore più odio che amore; era uno che poteva soltanto aggravare i contrasti sociali che avrebbero dovuto esser eliminati, o almeno mitigati.

    Michail Bakunin era stato, in un primo tempo, amico di Mazzini e suo ammiratore, anche se le sue tendenze anarchiche e federalistiche ne facevano un alleato poco affidabile. Nel 1862, a Londra, si vedevano spesso; a quell’epoca Mazzini difendeva Bakunin in polemica con Marx, mal nel 1866 i due erano in aperto disaccordo. Dopo avere studiato a fondo gli scritti di Mazzini, Bakunin li sottopose ad una critica radicale. La sua obiezione principale, e plausibile, riguardava la cooperazione fra capitale e lavoro, che, secondo lui, era un ideale irrealizzabile, perché la borghesia avrebbe semplicemente preteso, né avrebbe fatto concessioni su questioni di rilievo se non le venivano strappate con la lotta. Inoltre, credere in Dio era una imperdonabile stramberia; e la “detestabile teoria del patriottismo”, facendo il gioco della monarchia italiana, minacciava di fare dell’Italia uno stato ultra-accentratore e forse militarista, nel quale le risorse finanziarie sarebbero state sottratte alle riforme sociali e destinate al perseguimento della grandezza nazionale. Mazzini, diceva Bakunin, aveva impostato l’attività di tutta la sua vita su di un’idea sbagliata, quella dell’unificazione nazionale, pensando erroneamente che avrebbe risolto i problemi dell’Italia; e il nuovo stato non stava certo dando al mondo un esempio di libertà, di moralità, o di una maggiore uguaglianza sociale.

    Nei dieci anni successivi fu il pensiero di Bakunin, e non quello di Marx, a influenzare maggiormente il socialismo italiano. Pur non risparmiandogli critiche, il russo continuò a mostrare gratitudine, e anche affetto, nei riguardi dell’amico di un tempo. Mazzini, diceva, era criticabile perché, troppo preso dall’attività cospirativa, non si teneva abbastanza al corrente dei recenti sviluppi del pensiero politico, che, staccandosi dall’idealismo, si muoveva in direzione della filosofia positivistica e delle teorie socialistiche; ma non c’era nessuno, in Europa, che fosse, per nobiltà di carattere, più rispettato di lui. Bakunin gli riconosceva un’acuta intelligenza, gentilezza, altruismo, amore per l’umanità, e una totale indifferenza verso il proprio interesse personale. Era difficile conciliare quelle qualità col fatto indiscutibile che quel terribile leader repubblicano aveva tolto il sonno alla maggior parte dei governanti dell’Europa contemporanea.


    Al termine di una così lunga, splendida carriera, ha finito per trovare in noi degli implacabili nemici, anche se noi combattiamo a malincuore e senza alcun piacere contro quell’irriducibile avversario della rivoluzione […] Mazzini è l’essere umano più nobile e più puro che io abbia incontrato in tutta la mia vita: […] il fatto che esiste uno come lui basta, da solo, a dimostrare che, in un Europa in declino, l’Italia è ancor sempre una nazione grande e vigorosa […] Le sue insurrezioni sono tutte fallite; tuttavia […] esse hanno avuto, per la gioventù italiana, un immenso valore educativo. È stato Mazzini ad aprire gli occhi e a fare da guida ai giovani patrioti nel momento centrale del Risorgimento italiano: quella è stata la sua opera, grande e immortale […] Ma, distaccata com’era dalla vita reale delle masse, la sua impresa gigantesca, portata avanti dal più grande uomo del nostro secolo e da due generazioni di martiri e di eroi, ha prodotto, praticamente, una cosa senza vita.


    C’era un’ultima critica: le convinzioni religiose di Mazzini avevano finito per trionfare sul suo temperamento rivoluzionario. Tragicamente il decano degli statisti della rivoluzione rifiutava di cambiare idea ed era costretto ad assistere a eventi che, sfuggiti al suo controllo, prendevano una strada che altri giovani, ma non lui, volevano percorrere.

    Quando, alla fine degli anni 1860, l’influenza di Mazzini sembrava in declino, già altri critici si erano espressi con un differente misto di rammarico e di ammirazione. Pallavicino, già suo accanito avversario, riconosceva, ora, che i monarchici stavano portando l’Italia su una brutta strada, e che Mazzini era stato l’unico autentico rappresentante del patriottismo italiano. Secondo Herzen, Mazzini, suscitando il senso della nazionalità, aveva compiuto un miracolo; sfortunatamente, i risultati da lui ottenuti erano stati vanificati da una corte militaresca, che ripudiava i suoi ideali democratici e cercava di fare bella figura con le grandi potenze. Altri socialisti continuavano a professare una venerazione quasi religiosa per l’uomo che per trent’anni, solo, aveva mantenuto in vita la fede nella libertà, ma che, nel suo esilio, non aveva inevitabilmente familiarità con una società tanto diversa, che lui aveva tanto contribuito a far nascere. Alcune delle sue idee si erano dimostrare errate o esagerate, ma quasi magicamente, e a dispetto di ciò che credeva Bakunin, i principi essenziali dei suoi scritti – dicevano quei critici – erano felicemente penetrati nella coscienza delle “masse popolari”, portandole a un livello di consapevolezza politica che distingueva profondamente la nazione dall’Italia di trent’anni prima.

    Alberto Mario, un antico discepolo che aveva sposato Jessie White, si allontanò da Mazzini per unirsi a Carlo Cattaneo; per loro l’Italia avrebbe dovuto essere, oltre che una repubblica, uno stato federale, all’interno del quale le libertà regionali avessero la precedenza sulla stessa unità della nazione. Tanto Mario quanto Cattaneo, comunque, continuarono a provare per Mazzini ammirazione e affetto. Cattaneo viveva appena fuori di Lugano, dove era stato esiliato da Cavour; nel corso degli anni 1860 Mazzini si recò in Svizzera una mezza dozzina di volte, e in quelle occasioni le due più importanti figure del movimento repubblicano si incontrarono frequentemente. Cattaneo andava anche più in là di Mazzini nel deplorare la politica del partito di Cavour, che, col suo tentativo di imporre un’ “egemonia militare” nell’Italia meridionale, stava creando le basi per l’anarchia e la controrivoluzione. Il loro dissenso, benché irrisolto, era meno grave di quanto si sia talvolta immaginato: Cattaneo era d’accordo sull’unità d’Italia e Mazzini era favorevole a una certa autonomia regionale. Erano reciproche, fra loro, la stima e l’amicizia. Entrambi sollevarono serie obiezioni sul sistema politico imposto dalla monarchia nel 1861, e ne temevano l’effetto sul futuro della storia d’Italia. Mazzini fu l’ultima persona che Cattaneo riuscì a riconoscere sul suo letto di morte (1869).


    D. M. Smith
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    Predefinito Re: Giuseppe Mazzini (Genova, 1805 - Pisa, 1872)

    La straordinaria attualità del pensiero di Mazzini




    di Giovanni Spadolini - “La Voce Repubblicana”, 18-19 marzo 1987




    C’è un aspetto del pensiero di Mazzini che è di una sorprendente modernità. È quello che ha costituito il permanente motivo di attrazione per la scuola fabiana in Inghilterra (i coniugi Webb erano di formazione mazziniana) o per le grandi esperienze di pensiero nazional-riformatore, tipo Gandhi, con la tenace influenza mazziniana nell’India di oggi. Il suo superamento della lotta di classe; l’anticipazione, o il presentimento, di una società non classista, fondata su un’emancipazione del mondo del lavoro attraverso gli strumenti dell’associazione o della cooperazione, non attraverso le vie della contrapposizione marxista, la “guerra napoleonica fra borghesia e proletariato” come diceva Sorel, con dirette influenze su Gobetti e su Gramsci.

    Pochi sanno che la prima Internazionale, nell’Inghilterra degli anni sessanta dell’altro secolo, avrebbe dovuto essere mazziniana. Pochi sanno che lo scontro fra Marx e Mazzini fu su questo terreno senza esclusione di colpi, di una durezza assoluta. E non tutti ricordano – il libro di Nello Rosselli su Mazzini e Bakunin è troppo lontano – che il primo movimento operaio in Italia si identifica con i Patti di fratellanza mazziniani, una formula di associazionismo democratico, su base patriottica, che avrebbe dovuto scongiurare insieme il socialismo, come filosofia della lotta di classe, e l’internazionalismo, inseparabile dall’etica socialista.

    A fine ‘800 la partita non era stata vinta da Mazzini. I due partiti, socialista e repubblicano, nascevano come tali a distanza di tre anni l’uno dall’altro, fra il 1892 e il 1895; anche se il repubblicanesimo disponeva di un retroterra, in Italia, tanto più ampio, identificato con le lotte risorgimentali.

    Ma a fine ‘900, ormai orientati verso il 2000, tutto è diverso. Borghesia e proletariato non esistono più. Le classificazioni e anche le contrapposizioni classiste di una volta non hanno più senso dinanzi all’emergere impetuoso di un vasto e composito ceto medio dai connotati in gran parte inediti, che adombra i lineamenti di una “classe non classe” anticipata dai testi mazziniani. Insieme al veteromarxismo è stata sconfitta la sociologia confessionale, fondata sull’antinomia fra ricchi e poveri.

    Non esistono più le antiche maledizioni di una collera sociale che si rifletteva nelle impostazioni utopiche e messianiche dei movimenti cattolici. Ma esistono, più importanti e rilevanti che mai, i doveri dell’uomo: oggi molti più attuali dei saggi di ermeneutica marxista o populista. E c’è un secondo motivo dell’attualità mazziniana: il suo europeismo democratico, che fonda insieme patria e comunità.

    Giorni fa a New York sono stato al Central Park e rendere omaggio al monumento a Mazzini, che fu costruito dagli italiani, emigrati poverissimi nel 1878. Appena dopo il monumento di Buenos Aires, prima e molto prima dei monumenti in Italia. Dio e popolo. Patria e umanità. Sono le sole scritte di quei monumenti.

    Cent’anni fa erano parole in qualche modo “datate”. Oggi hanno un diverso suono. Dopo tutto quello che la barbarie di questo secolo ha fatto sperimentare dall’umanità.


    Giovanni Spadolini
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    Predefinito Re: Giuseppe Mazzini (Genova, 1805 - Pisa, 1872)

    Marx contro Mazzini




    di Giovanni Spadolini


    “Il signor Mazzini, da due anni papa della chiesa democratica in partibus”, scriveva Marx a Engels il 30 marzo 1852 col più crudo sarcasmo, “[…] nella sua altisonante maniera da domenicano strepita contro gli eretici, le sette, il materialismo, lo scetticismo, la babele francese, con altrettanta decisione con quanta qui a Londra lecca il sedere ai borghesi liberali”. La spietata polemica di Marx contro il grande apostolo italiano non rinunciò a nessuna delle armi della diffamazione, delle insinuazioni o della libellistica.

    Pur di colpire il suo pensiero, il suo apostolato, che contraddiceva radicalmente alla sua visione del mondo, Marx non esitò ad accusare Mazzini di collusione con le classi dominanti di Gran Bretagna e Francia: e “spillare danari alla Mazzini” fu una delle espressioni cui ricorse nel carteggio con Engels. Non si limitò mai ad attaccare la dottrina: volle colpire l’uomo. In occasione dei moti di Milano del 6 febbraio 1853, gettò un’ombra sul coraggio fisico del grande instancabile patriota, che aveva turbato i sonni di tutte le polizie europee (e l’impresa venne giudicata “miserevole” e “declamatoria”). Collegò la posizione mazziniana sul problema agrario in Italia col preteso finanziamento di esponenti censitari al movimento di agitazione.

    Non risparmiò nulla: neppure i valori più sacri. Nessuno degli ideali perseguiti da Mazzini era in grado di commuovere Marx. Non l’unità nazionale, che egli subordinò sempre alla rivoluzione sociale. Non la trasformazione religiosa, che giudicò anacronistica e impossibile. Non il culto del volontarismo, in cui vide poco più che un residuo di ribellismo e di indisciplina. Non la fede nella democrazia, cui oppose la fiducia assoluta nella lotta di classe. Non lo spirito romantico e umanitario, cui contrappose una concezione realistica e drammatica della vita, che accettava, per la guerra degli oppressi, gli stessi criteri della strategia di Clausewitz o della politica di Bismarck.

    Quel era l’origine prima di quell’avversione? All’indomani della grande rivoluzione del ’48-49, sia Mazzini sia Marx erano riparati a Londra. Ma il primo non aveva piegato alle delusioni e ai fallimenti, aveva tratto dall’esperienza della Repubblica romana la ferma volontà di riprendere la lotta appena possibile, di riaccendere il movimento delle congiure e delle cospirazioni, di non concedere un’ora di tregua alle forze della restaurazione: in pieno accordo con tutti quei settori dell’emigrazione democratica che comprendevano anche riformatori socialisti e agitatori proletari. Marx ed Engels, al contrario, avevano ripiegato sull’impossibilità di alimentare un qualunque movimento rivoluzionario in Europa. Agli occhi dei due fondatori del comunismo, la reazione trionfata sul continente non era solo reazione aristocratica e monarchica, ma soprattutto reazione borghese. Impossibile, quindi, collaborare coi rappresentanti del radicalismo e della democrazia, e necessario appoggiarsi sulle sole forze del proletariato.

    In perfetta antitesi a una tale valutazione, Mazzini non disperò mai di legare i ceti borghesi alla rivoluzione patriottica, e non si esaurì in un’angusta visione classista. La sua mèta era unitaria sul piano sociale come su quello internazionale. Da un lato il profeta guardava alla conciliazione di borghesia e proletariato, al superamento delle antitesi socialistiche: e fin da allora egli si oppose, in un discorso che Marx definì “insulso ed infame”, all’ “assurdo sogno del comunismo”. Dall’altro egli puntava a una riscossa coordinata dei popoli oppressi, a una sollevazione che riunisse le varie vittime dell’Impero austriaco e collegasse la causa della nazionalità italiana con quella delle nazionalità tedesca e slava.

    Cosa rispondevano Marx ed Engels? In una lettera del 5 febbraio 1851, Engels contestava ogni missione agli italiani, agli ungheresi e ai polacchi, invitandoli esplicitamente a “starsene a bocca chiusa in ogni questione moderna”. Tutti i capi dei movimenti nazionali o sociali, cui si collegava Mazzini, erano colpiti col veleno del più aspro sarcasmo; e se Blanc era chiamato “lo gnomo corso”, Lassalle sarà definito più tardi “il negro ebreo”.

    Mazzini? Egli si batteva a Londra per fondare scuole italiane, per alimentare il Comitato nazionale, per difendere, sulla penisola, le poche posizioni di resistenza antiaustriaca sopravvissute alla reazione; e Marx non esitava a insinuare, in una lettera al Weydemeyer dell’11 settembre 1851, che “egli lavora completamente nell’interesse dell’Austria, mentre stimola l’Italia all’attuale insurrezione”.

    Il problema dei contadini? Engels per primo aveva sostenuto nel ’48 che le masse contadine in Italia si appoggiavano alla reazione e che il 15 maggio napoletano era dovuto all’intervento, a favore del re spergiuro, dei “20.000 lazzaroni di Napoli”. Ma due anni più tardi, con la più sconcertante disinvoltura, Marx accusava Mazzini di non essersi preoccupato di trasformare i contadini in liberi proprietari, e aggiungeva: “Se a Mazzini non si aprono ormai gli occhi è un bestione”. “Senza dubbio”, continuava con quel sarcasmo che si nutriva implacabilmente al sospetto e alla diffidenza, “c’entravano gli interessi all’agitazione. Da dove prendere i dieci milioni di franchi, se ci si mette contro i borghesi? Come conservare la nobiltà ai suoi servi, se le si deve annunziare che si tratta anzitutto della sua espropriazione? Queste sono difficoltà per siffatti demagoghi della vecchia scuola”.

    Le ironie si alternavano alle calunnie: una volta è Mazzini che ha comprato con 10.000 franchi dei fondi italiani La Nation di Bruxelles per condurre la campagna contro il socialismo, e un’altra ancora sono Kossuth e Mazzini, questi “vecchi somari di cospiratori”, che si sono prestati a un’insidia e un tranello bonapartisti pur di sfogare il loro esibizionismo e la loro ambizione. Mazzini leader ideale degli esuli? Ma egli è solo “il capo di tutto l’imbroglio”, commenta Marx il 4 febbraio 1852, colui che “adopera Kossuth come una specie di portavoce, e nel suo studio crede di essere una specie di Machiavelli”. “Sempre il vecchio somaro”, ribadirà Marx l’8 ottobre del ’58, quando comparirà il primo numero di Pensiero e azione. Quella che il filosofo di Treviri gli riconosce è “una sorprendente povertà di spirito”. “Farla finita, per gli operai, col Dio e popolo”: è la mèta che segna i nascenti movimenti internazionalisti, Engels.

    L’apostolato religioso del mazzinianesimo? A uno dei primi manifesti sull’ “iniziativa” italiana, che sottolineava la necessità di una rivoluzione dei costumi, Marx risponde, scrivendo a Engels, il 3 marzo 1852: “Il signor Mazzini, mentre, come Pietro l’Eremita, tiene sermoni ai viziosi francesi, lecca intanto il sedere ai liberoscambisti inglesi, che incarnano così bene la devozione e la fede. Imbecille!”

    Cosa si salva, dei moti o degli ideali più generosi del Risorgimento? A proposito dell’insurrezione milanese del febbraio 1853, Engels riesce solo a ribadire gli argomenti degli “austriacanti” italiani: Mazzini, a suo giudizio, si è squalificato “col volgare sistema di crear dei torbidi assassinando dei soldati isolati, cosa che ripugna in modo particolare agli inglesi…” Sulla spedizione di Sapri, il commento di Marx è del 6 luglio 1857: “Il colpo di mano di Mazzini è proprio nella vecchia forma tradizionale. Se almeno quest’asino non ci avesse messo di mezzo Genova!”

    Una volta che Engels parla di Garibaldi, è per irridere alla nave mercantile che egli comanda in America e che rappresenterebbe “la flotta italo-ungherese nell’Oceano Pacifico”. Le conclusioni di Cattaneo nell’Archivio delle cose d’Italia per una federazione europea sono giudicate grottesche: “divertenti” è la parola testuale. La rivoluzione italiana, in un paese, “dove invece di proletari ci sono quasi soltanto lazzaroni”, “supera di gran lunga”, secondo Engels, “quella tedesca per la povertà delle idee e l’abbondanza delle parole”.

    Quando il Piemonte dichiara nel ’59 la guerra all’Austria, a fianco di Napoleone III, la maggiore preoccupazione dei due esuli è che l’iniziativa italiana contribuisca a indebolire l’impero austriaco, necessario antemurale contro l’espansione russa; e il saggio di Engels su Po e Reno è una specie di manuale di strategia, dove le regole della lotta di classe sono sacrificate al calcolo, disincantato, delle forze sul campo. E non si rasenta il paradosso, a proposito di ’59 e non di ’59 soltanto, se si afferma che l’avversione di Marx per i protagonisti del Risorgimento era inversamente proporzionale al loro “estremismo” ideologico e al loro “sinistrismo” tendenziale; ed è legittimo supporre che solo Cavour e la monarchia sabauda suscitassero in lui qualche segreta simpatia, un inconfessato rispetto.
    L’odio contro Mazzini si prolunga oltre la conclusione del Risorgimento. Quando i vari capi della democrazia in esilio elaborano, nel 1864, il primo testo del Manifesto ai lavoratori, Marx ha un solo obiettivo: stralciare tutte le frasi o le espressioni che comunque ricordino l’associazionismo mazziniano, gli ideali democratici riformatori e progressisti “mascherati coi più vaghi cenci del socialismo francese”.

    Il contrasto che lo divideva da Mazzini e da tutta la corrente repubblicana e democratica era di princìpi, di metodo e di costume: un contrasto in cui si intrecciavano e si sommavano tutte le componenti, politiche, psicologiche, di formazione, di carattere, di cultura, di gusto. Agli occhi della sua concezione storicistica e dialettica, il “Dio e popolo” di Mazzini, il suo sogno di una democrazia religiosa, non rappresentavano altro che un incomprensibile rigurgito del Medioevo, una rinascita di miti e di formule arcaiche e assurde; né Marx sospettò mai che quella posizione nascondesse l’ultima istanza di “riforma religiosa” in vista di unificare il cittadino e il credente al di fuori degli schemi tradizionali.

    Tutto era fatto per dividerli: al popolo di Mazzini Marx opponeva il proletariato, alla sua educazione l’autocoscienza, al suo associazionismo la lotta di classe, alla sua democrazia la dittatura popolare, alla sua provvidenza la dialettica infinita e incommensurabile della storia, ai “doveri dell’uomo” i diritti imprescrittibili degli oppressi.

    Mazzini negava il proprio tempo in un sogno superbo di “metanoia” democratica; la sua critica alla rivoluzione francese, all’enciclopedismo e all’illuminismo, la sua avversione per i “princìpi” dell’indifferentismo ateo nascondevano un ritorno a una visione religiosa della vita, la ricerca di una organizzazione supernazionale e universale capace di riunire e accomunare tutti gli uomini secondo la legge della democrazia, della fratellanza e del progresso. Marx, al contrario, non trascurava nessuno dei dati del pensiero moderno, non rifiutava nessuna delle lezioni della realtà contemporanea: il suo “socialismo scientifico” si innestava, o pretendeva di innestarsi, sullo stadio attuale della evoluzione capitalistica per trarne, in via di logica e di deduzione rigorosa, tutte le conseguenze e tutti gli insegnamenti. Per l’uno, la rivoluzione era un fatto di iniziativa, di coraggio individuale, di eroismi singoli, di barricate e di cospirazioni; per l’altro, nulla serviva che non fosse legato “al sentimento della storia”, come avrebbe detto Hegel, alla logica degli avvenimenti, sia pure interpretata drammaticamente e dialetticamente.

    Nelle pagine dei carteggi di Marx con Engels, gli scatti, le invettive, le ingiurie e gli insulti contro Mazzini, l’arrogante “Teopompo”, si alternano a quelle contro tutti i democratici europei di varia estrazione o formazione: dagli esuli ungheresi ai democratici germanici. E senza pietà.

    “Un lache et un misérable” è giudicato Kossuth, l’apostolo della rivoluzione ungherese. “Bestioni di ferro”, chiama in altra occasione i democratici tedeschi, rei di “credere sempre al suffragio universale” e di voler imporre al popolo “la loro pidocchiosa personalità”: tutte le responsabilità del fallimento del ’48 ricadono sulle correnti radicali e progressiste, e il linguaggio che Marx arriva a usare in questi casi è infinitamente più violento di quello che adoprerà contro la reazione o contro il militarismo.

    Fin dalle lettere a Engels, appare con estrema chiarezza il disprezzo della democrazia e del razionalismo che egli portò sempre con sé, il suo culto della forza, dell’organizzazione e della disciplina, la sua ammirazione per tutti coloro che riuscissero a “cambiare la realtà” e il suo disgusto per le prediche, i sermoni, le declamazioni religiose o pedagogiche (“padre Mazzini”, dice a un certo punto). Polacchi, ungheresi, italiani, tutti gli emigrati dei vari “risorgimenti” appaiono a lui come little tribunizi e irresponsabili, demagoghi impudenti e sfacciati, agitatori frenetici e incoscienti, sfruttatori del sangue, delle speranze e dei denari altrui: Louis Blanc, che lo invita a una riunione per un fronte comune dei socialisti, ne riceve una risposta “bismarckiana” e “imperiale”. A leggere i carteggi con Engels, il marxismo appare ancor meglio come l’ultima teoria aristocratica, l’espressione più drammatica e più intransigente del “machiavellismo”, della “volontà di potenza”.

    Lo dimostra l’estrema fase della lotta di Marx contro Mazzini, all’indomani della fondazione dell’Internazionale, sottratta a ogni condizionamento della democrazia repubblicana e universalistica. “Lanciare mine contro Mazzini”: è la parola d’ordine che segue al 1864. Non a caso i primi passi di Bakunin in Italia saranno guidati e sorretti dalle centrali marxiste col preciso scopo di contenere e annullare l’influenza mazziniana. Marx la paventerà sempre, e ancora negli ultimi anni dopo il ’70 ricorderà che gli operai italiani stavano in gran parte “in coda a Mazzini”.

    L’espansione del socialismo marxista fu indirizzata costantemente a strappare le posizioni conquistate dal mazzinianesimo. Lo “scaltro fanatico”, come lo aveva chiamato Engels, aveva parlato al cuore degli artigiani, dei primi nuclei operai, creando le basi di un movimento che avrebbe potuto sboccare, col tempo, a una forma di laburismo all’inglese. Fu quell’istinto “associazionistico” e “solidaristico” che Marx temette sopra ogni altro. Il profeta del Capitale vi scorse il germe di un sindacalismo di massa legato ai princìpi nazionali. E la sua negazione colpì, con Mazzini, tutti i valori del Risorgimento.


    G. Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia. La storia dell’Italia moderna attraverso i ritratti dei protagonisti, Longanesi, Milano 1989.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Giuseppe Mazzini (Genova, 1805 - Pisa, 1872)

    La missione religiosa e politica di Giuseppe Mazzini


    di Adolfo Omodeo – Dall’introduzione a G. Mazzini, “Scritti scelti”, Mondadori, Milano 1934; poi in A. Omodeo, “Il senso della storia”, a cura di Luigi Russo, Einaudi, Torino 1948, pp. 406-414.



    Chi legge le opere e l’immenso epistolario di Giuseppe Mazzini difficilmente si sottrae al fascino dell’uomo e all’ardore dei suoi affetti. Ma se dai suoi scritti cerca poi di ricavare un sistema, una piana teoria, vede svanire l’accento poetico, sente la puntura di proposizioni dogmatiche, l’inceppamento del cursus logico, e mette insieme qualcosa che ricorda i sistemi teologici ricuciti con massime evangeliche, o i commentari rabbinici del Vecchio Testamento, o l’esegesi coranica dei dottori musulmani. Ciò spiega come non sia mai esistito un vero mazzinianesimo, in senso stretto. Nella ricomposizione teorica qualcosa misteriosamente svapora. Chi ha esperienza della storia capisce che siam di fronte non ad un filosofo, ma ad una di quelle personalità in cui pensiero e azione sono indistricabilmente intrecciate: profeti ed apostoli che incarnano un momento dell’ideale umano, come i profeti d’Israele, l’apostolo Paolo, Maometto, Lutero; uomini la cui dottrina non può essere intesa se non compenetrata con la loro personalità e la loro intima esperienza. E man mano che gli anni la discostano da noi, la figura del Genovese, uscendo dagli oblii e dai dispregi dei contemporanei e della generazione immediatamente successiva, appare sempre più grande. Sentiamo com’egli sia l’esperienza religiosa che sta alla base della terza Italia, anche se restiamo fuori di questa o di quella particolare credenza sua e dal pavore della stretta osservanza della dottrina. Sentiamo com’egli abbia ancora qualcosa da dire alla nostra età.

    Il punto da cui mosse Mazzini era il pensiero religioso che chiudeva nell’animo di quasi tutta Europa, la storia tempestosa della Rivoluzione e dell’Impero. Uno dei più grandi geni umani aveva fallito nel tentativo di creazione demiurgica. La storia umana appariva perciò guidata non dalla mente e dal volere dell’uomo, fosse pure il più alto genio, non dal caso, ma da una provvidenza che supera gli accorgimenti politici e che drizza a ignote mete la nave dell’umanità. È un pensiero che circola con accenti diversi fra i reazionari e i liberali. Già gli scrittori reazionari, di fronte alla Rivoluzione, avevan proclamato che la catastrofe del vecchio mondo era il segno apocalittico o del nascere di una nuova religione o del rinnovarsi del cristianesimo. Questo motivo apocalittico, di Dio guida della storia e di una nuova fede che s’inaugura, sono le credenze fondamentali del Mazzini. Egli le trovava nell’aria nei giorni che seguirono la rivoluzione parigina del luglio 1830. Anche un sistema socialistico che allora ebbe il suo quarto d’ora di celebrità, il sansimonismo, sognava una nuova religione, un “nuovo cristianesimo” che consentisse una nuova struttura organica della società. Il Lamennais, già distaccatosi dai reazionari, dopo le tre giornate levava in vessillo il motto “Dio e libertà”, e prometteva nel cattolicesimo la forza rigeneratrice della vita sociale. Quando il Papa lo condannò, il Lamennais persisté nell’apostolato della nuova fede sociale, che doveva educare e formare la democrazia. La religione o vecchia, o nuova, o rinnovantesi s’era mescolata e si mescolava ai moti della nazionalità: nell’insurrezione spagnola che aveva distrutto il fiore degli eserciti napoleonici in nome del cattolicesimo, nella resistenza russa a Napoleone animata da una mistica fede popolare, nel rilevarsi della Germania protestante, nell’insurrezione greca contro il turco. Religione, patria e rinnovamento morale e sociale si mescolavano negli scritti degli esuli polacchi che la fallita rivoluzione del ’30-’31 disperdeva per tutta l’Europa. Il motivo biblico d’Israele disperso e flagellato si ravvivava presso questi polacchi. Essi chiedevano a Dio la restituzione della loro patria smembrata. Come penitenti confessavano le colpe che avevano attirato su loro il castigo; e speravano che Dio avrebbe loro restituito la patria quando più amore, più carità, più evangelica pietà avesse animato i figli della Polonia. La patria appariva il coronamento d’una rigenerazione morale e sociale e religiosa, d’una carità superiore agli egoismi individuali e di classe.

    In questa temperie di romanticismo politico-religioso, che dominò in vaste zone d’Europa fra il ’30 e il ’48, in questa sete di umana civiltà, maturò il pensiero di Giuseppe Mazzini, specialmente quando, gravemente indiziato di propaganda carbonara fu, nel febbraio 1831, inviato in esilio da Carlo Felice. L’entusiasmo non fu pel Mazzini come per altri – per esempio il Montalembert – una febbre di gioventù: ma la visione di un ordinamento divino in cui soltanto la sua vita acquistava un senso, in cui egli arrivava a concepire la risurrezione della propria patria e il còmpito della patria nel mondo. Poco questo suo pensiero si modificò col decorrere degli anni: egli rimase tenacemente fedele al “sogno della sua gioventù”, anche nel mutarsi del clima storico: quando i conservatori italiani lo deridevano come “papa Mazzini”, e Carlo Marx gli appioppava il nomignolo di Teopompo, per il colorito religioso teologico del suo evangelio. Come il profeta Geremia, gridò infaticabilmente la sua fede per tutta la vita, dolorando e spasimando. Operare nel mondo significava pel Mazzini collaborare all’azione che Dio svolgeva, riconoscere e accettare la missione che uomini e popoli ricevon da Dio e ambire all’iniziativa che dischiude nuova vie all’umanità; piegarsi al comandamento interiore, far centro della vita il dovere: senza speranza di premio, senza calcoli di utilità. Rapidissimo e continuo è lo scorrere del pensiero politico in quello religioso, e del pensiero religioso in quello sociale. Son tutt’uno. Le patrie e i popolo sono pensieri di Dio: le patrie esigono cittadini animati da una superiore coscienza umana. Bisogna suscitare e crear le condizioni sociali perché il popolo sia elevato alla patria e alla coscienza del dovere. Sicché se a traverso l’opera di chi è conscio della sua missione il popolo è formato ed educato, il popolo, là dove si levi ad affermarsi contro ogni tirannide, è l’estrinsecazione del pensiero divino: il profeta di Dio.

    La concezione democratica mazziniana è quindi nettamente antitetica alla dottrina dei diritti delle ideologie rivoluzionarie di Francia. La democrazia non è esercizio dispotico ed arbitrario di sovranità (o di tirannide) da parte del popolo; è piuttosto demofilia che democrazia. Vuol essere al tempo stesso redenzione del popolo dalle mitologie materialistiche che le diverse forme di socialismo vanno propagando. Questa democrazia deve risvegliare i popoli e porli sulla via di Dio, la via del progresso.

    In questo pensiero apocalittico sui tempi nuovi, il pensiero mazziniano ha insieme profonde somiglianze col pensiero mistico teocratico dei reazionari, soprattutto con Joseph de Maistre, e profonde differenze. Le somiglianze sono in una comune origine di un pensiero teosofico diffusosi specialmente nelle sètte alla fine del ‘700.

    Il divario per cui Mazzini si distacca dal pensiero mistico religioso dei reazionari e si ricongiunge ai liberali è nell’esclusione del concetto di espiazione, e nell’affermazione della fede nel progresso. Joseph de Maistre era stato il maggior assertore dell’espiazione umana. I dolori, le sventure e i flagelli che affliggon l’umanità non son che l’espiazione d’una colpa originale e d’una corrotta natura dell’uomo. Il Mazzini invece rinnega il concetto espiatore, che sarebbe l’espressione d’una perenne vendetta di Dio, e tende ad una visione dinamica della provvidenza (mentre la concezione reazionaria del Maistre tendeva alla stasi). Pel Mazzini tutta la storia dell’umanità è la progressiva rivelazione della provvidenza divina. Di tappa in tappa l’umanità ascende alla mèta predisposta da Dio: una civiltà è gradino ad un’altra; una fase si chiude ed una nuova s’inizia. Esauritosi e risoltosi il còmpito del cristianesimo in questa nuova fede del progresso, chiusasi piuttosto che iniziatasi una nuova èra con la Rivoluzione francese, il campo era aperto alle iniziative dei popoli e sopratutti all’iniziativa del popolo italiano. Sulla base della comune civiltà europea, livellata dall’alluvione rivoluzionaria, un nuovo edificio doveva sorgere: dovevan sorgere quei liberi popoli che, affermatisi contro Napoleone, erano stati defraudati e divisi dalla perfidia dei principi e dei diplomatici. Si apriva non la gara dei nazionalismi, bensì la nobile emulazione dei popoli.
    Alle nascenti o rinascenti nazionalità la democrazia francese nei cenacoli delle sètte, e, dopo le tre giornate, nella libera stampa, offriva il suo patronato: si vantava d’aver l’iniziativa dalla grande Rivoluzione in poi; sosteneva che gl’istituti nati dalla Rivoluzione e la civiltà francese avevano un carattere universale tale da consentire alla Francia un primato, un ascendente, un patronato su tutte le nazioni. Il Mazzini di questo primato francese diffidava: ricordava l’apostolato armato degli eserciti rivoluzionari francesi, che scuotendo i troni dei “tiranni” avevano assoggettato a nuova tirannide i popoli, e avevano impedito all’Italia di costituirsi: ricordava l’epoca in cui i migliori italiani avevano invano sospirato verso una loro unità che li redimesse dalla nuova servitù, e facesse valere l’Italia come forza. E non solo rintuzzava il primato egemonico rivendicato dalla Francia, ribadendo la fraternità dei popoli nell’eguaglianza, ma sosteneva ch’era venuta l’ora dell’iniziativa italiana, che non era egemonia ma esempio: iniziativa che doveva creare una terza civiltà non più con l’imperio delle armi, non più col dominio teocratico, ma con l’associazione dei liberi popoli, che devono proceder concordi verso la mèta da Dio fissata al progresso umano. La sete d’unità nata negli anni della Rivoluzione e dell’Impero in pochi pensatori isolati, si esaltava così nel pensiero mistico-religioso del Mazzini. Il progresso voluto da Dio è processo d’unificazione sempre più vasta, fino al termine, in cui, come dice l’Apostolo, Dio sarà tutto in tutti.


    L’unione e l’amore
    Rivelano ai popoli
    Le vie del Signore,


    riecheggerà l’inno mazziniano.


    Perciò tutta la tensione della fede mazziniana trova sfogo, diviene pratica ed attiva investendo questo concetto politico dell’unità italiana. Ogni altra questione, diviene secondaria di fronte a questa: anche il postulato repubblicano che non è altro che il corollario dell’autonomia morale del popolo cosciente della sua missione. Più volte, senza rinunziarvi apertamente, il Mazzini pospose l’esigenza repubblicana al compimento dell’unità. Bisognava che un nucleo d’Italiani balzasse col proprio vessillo nella gara dei popoli, desse garanzia per tutta la nazione, impedisse che l’Italia frammentata in piccoli Stati, sfuggendo all’Austria gravitasse poi, come un complesso d’asteroidi, intorno alla Francia. Bisognava che gl’iniziatori ridestassero con l’esempio, con l’educazione, col sacrificio, il popolo dal suo torpore, e lo guidassero verso una più ampia giustizia sociale. L’Italia doveva “miracol mostrare”: ritrovare nella nuova fede il viatico per la terza civiltà da dare al mondo.
    Invano dai cauti si gridò folle il sogno d’unificar l’Italia da secoli e secoli divista in regioni non omogenee, e di far precedere o almeno saldare l’indipendenza e la libertà all’unità nazionale. Invano contro il moto unitario repubblicano si coalizzarono e l’Austria e i principi italiani, e persino l’interesse nazionale francese, rappresentato non solo dai conservatori, ma anche dagli ultrademocratici e dai socialisti (il Proudhon ad esempio fu uno dei più fieri avversari dell’unità italiana). La fede per affermarsi aveva bisogno d’un còmpito apparentemente sovrumano. Il Mazzini – lo riconosceva egli stesso – operava sì nella politica, ma mosso da un imperativo religioso. Sfuggiva alla presa avversaria. Nessun rovescio politico era capace di fiaccare quella forza. Ciò che avrebbe piegato alla rassegnazione e al silenzio l’uomo di pura prudenza, non aveva presa sul profeta del progresso e delle nazionalità. In anni più avanzati, quand’egli sarà in polemica col conte di Cavour, il Mazzini negherà persino la necessità di un processo di unificazione, che potesse far ritenere l’unità come qualcosa di artificiale e di avventizio. L’unità doveva rivelarsi d’un subito, improvvisa come una creazione divina.

    Questo slancio religioso unitario consentì al Mazzini di sgombrare, sin dai suoi primi anni d’esilio, il terreno dalle cautele e dai pavori della Carboneria. Gridò forte che la Carboneria era un detrito del scolo XVIII, un’istituzione senile, che occultava i fini nazionali, che dovevan esser banditi dai tetti, nelle gerarchie segrete; che borghesemente pavida, non osava invitare il popolo alla rivendicazione di una patria, quando il punto essenziale era di affermare al mondo l’esistenza dell’Italia e di una fede italiana suggellata col sangue: e poneva tutte le sue speranze in oscuri complottamenti con questo o quel principe, che avrebbe tradito alla prima occasione.

    E sulla Carboneria ebbe pronto trionfo per la stessa vigoria della sua fede. La Giovine Italia che entrò in campo, ebbe appena le parvenze di una setta: quel minimum che doveva ripararla dalle polizie. Voleva esser società di propaganda, voleva attingere e commuovere i ceti popolari e sopra tutto l’artigianato delle città. Liberando gli uomini dal vincolo del cattolicesimo reazionario di Gregorio XVI, non voleva abbandonarli nella incredulità negatrice ed atea, ma fasciarli di fede e di coraggio.

    Lo storico che a più di cento anni considera la formazione del Risorgimento deve riconoscere l’importanza capitale di questo trasferimento su basi religiose del problema apparentemente politico della ricreazione della nazione italiana: sì che tutta una visione della vita e una fede in Dio s’appuntano e gravano con implacabile esigenza sul rinnovamento del popolo italiano, e creano una tensione estrema d’animi, un arroventamento d’amore e di passione. Solo così si giungerà al punto critico in cui la materia refrattaria e sorda avrà la plasticità necessaria. Né voleva dir molto se quest’ardore si svolgeva a traverso insuccessi e martiri. Raggiunta quella tensione di fede, l’ordine logico e comune degli avvenimenti veniva capovolto; la disfatta non provocava l’abbattimento, il successo degli avversari non si consolidava in ordine stabile.

    Il Mazzini e la Giovine Italia per logica intrinseca devono agire contro ogni criterio puramente politico. L’entusiasmo religioso, nemico d’ogni opportunismo, dà all’azione rigidità testarda e il coraggio d’affrontar la lotta nella situazione più difficile, senza grandi probabilità di successo. Nessuna transazione con la diplomazia, nessuna tregua, continui conati insurrezionali nell’attesa d’una risveglio del popolo: attacco simultaneo contro tutte le forze ritenute avverse, non solo in Italia ma in tutta l’Europa, che deve essere il campo dell’iniziativa italiana: contro Luigi Filippo non meno che contro l’Austria. V’era un completo difetto di calcolo: quasi da visionario. Il Mazzini è contratto nel risvegliare il popolo. Poco si cura del modo di riafferrare poi e dominare le forze sprigionate. L’insurrezione secondo lui doveva avere una forza divina intrinseca che si sarebbe affermata da sola. Era insieme difetto e pregio. Come il biblico Mosè, l’agitatore genovese doveva restar senza premio. Suscitò continuamente energie, affascinò per quarant’anni ogni ondata di gioventù che s’affacciasse alle soglie della vita, e intanto gli anziani gli sfuggivano. Dissodò esplosivamente il campo, e indebolì i governi italiani; ma non ebbe la duttilità e la mutevolezza necessarie per dominare e imprigionare razionalmente le forze. Un altro uomo era necessario a quest’impresa: il compito del Mazzini fu invece quello di creare l’animus. Quando pareva che ogni via fosse preclusa, ecco per opera sua la gioventù italiana sacrificarsi in una suprema protesta. I sacrifici parevano sterili. In realtà i governi italiani si trovarono in una situazione impossibile, in un’epoca in cui i governi erano giudicati dalla coscienza pubblica sensibilissima e d’Italia e d’Europa. La tragedia della Giovine Italia impose il problema italiano a una sempre più vasta sfera d’Italiani; che reagì sì con un programma più moderato, ma infine entrò in azione e l’impose alla stessa diplomazia. Quasi tutti i maggiori uomini del Risorgimento passarono in un momento della loro vita a traverso il mazzinianesimo. Pochi vi restarono. Non potevano serbarsi nella contrazione convulsa della apocalittica mazziniana: l’animo poi aveva bisogno di distensione e di pacato esame degli uomini e delle cose. La religione patria della Giovine Italia, la contemplazione dell’ordine organico da Dio imposto ai popoli e alla storia aveva qualcosa d’oppressivo. Sentivano un elemento teocratico e anche visionario mortificante il libero slancio della vita; per quanto poi nella realtà il Mazzini fosse rispettosissimo delle coscienze altrui e la Giovine Italia fosse ben altrimenti libera da settarismo che non la Carboneria. Vi eran nel mazzinianesimo alcuni elementi teologali che non si risolvevano del tutto in religione: v’era poi un inconscio prepotere dell’uomo: prepotere dovuto non ad ambizione personale, ma al fatto stesso che il maestro era in certo modo un rivelatore della nuova fede. Gli uomini si stancavano, si staccavano e si rinnovavano come l’onda di un fiume sempre scorrente. Spesso lo prendevano in uggia e lo detestavano. Ma ciò nonostante dopo che il Mazzini li aveva strappati via dalla loro prima vita, e scagliati nel turbine degli eventi, restavano avvinti pur sempre alla causa nazionale. Dal Mazzini avevano appreso a guardare sinteticamente ai problemi d’Italia. Potevano mettersi appresso al Gioberti e al Cavour, vagheggiare per un momento soluzioni federalistiche; ma in concreto avveniva che non fossero più capaci di aderire agli interessi di uno stato puramente regionale, pel grandeggiare delle idee italiane. Gli Stati regionali perdevano così ogni residua energia, il riordinamento unitario d’Italia s’imponeva di necessità agli stessi antimazziniani.

    Per tale processo il Mazzini vedeva nel ’59-’60 compiersi l’unità d’Italia per opera altrui, del detestato Cavour e di Garibaldi insofferente al suo autoritarismo. La più tragica abnegazione veniva imposta all’apostolo del dovere senza mercede: la sua opera era confiscata a vantaggio della monarchia e di quei moderati che avevano irriso al suo sogno unitario.


    Adolfo Omodeo
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    Predefinito Re: Giuseppe Mazzini (Genova, 1805 - Pisa, 1872)

    L’influsso rivoluzionario di Mazzini in Europa


    di Rosario Romeo – “Nuova Antologia”, a. CXXII, fasc. 2161, gennaio-marzo 1987, Le Monnier, Firenze.

    Gli opposti giudizi sull’opera di Giuseppe Mazzini che già divisero i contemporanei si riflettono, in certa misura, anche nella storiografia successiva.
    Per alcuni, egli fu il profeta di una nuova era e di una nuova religione, il pensatore che meglio e più completamente di ogni altro seppe cogliere il senso e i valori dell’Europa delle nazionalità.

    Ad altri le sue dottrine sono invece apparse prive di ogni originalità, coacervo incoerente di elementi diffusi in tutta la cultura dell’epoca romantica, che egli si ostinò a riaffermare anche quando l’Europa positivistica della seconda metà del secolo li aveva in gran parte abbandonati.

    Da un lato, al rivoluzionario instancabile che per oltre quarant’anni ordì le sue cospirazioni sempre rinnovate contro i poteri costituiti si è attribuito, come già fecero Metternich e i sostenitori dell’ordine sancito dai trattati di Vienna, il ruolo di maggiore e più pericoloso avversario dell’Europa dei re, largamente responsabile della sua crisi e del suo crollo finale; dall’altro, si è messa in rilievo la debole consistenza delle trame mazziniane, la modesta dimensione delle forze da lui messe in movimento, il fallimento sanguinoso dei suoi tentativi di insurrezione[1].

    In questa come in altre questioni storiografiche è probabile che il dissenso derivi in buona parte dall’unilaterale rilievo che molte analisi attribuiscono ad alcuni aspetti della realtà, certo importanti e sostenuti da valide prove, ma che tuttavia acquistano la loro giusta luce solo in un contesto che spesso viene invece trascurato. In questo studio si cercherà dunque di mettere in rilievo i nessi interni di tale contesto, tentando di evitare la facile giustapposizione di elementi diversi e di individuare invece relazioni logiche e dotate di valore esplicativo, nel senso in cui questa espressione può avere legittimità in sede storiografica.


    1. Sulla scarsa originalità del pensiero mazziniano è ormai rimasto poco da disputare. Mazzini non ebbe mai interessi specificatamente filosofici, sul terreno decisivo della teoria della conoscenza.

    Si appropriò invece di un vasto apparato di dottrine pratiche, ed essenzialmente morali e politiche, le cui fonti sono state attentamente individuate all’interno della cultura romantica dominante negli anni venti e trenta, da Manzoni, Foscolo e Vico (letto attraverso la traduzione di Michelet) a Goethe, Schiller, Schlegel e Herder (tradotto da Quinet), da Byron ai liberali e democratico-socialisti francesi, da Guizot e Cousin fino a Buonarroti, ai sansimoniani, Pierre Leroux, Fourier e George Sand.

    Il nuovo valore attribuito alle nazioni, ciascuna portatrice di una sua specifica missione, era, dopo la Rivoluzione e la riscoperta del significato della storia in polemica col razionalismo settecentesco, uno degli indirizzi fondamentali del nuovo pensiero e della nuova sensibilità, insieme con l’attesa di un’era ispirata a una nuova religiosità, che avrebbe preso il posto del Cristianesimo ormai esaurito e assicurato il trionfo dei valori spirituali e collettivi sull’individualismo materialistico del XVIII secolo, gettando così le basi di una nuova autorità.

    Tutto questo nell’atmosfera di un fervore morale simboleggiato dal nesso inscindibile fra pensiero e azione, che Mazzini riconoscerà di avere fin dall’inizio appreso e ammirato negli uomini della Carboneria e nei sansimoniani, che gli parvero “libri viventi, e non semplici pensatori”[2]. Ma su questo sfondo l’esperienza dei primi anni di impegno politico farà nascere in Mazzini la convinzione che l’iniziativa rivoluzionaria in Europa era ormai sfuggita alla Francia, e che dunque spettava ad altri, e in particolare all’Italia, di assumerla e farsene portatrice.

    La delusione seguita alle grandi attese suscitate dalla Rivoluzione di luglio, che ai liberali di tutta Europa era sembrata il segnale di una ripresa della marcia liberatrice delle armate francesi e che invece era sboccata nella monarchia borghese e rinunciataria di Luigi Filippo e nell’abbandono della Polonia insorta, si sommava, in uomini come Mazzini, alle delusioni anche più amare seguite ai moti italiani del 1831. Riponendo ogni speranza nell’appoggio francese, i governi provvisori di Bologna e delle altre città insorte avevano evitato di mobilitare i ceti popolari, per poi cedere senza resistenza all’invasore austriaco: quando, a giudizio dei rivoluzionari più decisi, si sarebbero dovute bruciare le città e continuare la lotta sui monti e nelle campagne, dove la guerriglia popolare sarebbe stata invincibile[3].

    Se dunque fra il maggio e il giugno 1831, nella celebre lettera aperta a Carlo Alberto, Mazzini faceva ancora cenno alla imminente ripresa della spinta rivoluzionaria in Francia, qualche anno dopo la polemica sulla funzione di Parigi, nella quale egli si rifiutava di riconoscere il cervello del mondo e il motore della rivoluzione europea, fu uno dei motivi fondamentali della sua rottura con Buonarroti e con l’Alta Vendita della Carboneria.

    Del resto, già nel 1831, insieme con Domenico Nicolai e con Carlo Bianco di Saint-Jorioz, Mazzini aveva rivolto un Appello agli italiani in cui essi venivano chiamati alla “guerra nazionale”, e si affermava che “l’albero della libertà non getta profonde radici… se da cittadino sangue non è fecondato”, e che “la libertà della patria è dono della risorta dignità italiana”[4]. Attraverso le polemiche degli anni che videro la fondazione della “Giovine Italia” (maggio-giugno 1831) e della “Giovine Europa” (15 aprile 1834), queste posizioni mazziniane, consolidate dal giudizio negativo sui falliti tentativi insurrezionali francesi di quel periodo, presero la forma definitiva che sarà espressa nell’articolo De l’initiative révolutionnaire en Europe apparso nella “Revue républicaine” del gennaio 1835.

    La rivoluzione francese, affermava Mazzini, aveva chiuso un’epoca, l’epoca dell’individualità e dei diritti. L’età nuova sarebbe stata invece l’epoca dell’umanità e del dovere, destinata a realizzarsi per opera delle nazionalità, stadio superiore al vecchio cosmopolitismo settecentesco.

    La Francia aveva dunque perduto la sua funzione iniziatrice, che sarebbe spettata d’ora in avanti al popolo o ai popoli più capaci di avvertire i bisogni e di esprimere il significato della nuova era di progresso attesa dall’umanità. Di conseguenza, scriveva Mazzini, “il progresso attuale per i popoli sta nell’emanciparsi dalla Francia; il progresso attuale per la Francia sta nell’emanciparsi dal XVIII secolo e dalla sua rivoluzione”. Il che, precisava, non significava “reagire” contro la Francia; ma piuttosto “convincersi che… il potere d’iniziativa si è spostato; che esso è dovunque e appartiene solo alla fede e all’azione”. Si doveva dunque “studiare la Francia, ma senza rinnegare ogni spontaneità, ogni indipendenza… senza condannarsi a una vergognosa e cieca passività”[5]. Occorre aver chiaro il nesso, di straordinaria importanza, fra questo giudizio e gli imperativi morali e politici che ne derivavano. Se l’iniziativa rivoluzionaria non spettava più alla Francia, ciascun popolo aveva il diritto e il dovere di raccoglierla per dare in tal modo un nuovo impulso al progresso di tutta l’umanità. L’unità di pensiero e azione si poneva come dovere morale e politico per tutti e per ciascuno; la passiva attesa dall’aiuto francese non aveva più alcuna giustificazione; e in tal modo ogni nazionalità era in grado di conquistare la propria indipendenza politica e ideale, che doveva essere indipendenza anche e soprattutto dalla Francia, perché la nuova Europa democratica e repubblicana come non ammetteva più un “uomo-re”, così non ammetteva un “popolo-re”.

    Diffusa in ogni popolo e in tutta Europa la missione dell’iniziativa rivoluzionaria acquistava in tal modo una imperatività morale che era invece mancata ai tentativi isolati e sconnessi della vecchia Carboneria. Su questi insisteva con estrema chiarezza l’ “Atto di fratellanza” della “Giovine Europa”: “ad ogni uomo, e ad ogni Popolo spetta una missione particolare, la quale, mentre costituisce la individualità di quell’uomo, o di quel Popolo, concorre necessariamente al compimento della missione generale dell’Umanità”. La missione di ciascun popolo, precisa lo “Statuto” della stessa associazione, “costituisce la sua Nazionalità. La Nazionalità è sacra”[6].

    Dopo le due guerre mondiali si è talora discusso, e non solo in Italia, sui caratteri propri della dottrina mazziniana delle nazionalità. In polemica dapprima contro l’interpretazione “imperialistica” di Giovanni Gentile, massimo filosofo del fascismo, e poi contro le dottrine razzistiche del nazionalsocialismo, si è insistito sulla solidarietà che il rivoluzionario genovese vedeva nella causa di tutte le nazioni, e in particolare sulla preminenza che egli attribuiva ai fattori spirituali della coscienza e della missione nazionale in confronto agli elementi “naturalistici” della identità di stirpe, di lingua, di tradizioni e di storia: così che la sua dottrina sarebbe da accostare alla teoria di Ernest Renan sulla nazione come “plebiscito di ogni giorno”, piuttosto che al pensiero tedesco, di derivazione soprattutto herderiana, che nella nazione vede una manifestazione della spontaneità creativa della vita e della natura, quale si realizza nelle diverse espressioni di ogni individualità nazionale.

    Ma la questione non ha molto fondamento. Uomo del suo tempo, spiritualista e romantico, Mazzini non fece mai posto alla dottrina rousseauiana della nazionalità come proiezione dei diritti di libertà propri di ciascun individuo; così come non prese parte alle polemiche francesi seguite all’annessione dell’Alsazia-Lorena nel 1871.

    Per lui, l’appartenenza alla nazione italiana di tutti coloro che vivevano al di qua del cerchio superiore delle Alpi, dalle foci del Varo a occidente sino a un limite orientale che talora collocò a Trieste e talora estese a tutta l’Istria, oltre che alle isole di lingua italiana, non fu mai cosa che potesse esser messa in discussione senza delitto di lesa-patria. Certo, affermò più volte che senza coscienza nazionale non v’è “nazione” ma “gente”[7]: ma si trattava di esortazioni politiche e morali, non di definizioni a carattere storico e descrittivo. Egli poteva dunque asserire che gli italiani, come qualunque altro popolo, erano “gente” e non “nazione” fino a quando erano privi di libertà: ma non ebbe mai dubbi, com’è chiaro, che appunto dall’essere nazione derivava agli abitanti della penisola il diritto e il dovere di battersi per la propria libertà.

    La negazione del diritto d’iniziativa alla patria della Grande Rivoluzione non passò, naturalmente, senza contrasto in terra di Francia. Già in occasione dell’articolo sopra ricordato di Mazzini sulla Initiative révolutionnaire en Europe, uno dei direttori della “Revue républicaine”, Jean-François Dupont de Bussac, lo fece precedere da una avvertenza nella quale rivendicava alla Francia un diritto di iniziativa nascente non già da pretese di supremazia ma dalla forza che essa sola possedeva e che mancava invece ad altri popoli, come dimostrava l’insuccesso degli ultimi moti nazionali[8]. La stessa convinzione esprime Louis Blanc nella Histoire de dix ans[9], e il contrasto su questo punto, e sul materialismo rimproverato da Mazzini ai socialisti francesi condusse, dopo il 1848, a una totale rottura.

    La maggioranza dei democratici e socialisti francesi – con la parziale eccezione di Ledru-Rollin – restava infatti fedele all’eredità del secolo XVIII, individualista all’origine ma resa universale dal messaggio della Rivoluzione francese. Ciò non significa, come pure si è sostenuto, che lo spiritualismo romantico di Mazzini dopo il 1830 apparisse già antiquato in Francia[10], dove invece correnti analoghe continuarono ad avere gran posto fin oltre la metà del secolo. Ma anche i democratici francesi di formazione romantica rifiutavano il giudizio mazziniano sulla fine della missione francese.

    Un posto a parte va poi riservato alla polemica antimazziniana di Proudhon, persuaso che lo Stato nazionale era espressione di interessi antipopolari e strumento di sopraffazione, oltre che ostacolo a quel rinnovamento liberatorio e federalistico che solo poteva garantire alla Francia e agli altri paesi i benefici del socialismo e della pace[11].

    Nell’unità italiana auspicata da Mazzini Proudhon vedeva anche una punta antifrancese[12]; e di ciò era anche convinto Auguste Blanqui[13]. Alcuni anni più tardi, quando, nel gennaio 1861, sembrava imminente un attacco italiano nel Veneto, tre esponenti tedeschi, e cioè il noto socialista conservatore Carl Rodbertus-Jagetzow, l’ecclesiastico Philip von Berg e il democratico Lothar Bucher, pubblicarono una dichiarazione nella quale, difendendo l’interesse tedesco a conservare il Veneto all’Austria, si rimproverava a Mazzini di essere mosso da ambizioni nazionalistiche, in relazione alla missione universale ch’egli attribuiva alla nuova Italia come “Terza Roma”[14]. Mazzini replicò affermando che gli pareva di potere senza colpa coltivare quella idea, nel nome di un paese che, solo in Europa, subiva al tempo stesso l’oppressione materiale degli Asburgo e quella spirituale del Pontefice. Da parte sua, egli invitava i tedeschi a tentare anch’essi di assolvere una analoga missione. “Afferrate – scriveva – l’iniziativa morale che voi m’accusate di volere per la mia patria: noi v’applaudiremo con entusiasmo: vi seguiremo sulla bella via: compiremo grandi cose con voi. L’emulazione è il segreto della grandezza dei popoli”; e concludeva: “io sono italiano, ma uomo ed Europeo ad un tempo. Adoro la mia patria perché adoro al Patria; la nostra libertà perch’io credo nella Libertà; i nostri diritti perché credo nel Diritto”[15].

    Non v’è motivo di dubitare della sincerità di queste parole, confermate dalla mai smentita fedeltà di Mazzini all’idea di una sola e concorde civiltà europea, a partire dagli scrittori letterari anteriori al 1830 sino all’ultimo richiamo agli “Stati Uniti d’Europa” nel 1871, alla vigilia della morte.

    Piuttosto, si potrà avvertire che l’umanità di Mazzini è una umanità essenzialmente europea, e che per lui gli altri continenti restavano essenzialmente oggetto della missione civilizzatrice dell’Europa (anche se al suo nome si sono poi richiamati alcuni dei maggiori leader del Terzo Mondo, a cominciare da Gandhi)[16].
    Ma la questione, assai delicata, dei rapporti fra il principio di nazionalità predicato da uomini come Mazzini e i nazionalismi del XX secolo non può essere risolta in termini di buona fede soggettiva. Occorre fare riferimento, per questo, a ciò che il principio di nazionalità significò nella realtà del suo tempo, e all’eredità che esso lasciò all’epoca successiva.


    2. Se, per Mazzini, le nazioni erano destinate ad essere protagoniste del nuovo avvenire europeo, i maggiori ostacoli sul suo cammino erano invece i grandi imperi multinazionali: l’impero turco e, soprattutto, l’impero asburgico. “L’Austria – scriveva già nel 1832 – è un ostacolo al moto dell’incivilimento, al progresso, all’associazione europea. Conviene distruggerlo, o rassegnarsi a rinnegare nazionalità, potenza, fama, libertà, indipendenza”[17]. Al posto dell’Austria, e in genere al posto dell’Europa creata dai trattati di Vienna, egli auspicava un ordine internazionale diverso, che nella sua visione rimase costante nelle sue linee fondamentali, pur con non poche variazioni di particolari. Alla Francia, ormai “diseredata” della sua missione, e anzi temuta, dopo il 1851, per le rinnovate ambizioni imperiali, nessuna speciale funzione era riservata sulla scena europea; e altrettanto Mazzini pensava dell’Inghilterra, dove acquistò, attraverso la “English Republic” di William Linton, una certa influenza sull’ala repubblicana del cartismo[18], e che negli anni del lungo esilio amò come seconda patria, ma di cui gli restò sempre estraneo lo spirito analitico ed empirico. Proiettata verso il commercio mondiale e le colonie, l’Inghilterra imperiale “nulla rappresenta[va] nel sistema europeo” (1834)[19]. Nella penisola iberica vedeva opportuna e forse probabile l’unione di Spagna e Portogallo.

    Ma “la parola dell’epoca nuova” era riservata alla Polonia, alla Germania e all’Italia, intorno alle quali si sarebbero unite, rispettivamente, le razze slave, germaniche e latine. Questi tre paesi erano infatti le maggiori vittime “della miseria, dell’oppressione straniera e domestica, della mancanza assoluta di ogni diritto nazionale, dell’assenza di ogni sviluppo intellettuale e industriale”; ed erano dunque i paesi da cui era più fondato attendersi una guerra d’insurrezione, violenta, generale, repubblicana, “la guerra santa degli oppressi”, al di fuori di tutte le illusioni del progresso graduale e moderno[20]. E su queste tre nazionalità fu infatti imperniata, com’è noto, la “Giovine Europa”.

    Fra i grandi corpi delle maggiori nazionalità c’era poi il vario mondo delle nazionalità minori, talora insediate sul medesimo territorio, e tuttavia diverse per lingua, cultura e tradizioni. A Mazzini parve che una soluzione ai problemi di questi paesi venisse offerta dal modello elvetico, che aveva imparato a conoscere assai presto, grazie al lungo soggiorno in Svizzera negli anni stessi della fondazione della “Giovine Europa”.

    Non che la Confederazione quale era uscita dal congresso di Vienna, con i suoi cantoni aristocratici, il suo federalismo, la sua vocazione alla neutralità, potesse incontrare i favori di un uomo del suo stampo, democratico, assertore dell’unità come fonte indispensabile della forza necessaria a ogni vita nazionale, persuaso che la neutralità nella grande lotta fra l’alleanza dei re e quella dei popoli fosse una posizione essenzialmente immorale. Ma una volta rinnovata su basi popolari la Confederazione elvetica poteva costituire il nucleo di una più grande Confederazione delle Alpi, che avrebbe compreso anche la Savoia, il Tirolo, la Carinzia e la Carniola, sulla base di una affinità di ambiente che poteva in questo caso sostituire l’unità linguistica e storico-culturale.

    E v’era poi il grande mondo slavo, da cui Mazzini si attendeva, sulla scia di Herder, che scaturissero nell’avvenire le energie destinate a infondere nuova vita alla civiltà europea. Il compito di aggregarne intorno a sé la parte maggiore spettava, come si è detto, alla Polonia, nazione martire più di ogni altra, mentre alla Russia era assegnato di estendere all’Asia l’influenza europea. Quanto al resto dell’Europa centro-orientale Mazzini pensò talora all’unione di Boemia e Moravia con la Slovacchia e l’Ungheria, mentre in altre occasioni gli parve di intravvedere la possibilità di un’Ungheria congiunta alle province moldo-valacche, in una confederazione danubiana forse estesa anche a Boemia e Moravia, e altre volte propose invece che l’Ungheria si associasse gli Slavi del sud, ovvero che costoro si ordinassero in separata confederazione[21].

    È facile vedere in queste proposte un implicito riconoscimento, da parte di un così acerrimo nemico, della funzione svolta in quelle regioni dalla monarchia asburgica, alla quale egli cercare di sostituire una soluzione in fondo non troppo diversa. Si è anche rimproverato alle soluzioni mazziniane un eccessivo semplicismo, che non teneva sufficientemente conto delle complesse realtà etniche e nazionali dell’Europa centro-orientale. Ma va anche messo in rilievo che il rivoluzionario genovese fu sempre contrario a determinazioni troppo precise, che potevano suscitare seri conflitti fra le diverse componenti nazionali quando ancora durava il dominio asburgico. Una volta vincitori, i liberi popoli avrebbero invece trovato quelle soluzioni pacifiche e concordate che erano state finora impedite dai dominatori, veri beneficiari dei “nazionalismi” (la parola è dello stesso Mazzini) che in passato avevano diviso l’Europa. Va anche considerato che non di rado le soluzioni prospettate da Mazzini erano suggerite dalla mutevole realtà politica, come nel caso, soprattutto importante, dei rapporti fra magiari e nazionalità slave comprese nel vecchio Regno di Ungheria.

    Un nemico specialmente pericoloso parve poi a Mazzini l’austroslavismo. Quando, ad esempio, nel 1842 l’esponente boemo Leo Thun contrappose a chi denunciava i pericoli del panslavismo l’ipotesi di un’evoluzione federale dell’impero asburgico, che avrebbe dato un giusto peso alle popolazioni slave della Monarchia, Mazzini lo accusò di isolare la causa dei Cechi da quella comune a tutti i popoli slavi, unendo la sua condanna al rifiuto opposto per conto dei polacchi da Michiewicz[22]. La minaccia più grave stava infatti per Mazzini nel tentativo di infondere nell’impero asburgico le fresche energie provenienti dai moti nazionali. Dopo il 1851 egli vedrà un pericolo analogo nella politica delle nazionalità di Napoleone III, che appunto per questo gli apparirà fino a Sedan il maggiore avversario della causa dei popoli.
    In che misura si realizzò la prospettiva mazziniana di un superamento delle vecchie e nuove rivalità nazionali, almeno nell’ambito del movimento rivoluzionario europeo ch’egli cercava di promuovere? È noto che frizioni, e sospetti di voler utilizzare l’emigrazione polacca e tedesca in funzione degli interessi italiani, si rivolsero contro Mazzini già al tempo della spedizione di Savoia, nel 1834.

    Per esempio, dubbi di questo tipo ebbero una parte considerevole nelle esitazioni di Hermann Rauschenplatt, assai influente fra gli emigrati tedeschi in Svizzera, al tempo della fondazione della “Giovine Europa”. Posizioni analoghe si registrarono allora da parte di Joachim Lelewel, massimo esponente della emigrazione polacca, e di Walerian Zwierkowski, che godeva di grande prestigio fra polacchi rifugiati a Parigi. Lelewel, in particolare, temeva che i dirigenti della Giovine Polonia finissero per sentirsi più vicini alle “nevi delle Alpi” e alle “acque del Reno” che non ai problemi della patria, e denunciava il pericolo di una dipendenza troppo stretta dai “pellegrini sabaudi”, dominanti, con Mazzini, nella direzione della Giovine Europa. Nonostante ciò Lelewel finì poi per entrare nella Giovine Polonia, e tentò di impegnarla maggiormente sui problemi interni polacchi collegandola con l’Unione dei Figli del Popolo Polacco e con l’Associazione del Popolo Polacco, che includevano nel loro programma la battaglia per la terra ai contadini: ma l’organizzazione finì per naufragare proprio su questo punto dopo l’unione con la Confederazione del Popolo Polacco, che in materia si proponeva un’azione assai più radicale e immediata[23].

    Anche all’interno della Giovine Germania le accuse di elitarismo e di infeudamento a Mazzini limitarono dapprima l’influenza dell’organizzazione alla Svizzera francese e alla zona di Berna. Solo in un secondo tempo i Giovani Tedeschi cominciarono a raccogliere adesioni fra gli emigrati a Zurigo, mentre la diffusione della organizzazione restò sempre assai modesta all’interno della Germania, dove nel gennaio 1836 contava solo 19 iscritti. Nella stessa Svizzera, del resto, gli aderenti alla “Giovine Germania” non sembrano aver mai superato il numero di 268, anche dopo l’azione intrapresa per diffonderla fra gli artigiani, assai numerosi nell’ambiente degli emigrati. Analogamente alle altre organizzazioni nazionali che facevano capo alla “Giovine Europa”, la “Giovine Germania” evitava infatti di insistere sui temi sociali, così da provocare la polemica di organizzazioni come il Bund der Geachteten, per il quale l’organizzazione mazziniana era troppo esclusivamente politica e borghese.

    A parte le critiche ricorrenti a Mazzini e agli italiani, che Gustav Kombst giudicava “i meno pratici fra tutti i rivoluzionari”, l’azione della “Giovine Germania” fra gli operai sembrava destinata a restare scarsamente efficace, fino a quando veniva affidata soprattutto a studenti, troppo pedanti e lontani dal mondo dei lavoratori. La collaborazione con gli italiani, nel nome dei superiori ideali di unione e di umanità, trovò tuttavia difensori tenaci in uomini come Eduard Scriba ed Ernest Schuler; ma nel 1837 le persecuzioni poliziesche che colpirono la “Giovine Europa” in seguito alle pressioni esercitate sulla Svizzera dalle grandi potenze portarono di fatto alla fine dell’organizzazione[24]. In seguito, i movimenti nazionali italiano e tedesco proseguirono su vie separate, e i loro contatti furono piuttosto occasionali, come quelli fra Mazzini e i “Gottinger Sieben” al tempo della loro resistenza al re di Hannover in nome delle libertà costituzionali[25]. Tuttavia, anche nell’assemblea della Paulskirche l’idea herderiana e mazziniana della nazionalità trovò difensori in uomini della sinistra, e in particolare il deputato Nauwerck sostenne la causa italiana in termini largamente mazziniani: “Dovunque – dichiarò – io riconosco il diritto e il carattere sacro della nazionalità, e non mi smentisco quando si tratta di altri popoli: auspico che quel diritto sia riconosciuto a ciascuno, poiché tutti i popoli sono fratelli del popolo tedesco”. E concluse: “l’Italia dev’essere libera: per se stessa, per l’Austria, per la Germania, e da ultimo anche per l’Europa”[26]. La discussione riprese su scala assai più larga e con tensione forse maggiore nel biennio 1859-61: anche allora, se i cattolici e i conservatori sollecitavano il governo di Berlino a schierarsi a fianco dell’Austria cattolica e conservatrice, i liberali mettevano invece l’accento sugli interessi tedeschi a sud delle Alpi, che avevano gran peso anche per un democratico assai vicino a Mazzini come Karl Blind[27]. Il grosso della sinistra democratica tedesca rimase comunque persuaso della necessaria solidarietà dei popoli italiano e tedesco contro la doppia minaccia asburgica e napoleonica. Tralasciando questi temi, che cadono fuori del quadro assegnato alla presente relazione, mi limiterò tuttavia a ricordare che alla solidarietà della causa italiana e tedesca anche Mazzini credette sino alla fine, e che dopo la guerra del 1871, quando tanta parte della democrazia europea volgeva le sue simpatie alla Francia repubblicana, egli mise in rilievo i diritti della Germania aggredita e, pur condannando la monarchia prussiana, polemizzò contro chi già evocava lo spettro del predominio teutonico in Europa[28].

    Sorte analoga a quella della “Giovine Polonia” e della “Giovine Germania” ebbe la “Giovine Svizzera”. Accolto dapprima con vive simpatie dai radicali elvetici, dichiaratisi largamente disponibili a collaborare, Mazzini incontrò poi difficoltà crescenti anche su questo terreno. Sospetti di strumentalizzazione in senso italiano vennero avanzati anche dagli Svizzeri, la pubblicità del programma diede luogo a vivaci dissensi, le critiche mazziniane al federalismo e alla neutralità elvetica urtarono sentimenti diffusi e radicati in ogni strato della popolazione locale. Lo spiritualismo religioso di Mazzini suscitò aperte polemiche da parte di uomini come James Fazy, in nome di una visione più concreta e razionale degli affari politici[29].

    Ma, accanto all’Italia, fu soprattutto l’Europa centro-orientale ad assorbire le energie di Mazzini nella lotta per le libere nazionalità. Oltre agli slavi, fin dal 1832-33 egli cominciò a guardare con attenzione crescente all’Ungheria. A suo giudizio essa era chiamata, insieme alla Polonia, a formare una prima barriera contro l’imperialismo russo, sostenuta in seconda schiera dalla Germania e in terza dalle nazioni latine. Non che gli sfuggisse la struttura feudale della società ungherese, dove popolo, borghesia e contadini non erano considerati, scriveva, “elemento della Costituzione”, e dove “il clero e il patriziato sono onnipossenti”; e neppure gli sfuggiva la tensione crescente fra magiari e slavi meridionali. In un primo tempo ritenne tuttavia che costoro non fossero in grado di darsi un autonomo sviluppo politico; mentre gli parevano assai più importanti le tensioni fra cechi e tedeschi[30].

    A partire dal 1840 il movimento illirico cominciò tuttavia ad assumere una maggiore importanza, e nel 1843 Mazzini entrò in contatto con Frantisek Zach, inviato in Serbia dal principe Czatoryski, e forse ispirò i suoi progetti di unione intorno alla Serbia degli slavi sotto dominio turco e degli slavi meridionali dell’Austria.

    “Nell’impero austriaco – scriveva allora Mazzini - si sviluppa un movimento di popolazioni Slave, a cui nessuno bada, che un giorno, unito all’opera nostra, cancellerà l’Austria dalla carta d’Europa”[31]. Negli anni successivi si sviluppò una intensa collaborazione intellettuale e politica fra italiani, dalmati e croati, nella quale ebbero una parte considerevole i fratelli Bandiera, assai vicini, allora, al Alfred Nugent, che ebbe tanta parte nell’agitazione illirica di quel periodo. Ma la scoperta delle trame ordite fra le truppe austriache in Galizia e la spedizione dei Bandiera, che Mazzini tentò in ultimo di impedire (e che diede luogo, fra l’altro, alla sua denuncia delle responsabilità del governo inglese nella violazione della sua corrispondenza, poi trasmessa agli austriaci), portarono al fallimento di quei progetti di insurrezione[32].

    Qualche anno dopo Mazzini tornò tuttavia sulle prospettive del movimento slavo, di cui sostenne la lotta, nella misura del possibile, anche durante il 1848-49, favorendo, tra l’altro, la formazione di una Legione polacca in Italia. Ma il fatto dominante nell’Europa orientale fu, per lui come per ogni altro, la rivoluzione ungherese. Allora Mazzini cercò di indurre Kossuth a una transazione fra i magiari insorti e le richieste di autonomia dei popoli da secoli annessi alla Corona di Santo Stefano, Croati, Serbi della Vojvodina, Slovacchi e Rumeni della Transilvania; e anche nel 1850 chiese all’ex-capo dell’Ungheria di pronunciarsi “sulla possibilità e sulle basi generali di un patto, di una fraternizzazione fra i Magiari, gli Slavi del sud e i Moldo-Valacchi”. Le concessioni di Kossuth si limitavano però ad autonomie culturali e giuridiche per le popolazioni non magiare, e solo ai Croati lasciavano la possibilità di staccarsi dall’Ungheria, dopo la vittoria[33]. Una soluzione certo insufficiente agli occhi di Mazzini: ma la collaborazione di Kossuth in quel momento era troppo importante perché egli potesse metterla a repentaglio. Anche in seguito non rinunciò tuttavia a sostenere i movimenti nazionali dell’Europa orientale e a chiederne l’appoggio, sempre in vista dell’obiettivo ultimo, che doveva essere “non solamente vincere, ma disfare l’impero d’Austria” (1866)[34].


    3. Per la realizzazione dei suoi disegni Mazzini creò il suo principale strumento politico nella “Giovine Italia”, passata attraverso crisi successive ma sempre rinata in nuove forme e con nuovi nomi, fino al partito d’azione che operò negli ultimi anni del Risorgimento. Già nel nome l’organizzazione faceva appello al tema, assai diffuso intorno al 1830, della giovinezza in lotta col vecchio mondo destinato a crollare; ed era uno strumento politico di tipo nuovo, che si differenziava dalle sette carbonare precedenti anzitutto per il rifiuto della segretezza degli obbiettivi.

    Nella “Giovine Italia” il segreto era limitato alle attività cospirative dirette a preparare l’insurrezione: pubblico invece, e diffuso attraverso la stampa, i fogli volanti, la propaganda orale, il programma del movimento. A differenza della “Giovine Europa”, che per Mazzini doveva avere compiti essenzialmente educativi, le associazioni nazionali come la “Giovine Italia” e le altre analoghe dovevano tendere soprattutto all’azione insurrezionale.

    Della “Giovine Italia” si è detto giustamente che fu il primo partito politico italiano di tipo moderno, con i suoi caratteri dell’adesione individuale, il finanziamento a mezzo di quote degli iscritti, l’ordinamento assai semplice e diffuso su tutto il territorio nazionale, la pubblicità del programma. Partito di “quadri”, la “Giovine Italia” inizialmente affidava solo ai soci in possesso di un certo grado di istruzione il compito di reclutare nuovi iscritti. Per ragioni di sicurezza, spiegava Mazzini: ma anche per la sua radicata convinzione che un ruolo essenziale spettava ai gruppi di avanguardia, destinati a trascinare le masse con la virtù dell’esempio e dell’iniziativa. Per conquistare il “popolo” bisognava tuttavia diffondere negli strati sociali più poveri la convinzione che “si vuole migliorare il loro stato intellettuale e morale”[35]. Da Bianco di Saint-Jorioz Mazzini aveva accolto il principio della guerra insurrezionale come guerra essenzialmente partigiana, da condurre, secondo Bianco, senza “considerazione di onore, d’umanità e di religione”[36]. Ma di fatto il fondatore della “Giovine Italia” guardò sempre alla rivoluzione nazionale come impresa comune alle classi popolari e alle classi medie, e anzi insistette sul ruolo di guida che queste dovevano necessariamente conservare.

    Rifiutò dunque nettamente la “guerra di classi”, “il terrorismo eretto a sistema”, la “sovversione de’ diritti legittimamente acquistati”, le “leggi agrarie”[37]. Le misure sociali da lui proposte fino al 1848 si limitavano dunque a regolare la trasmissione ereditaria dei grandi patrimoni, all’imposta progressiva e a interventi dello Stato volti a garantire migliori retribuzioni ai lavoratori. Troppo poco, agli occhi dei socialisti contemporanei, e anche della odierna storiografia, marxista e non marxista; e troppo poco soprattutto in relazione ai problemi sociali dell’Europa orientale, dove la questione della terra aveva un peso che Mazzini avvertì solo in parte e saltuariamente, così come ignorò sempre (se si toglie qualche accenno a partire dal 1869)[38] i problemi sociali delle campagne italiane.

    Ciò non impedì tuttavia che le organizzazioni mazziniane penetrassero profondamente negli strati popolari di molte città dell’Italia centro-settentrionale, dove la “Giovine Italia” registrò un seguito che andava dai 3.000 affiliati che la polizia le attribuiva a Milano sino alle molte centinaia di inquisiti e arrestati nello Stato pontificio nel 1836[39]. Siamo comunque lontani dalle molte decine di migliaia di iscritti che qualche autorità di polizia attribuì nei primi anni alla “Giovine Italia”[40]; e l’ostinazione con la quale Mazzini insistette sui colpi di mano condotti da piccoli nuclei, spesso destinati a pagare la loro audacia con la vita, è sempre stata un motivo ricorrente delle critiche alla sua azione. E tuttavia, se Metternich lo qualificava “uno dei più pericolosi e attivi corifei rivoluzionari di tutta Europa” e un “nemico pericolosissimo dell’ordine sociale”[41], ciò non era frutto di vane ubbìe o di artificiose esagerazioni.

    I ripetuti colpi di mano, gli attentati, le continue scoperte di armi ed esplosivi davano la sensazione che l’Italia soprattutto era avvolta da una capillare infiltrazione sovversiva in grado di agire nei momenti più imprevisti. Più che alla stregua della sua diretta capacità di promuovere i movimenti nazionali in altri paesi l’efficacia europea del programma di Mazzini va dunque commisurata al valore di modello assunto anche altrove dall’azione rivoluzionaria da lui ispirata e diretta in Italia, e dal contributo di primo piano che certamente essa diede, sia pure attraverso duri contrasti, al finale trionfo della causa nazionale nella penisola. E poi, la implacabile volontà di lotta di colui che, come disse Cattaneo, “considerava vittorie anche le sconfitte, purché si combattesse”, dava ai patrioti la sensazione di una invincibile presenza, che col tempo assunse caratteri di mito, diffondeva l’aspirazione a vendicare i caduti e ad imitarne le gesta, stimolava la formazione di sempre nuovi gruppi di avangiardia.

    La grande illusione di Mazzini fu certo la dogmatica certezza con cui sempre credette che i popoli attendessero solo un segnale per esplodere da un capo all’altro dell’Europa: ma questa illusione fu anche la sua forza più grande. Se è vero che quasi tutte – ma non tutte - le insurrezioni mazziniane fallirono, è anche vero che gran parte del patriottismo risorgimentale italiano passò dapprima attraverso l’esperienza mazziniana, e che gli uomini che accorsero a Roma e Venezia nel 1849 e nel Mezzogiorno durante il 1860, per non parlare dei volontari entrati nell’esercito regio, erano stati educati da decenni di mazziniana “propaganda con i fatti”. Non era vanteria ma semplice verità di fatto l’affermazione dell’esule genovese che, se non fosse stato per il partito d’azione, Cavour avrebbe avuto ben poco da dire dell’Italia alle cancellerie europee.

    Indubbiamente, le organizzazioni mazziniane raggiunsero solo scarsi risultati fuori d’Italia: ma le testimonianze della continua pressione rivoluzionaria esistente nella penisola agirono certamente come stimolo e come impulso anche prima del 1848: e la loro efficacia nei decenni successivi fu tanto più grande quanto maggiore fu l’eco degli eventi italiani del 1848-49 e del 1859-61. Ma già i fatti del 1848 avevano inflitto un colpo gravissimo al sistema europeo uscito dai trattati del 1815. Sembra difficile negare che l’instancabile agitazione mazziniana abbia avuto una sua parte nel determinare la crisi e il successivo crollo di quel sistema.


    Rosario Romeo




    [1] Fra i più significativi “riduzionisti” cfr. per es. F. GUNTHER EYCK, Mazzini’s Young Europe, in “Journal of Central European Affairs”, XVII (1958), pp. 356-77; L. GIRARD, Mazzini et la France, in Mazzini e il mazzinianesimo (Atti del XIV Congresso di storia del Risorgimento italiano), Roma, 1974, pp. 131-45; P. GUIRAL, Mazzini et le socialisme français, in Mazzini e l’Europa (Convegni Lincei, 201), Roma, 1974, pp. 79-87.

    [2] A. GALANTE GARRONE, Mazzini in Francia egli inizi della “Giovine Italia”, in Mazzini e il mazzinianesimo, cit., p. 232.

    [3] F. DELLA PERUTA, Mazzini e i rivoluzionari italiani, Milano, 1974, p. 61.

    [4] Ibid., pp. 66-68.

    [5] G. MAZZINI, Scritti editi ed inediti, Edizione nazionale, Imola, 1906 sgg. (EN), IV, p. 149.

    [6] Ibid., IV, pp. 4, 11.

    [7] Ibid., III, p. 62.

    [8] V. la ristampa nell’introduzione a EN, IV, pp. XXVII-XXXI.

    [9] GIRARD, op. cit., p. 139.

    [10] Ibid., p. 134.

    [11] F. F. BRACCO, Federalismo e questioni nazionali nella polemica di Proudhon contro Mazzini e l’Unità italiana, in “Annali della Facoltà di scienze politiche dell’Università di Perugia”, 1977-78. fasc. 2, pp. 19-60.

    [12] Ibid., pp. 58-60.

    [13] F. DELLA PERUTA, I democratici e la rivoluzione italiana, Milano, 1958, p. 284.

    [14] La Erklarung, e le due successive controrepliche dei tre autori (Seid deutsch! Ein Mahnwort; An Mazzini. Offner Brief), editi a Berlino 1861, sono ristampati in J. K. RODBERTUS-JAGETZOW, Kleine Schriften, a cura di M. Wirth, Berlin, 1980, pp. 269-97. Le vicende della polemica sono esposte da F. DELLA PERUTA, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, Roma, 1965, pp. 242-46.

    [15] EN, LXIX, pp. 187-89.

    [16] Cfr., da ultimo, Garibaldi, Mazzini e il Risorgimento nel risveglio dell’Asia e dell’Africa, a cura di G. Borsa e P. Beonio Brocchieri, Milano, 1984.

    [17] EN, I, p. 382.

    [18] C. SHAW, The impact of Mazzini upon the thought of the republican wing of the Chartis movement in England, in “Bollettino della Domus Mazziniana”, XXI (1975), pp. 297-318.

    [19] EN, IX, p. 386.

    [20] Ibid., VI, pp. 223-24.

    [21] Una esposizione dei vari progetti mazziniani di riordinamento delle carte d’Europa in A. LEVI, La filosofia politica di Giuseppe Mazzini, nuova ed., Napoli, 1967, pp. 231-58.

    [22] G. PIERAZZI, Mazzini e gli slavi dell’Austria e della Turchia, in Mazzini e il mazzinianesimo, cit., pp. 313-14.

    [23] Cfr. soprattutto F. DELLA PERUTA, Mazzini e la Giovine Europa, in “Annali Feltrinelli”, V (1962), pp. 29-35 (ora in ID., Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., pp. 178-84, che però è privo dell’importante appendice documentaria). In generale S. KIENIEWICZ, La pensée de Mazzini et le mouvement national slave, in Mazzini e l’Europa, cit., pp. 109-23.

    [24] DELLA PERUTA, Mazzini e la Giovine Europa, cit., pp. 35-36 (= Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., pp. 184-204). Cfr. anche ID., I democratici italiani, i democratici tedeschi e l’unità d’Italia, nel suo vol. Democrazia e socialismo, cit., pp. 157-246; K. OBERMANN, L’influenza del movimento per l’unità d’Italia sul movimento progressista tedesco nell’età del Risorgimento, in Problemi dell’Unità d’Italia (Atti del II convegno di studi gramsciani), Roma, 1962, pp. 247-52; K. H. LUCAS, Mazzini e la Germania, in Mazzini e il mazzinianesimo, cit., pp. 161-74. Per l’Austria, R. BLAAS, Metternich, Mazzini und die Grundung der Giovine Italia, in “Mitteilungen des osterreichischen Staatsarchivs”, XXV (1972), pp. 595-616.

    [25] ID., Mazzini visto nei documenti della polizia austriaca, in Mazzini e l’Europa, cit., p. 70.

    [26] T. SCHIEDER, Das italienbild der deutschen Einheitsbewegung, in “Begegnungen mit der Geschichte”, 1962, p. 218.

    [27] DELLA PERUTA, Democrazia e socialismo nel Risorgimento, cit., pp. 210-13; LUCAS, op. cit., pp. 173-74.

    [28] La guerra franco-germanica, EN, XCII, pp. 119-39.

    [29] DELLA PERUTA, Mazzini e la Giovine Europa, cit., pp. 56-72 (= Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., pp. 204-219); E. BONJOUR, Histoire de la neutralité suisse, Neuchatel, 1949, pp. 159-72; G. FERRETTI, Esuli del Risorgimento in Svizzera, Bologna, 1948, pp. 223-74; A. CATTANI, Die Schweiz im politischen Denken Mazzinis, Zurich, 1951; A. LASSERRE, Henry Druey, fondateur du radicalisme vaudois et homme d’Etat suisse, Lausanne, 1960.

    [30] PIERAZZI, op. cit., pp. 305-306.

    [31] EN, XXIV, p. 220.

    [32] PIERAZZI, op. cit., pp. 314-21.

    [33] Ibid., pp. 338-39.

    [34] Ibid., LXXXIII, p. 255.

    [35] Ibid., V, pp. 52 sgg.

    [36] DELLA PERUTA, Mazzini e i rivoluzionari italiani, cit., pp. 79-80.

    [37] EN, VII, pp. 210-11.

    [38] DELLA PERUTA, Mazzini e l’organizzazione della democrazia italiana tra la prima e la seconda “Giovine Italia”, in Mazzini e il mazzinianesimo, cit., p. 526.

    [39] Ibid., pp. 400-500, 505.

    [40] BLAAS, Mazzini nei documenti della polizia austriaca, cit., p. 60.

    [41] Ibid., p. 59.



    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

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    Predefinito Re: Giuseppe Mazzini (Genova, 1805 - Pisa, 1872)

    Mazzinianismo e socialismo: analogie e opposizioni


    di Gaetano Salvemini - Da “Mazzini”, in G. Salvemini, “Opere II”, vol. II: “Scritti sul Risorgimento”, Feltrinelli, Milano 1961.



    [I numeri fra parentesi, quando non sono preceduti da nessuna indicazione, si riferiscono agli “Scritti editi ed inediti” di GIUSEPPE MAZZINI, voll. 18, Milano-Roma, 1861-1891.

    Con la sigla E citiamo i due volumi dell’ “Epistolario” editi dal Sansoni, nel 1902 e 1904.

    La sigla EN indica la “Edizione nazionale degli scritti” di GIUSEPPE MAZZINI (scritti ed epistolario), che esce, dal 1906 in poi, sotto gli auspici del Ministero della Pubblica Istruzione, Imola, Tip. Galeati.

    S= “Lettres de Joseph Mazzini à Daniel Stern” (M. de Agoult). Paris, Libr. Germer Bailière, 1873.

    D= “Duecento lettere inedite di Giuseppe Mazzini”, con proemio e note di DOMENICO GIURIATI. Torino, Roux e C., 1887.

    L= “Lettres intimes de Joseph Mazzini”, publiées avec une introduction et des notes par D. MELEGARI. Paris, Libr. Académique Didier, 1895.

    A= “Lettere di Giuseppe Mazzini ad Aurelio Saffi e alla famiglia Craufurd (1850-1872)” per cura di G. MAZZATINTI. Roma-Milano, Soc. ed. Dante Alighieri di Albrighi, Segati e C. 1905 (Bibl. stor. del Risorgimento italiano; serie IV, n. 7).

    M= J. W. MARIO, “Vita di Giuseppe Mazzini”. Milano, Sonzogno, 1886.]




    Mazzinianismo e socialismo: le analogie


    Mentre in Italia si agitava il problema prevalentemente politico della formazione nazionale, fuori d’Italia e soprattutto in Francia e in Inghilterra – paesi economicamente più avanzati nello sviluppo capitalistico e già in possesso della più completa autonomia politica e di ordinamenti rappresentativi – si combattevano le prime lotte di classe fra borghesia e proletariato, e si sviluppavano largamente quei germi di teorie socialiste che erano già contenuti nella filosofia rivoluzionaria del secolo XVIII. Anche in Italia, nonostante la sorveglianza delle polizie e delle censure, filtrarono in proporzioni maggiori che comunemente non si creda le teorie socialiste straniere e specialmente francesi, quando non sorsero anche per riproduzione spontanea di altre più vecchie utopie indigene: ma vi incontrarono la concorrenza per lungo tempo vittoriosa della propaganda mazziniana.

    Non che le teorie di Mazzini sieno per ogni lor parte in piena antitesi con tutto quell’insieme di concezioni economiche, sociali, morali, che sono andate nel secolo XIX sotto il nome di socialismo. I quattro quinti delle idee mazziniane sono di origine sansimonista. Molte fra le idee che in quest’ultimo mezzo secolo, col differenziarsi sempre più netto delle correnti sociali e ideologiche e dei partiti politici, sono divenute retaggio esclusivo dei partiti socialisti, erano state prima comuni a tutti i seguaci della democrazia. E se noi prendiamo, ad esempio, quelle teorie che dopo essersi abbozzate durante il secolo XVIII ed elaborate negli scritti dei democratici e dei così detti socialisti utopisti della prima metà del XIX, si staccarono alla fine dalla massa in cui erano originariamente confuse, organizzandosi nel sistema marxista e servendo di base al movimento socialista moderno, e se le confrontiamo con le teorie mazziniane, troviamo che in parecchi punti la dottrina mazziniana concorda con la dottrina marxista o almeno ammette princìpi, il cui sviluppo logico, come ha acutamente osservato il Bolton King, porterebbe il mazzinianesimo a sboccare nel marxismo.[1]

    Comune al mazziniansmo e al socialismo è l’affermazione della crescente benefica potenza sociale e politica delle classi operaie, considerate come “il principale nuovo elemento” della storia (XVI, 175; VI, 88 sgg.): “Il moto ascendente delle classi artigiane nella città ha data oggimai da un secolo: lento ma tenace nel suo progresso, e procedente di decennio in decennio colla legge del moto accelerato, e crescente negli ultimi vent’anni, visibilmente per tutti, in intensità ed estensione e acquistando via via ordinamento, potenza reale e coscienza di essa” (XVI, 175-6; 190-1). “Il popolo viene sulla scena e non intende che una seconda aristocrazia, comunque più larga e sopra altre basi, si sostituisca alla prima. Sicché a poco a poco la lotta cangia d’aspetto, e dove prima era tra una classe e l’altra, ora è tra il principio di una classe e il principio dell’uguaglianza, tra il privilegio e il lavoro” (E, II, 450-1).

    Comune è la affermazione che il proletariato abbia interessi specifici da promuovere e che a quest’uopo sia necessaria l’organizzazione di classe. “Esistono in Italia – scriveva il Mazzini nel 1844 – come dappertutto, due classi di uomini: gli uni, possessori esclusivamente degli elementi d’ogni lavoro, terre, credito o capitali; gli altri, privi di tutto fuorché delle loro braccia… I primi, inceppati nell’esercizio delle loro facoltà, vilipesi dallo straniero, sottoposti all’arbitrio di principi stolti e malvagi, hanno principalmente bisogno d’una rivoluzione politica: i secondi, affranti dalla miseria, tormentati dalla precarietà del lavoro e dall’insufficienza dei salari, hanno principalmente bisogno d’un ordinamento sociale… Quando gli operai, ordinati, forti di convinzioni uniformi, stretti in unità di volere, militeranno nell’Associazione nazionale, non solamente come cittadini, ma come operai, non dovranno più temere d’essere delusi nelle loro giuste speranze e di vedere le rivoluzioni consumarsi in questioni di forme meramente politiche a benefizio d’una sola classe… Gli operai hanno bisogni speciali… I rimedi meramente politici non bastano; e nondimeno le rivoluzioni saranno sempre meramente politiche, finché saranno fidate all’impulso unico delle altre classi. Le loro condizioni sono radicalmente diverse: perché faticherebbero a provvedere a bisogni che essi non provano e che non hanno espressione collettiva da chi li prova? E chi mai se non chi li prova può esprimerli efficacemente?... A che son dovuti i progressi che la questione sociale ha fatto da dieci anni in Francia ed in Inghilterra, se non alle associazioni degli operai?... Sarete illusi e sempre traditi, operai italiani, finché non intenderete che prima di partecipare nei cangiamenti politici cogli altri elementi, l’elemento del lavoro ha da ottenersi cittadinanza nello Stato, ch’oggi non ha, e che a conquistarla è indispensabile l’associazione… Avete combattuto finora pel programma dell’altre classi: date oggi il vostro e annunziate collettivamente che non combatterete se non per quello… Credete a noi. Chi vi tiene linguaggio diverso o s’inganna o vi inganna” (X, 255-264). “L’organizzazione degli uomini del lavoro trascinerà la soluzione del problema economico più assai che non tutti i sistemi ideati innanzi tratto (X, 10). Ed è curioso notare come queste argomentazioni fossero da Mazzini rivolte a dimostrare la necessità dell’organizzazione di classe proprio ad alcuni operai, i quali deploravano che, volendo “riunire in un col corpo gli operai italiani”, Mazzini “perpetuasse la distinzione delle classi che annunziava voler distruggere (V, 253).

    Per sentire il ritmo perfettamente identico, che associa queste idee alle teorie socialiste, basta leggere qualcuno dei libri nei quali ai tempi del Mazzini si parlava di argomenti sociali. “Sicuramente – scriveva Silvio Pellico nei Doveri degli uomini – nella società umana i meriti non vengono sempre premiati con eque proporzioni. Il mondo è così, ed in ciò non è sperabile che muti. Ti resta dunque di sorridere a questa necessità e rassegnarti. L’importante è di aver merito, non di avere un merito ricompensato dagli uomini. Fa tutto ciò che sta in te per essere utile cittadino e per indurre altri a esser tale, e poi lascia che le cose vadano come vanno. Metti qualche sospiro sulle ingiustizie e sulle sciagure che vedi, ma non cangiarti in orso per ciò” (cap. XVI). “Gl’illuminati pensieri da diffondersi sugl’ignoranti della bassa classe, sono quelli che li preservano dall’errore e dall’esagerazione; quelli che li allontanano dalle furenti e sciocche idee d’anarchia e di governo plebeo; quelli che persuadono loro essere necessarie le disuguaglianze sociali” (cap. XXVII). – La Nunziata del Carcano è una giovine contadina, che lavorando in una fabbrica si ammala per la troppa fatica; un contadino l’ama; il capofabbrica insidia al suo onore; l’innamorato la salva, vuole sposarla; ma Nunziata nella fabbrica ha preso la tisi. A risolvere il problema ci pensa il buon Dio con disporre che dal monte si stacchi una frana e schiacci l’infelice. Lo spettacolo di tanta ingiustizia e di tanto dolore non suscita nel pensiero e nel cuore del romanziere se non la seguente tranquillissima considerazione: “Così il Signore aveva consentito che innanzi tempo ella finisse di patire: così forse egli volle sottrarla a più vivi dolori, a prove amarissime. Chi può interrogare la sua misteriosa e provvidente volontà?”[2] Carlambrogio – racconta il Cantù: ci si consenta anche questa citazione – è un brav’omo; un giorno vede un gran corteo di principi e signori e ufficiali luccicanti e prelati; un senso d’invidia lo morde; ma ben presto si corregge: “A noi, Carlambrogio! smetti il pensiero di fare il passo più lungo della gamba, rischieresti di fiaccarti il collo. La società è a piramide: le fila in alto sono strette o non dànno posto che a ben pochi: questi vi si accalcano, vi stanno mal agiati, spesso uno forbotta l’altro, e chi vuol arrivarvi dal basso arrischia di sfracellarsi. Giù dai piedi, al contrario, v’è posto per tutti, si hanno i gomiti sicuri, si può distendersi liberamente, chi più chi meno secondo la corporatura di ciascuno”[3]. È la soluzione del problema sociale così com’era stata escogitata dai lazzaroni di Napoli.
    Anche la teoria mazziniana del diritto di proprietà è molto più vicina di quanto a prima vista non sembrerebbe alla teoria socialista. Le cause della cattiva costituzione della proprietà sono, secondo Mazzini (1860), quattro:


    1. “L’origine del riparto attuale sta generalmente nella conquista, nella violenza colla quale, in tempi lontani da noi, certi popoli e certe classi invadenti si impossessarono delle terre e dei frutti d’un lavoro non compìto da esse.”

    2. “Le basi del riparto dei frutti d’un lavoro, compìto dal proprietario e dall’operaio, non sono fondate sopra una giusta eguaglianza proporzionata al lavoro stesso.”

    3. “La proprietà, conferendo a chi l’ha diritti politici e legislativi che mancano all’operaio, tende ad essere monopolio di pochi e inaccessibile ai più.”

    4. “Il sistema delle tasse è mal costituito e tende a mantenere un privilegio di ricchezza nel proprietario, aggravando le classi povere e togliendo ogni possibilità di risparmio.”


    Sono idee comuni a molti socialisti e democratici della prima metà del secolo XIX: solamente i socialisti insistevano più sulle prime due; i democratici sulle ultime. La teoria che la proprietà derivi dalla conquista, è sansimonista[4]: già il secolo XVIII spiegava con la conquista l’origine della proprietà feudale, e Saint-Simon non fece se non generalizzare la teoria a tutta la proprietà fondiaria. Anche nell’affermazione che una fra le fonti della ricchezza sia nell’appropriazione di “un lavoro compiuto da altri”, c’è in germe la teoria del plusvalore di Marx: la quale deriva dalle teorie del valore di Smith e di Ricardo e si trova in parecchi altri scrittori socialisti della prima metà del secolo. Per es., fino al 1815 il Hodgskin scriveva: “Il capitale è il prodotto del lavoro, spietatamente estorto al lavoratore in cambio del permesso accordatogli di consumare una parte di ciò che proprio egli ha prodotto.”[5]

    La proprietà per essere legittima, dev’essere, secondo Mazzini, “il segno della quantità di lavoro col quale l’individuo ha trasformato, sviluppato, accresciuto le forze produttrici della natura” (XVIII, 117), “il segno visibile della nostra parte nella trasformazione del mondo materiale” (XVII, 59); solo in questo senso essa è un “elemento costitutivo della vita”, “sta nella natura umana”, è “eterna nel suo principio” (XVIII, 117). Ma “i modi coi quali la proprietà si governa sono mutabili, destinati a subire, come tutte l’altre manifestazioni della vita umana, la legge del progresso: quei che trovando la proprietà costituita in un certo modo, dichiarano quel modo inviolabile e combattono quanti intendono a trasformarlo, negano dunque il progresso” (XVIII, 117). Ora Mazzini reputa che nell’attuale ordinamento sociale l’assetto della proprietà sia difettoso, e aderisce pienamente alla critica che dell’ordinamento economico individualista fanno il Fourier (XII, 296-306) e i socialisti di tutte le scuole, attribuisce la causa della miseria alla tirannide del capitale monopolizzato sul lavoro, e afferma la necessità che la proprietà sia “richiamata al principio che la rende legittima, facendo sì che il lavoro possa produrla.”

    Guidato da questo canone, Mazzini rifiuta il comunismo, sia nella forma che vorrebbe assegnare a tutti gl’individui sui prodotti del lavoro comune una parte eguale, sia in quella che darebbe a ciascuno secondo i bisogni (VII, 332; XVIII, 120); nega che possa crearsi il governo “proprietario, possessori, distributore di quanto esiste, terre, capitali, strumenti di lavoro, prodotti (VII, 332) “senza sovvertire tutto quanto l’ordine sociale, senza isterilire la produzione, senza inceppare il progresso, senza cancellare la libertà dell’individuo e incatenarlo in un ordinamento soldatesco, tirannico” (XVIII, 122-3); e preconizza un futuro sociale, in cui mentre alcune imprese come la ferroviaria siano amministrate dal governo centrale (XVIII, 131), per tutto il resto libere associazioni di produttori-consumatori “padrone del suolo e dei capitali” (XVIII, 2), aventi per base “la indivisibilità e perpetuità del capitale collettivo”, dopo avere assicurato a tutti i soci una retribuzione “eguale alla necessità della vita,” ripartiscano “gli utili a seconda della quantità e della qualità del lavoro di ciascuno” (XVIII, 127).

    Evidentemente in questo sistema la proprietà individuale, libera, alienabile, non esiste se non su quelli che i socialisti chiamano prodotti di consumo e beni d’uso; il capitale, di cui non sembra dubbio facciano parte insieme alla terra anche gli strumenti della produzione industriale, diventa proprietà comune delle associazioni. È lo stesso principio, su cui i socialisti fondano la organizzazione economica, di quello che il Menger chiama lo “Stato democratico del lavoro.”[6]

    Le riforme immediate, poi, che Mazzini propone per avviare la società verso la nuova forma economica – educazione universale gratuita; suffragio universale, cioè “soppressione dei privilegi politici della proprietà”; miglioramento delle vie di comunicazione; libertà di commercio; credito di Stato e concessione dei lavori pubblici alle cooperative; nazione armata, giustizia semplice e accessibile al povero; immunità tributaria del necessario alla vita; istituti di conciliazione nei contrasti fra capitale e lavoro (XVI, 199, 207; XVII, 48-49, 119-120; XVIII, 130-131) – quelle riforme sono su per giù le stesse che si trovano non solo nei programmi delle altre scuole democratiche, ma anche nei programmi minimi dei partiti socialisti, avendole tutti i partiti, e democratici e socialisti, attinte alla filosofia rivoluzionaria e umanitaria del secolo XVIII e alle teorie sociali circolanti nel primo trentennio del secolo XIX.



    Mazzinianismo e socialismo: le opposizioni


    Eppure la vita di Mazzini è stata, specialmente negli ultimi vent’anni, una battaglia contro il socialismo.

    Le due teorie differiscono anzitutto per il diverso punto di vista, da cui guardano il problema della nazionalità. Per Mazzini centro di ogni pensiero, intento di ogni azione, era la lotta nazionale per la costituzione della unità italiana: la organizzazione operaia, finché l’unità d’Italia non fosse compiuta, era più che altro un mezzo per lanciare nella lotta politica nazionale una quantità immensa di forze che rimanevano inattive, perché trascurate del tutto dai partiti liberali conservatori. La prima idea di organizzazione operaia nacque nella mente di Mazzini appunto in vista della lotta contro gli austriaci, a cui le classi superiori apparivano insufficienti: 18 agosto 1934 “Oh, come mi sono illuso circa Milano! era il mio sogno, la mia terra prediletta. Ma v’è corruttela. Pur vi sarebbe una molla, ma a tenerla ci vorrebbero ora mezzi ed uomini, che non abbiamo: una fratellanza di popolo vo’ dire di quel che chiamiamo popolo: fratellanza antiaustriaca: fratellanza di coltello, di braccia, - e questo pensiero di una lega di proletari che pare un sogno, non lo sarebbe ove si toccassero certe molle, che un giorno potrebbero diventar pericolose, ma che son sempre potenti nel popolo: e guerra fra il popolo e la tirannide non s’è posta ancora in Italia… E parliamo d’altro, perché non possiamo realizzare: l’ho detto a te, e non è a dirsi ad altri, perché il solo pensiero spaventerebbe i più” (E, I, 277). È il tentativo del 6 febbraio 1853 ideato fino dal 1834.
    Certamente la patria non è nel sistema mazziniano un organismo isolato e chiuso in se stesso, ma è destinata a far parte di una federazione internazionale di tutte le patrie. Mazzini arriva ad ammettere che in una ulteriore fase dello sviluppo umano la patria possa anche sparire.[7] Ma l’idea patriottica predominava sempre su tutte, e l’attuazione di essa è continuamente affermata come la missione fondamentale del secolo XIX. E ben a ragione Mazzini rivendicava alla propria propaganda il merito di avere introdotto nel cosmopolitismo amorfo delle vecchie associazioni umanitarie “la idea della Nazionalità considerata come segno d’una missione da compiersi a pro dell’Umanità” (V, 39).[8]

    Le teorie socialiste, invece, sia che negassero senz’altro la idea nazionale organizzando l’umanità in falansteri omogenei (Fourier) o in federazioni intercomunali (Owen), sia che affermassero semplicemente la necessità della pace universale, del disarmo, della fratellanza dei popoli, avversavano o trascuravano del tutto l’educazione del sentimento nazionale; ponevano in prima linea i problemi di indole economica; consideravano le questioni nazionali come un inciampo frapposto allo snodamento della questione sociale.

    Inoltre non si deve dimenticare che se in qualche punto, magari importante, il mazzinianismo viene a concordare col socialismo, lo spirito animatore delle due dottrine è sempre completamente diverso. Il mazzinianismo è una teoria religiosa e morale, che tende a rendere gli uomini più virtuosi e attraverso la virtù più felici: non tanto la miseria esso vuole distruggere, quanto l’egoismo individuale, che è causa della miseria come di tutti gli altri mali della società; e vuole distruggerlo con la forza morale dell’educazione, che riveli agli uomini la necessità di un nuovo ordinamento religioso, politico ed economico a base associativa. Il socialismo è, invece, un sistema economico politico, il quale considera come problema fondamentale da risolvere quello della produzione e della distribuzione della ricchezza allo scopo di aumentare il benessere e sopprimere la miseria del proletariato: da quest’aumento di benessere materiale conseguirà la sparizione o per lo meno la diminuzione del vizio e della miseria morale. Mentre il socialismo nasce dalla filosofia della necessità e dalla morale dell’utilità, il mazzinianismo presuppone la filosofia della libertà e la morale del dovere.

    Nel sistema del Fourier, per esempio, Mazzini non critica la parte economica, di cui anzi dichiara di accettare le idee fondamentali negative e positive (XII, 308, 322-3; VII, 325); ma domanda: “E Dio? la sua legge? la forza arcana che ci guida ad essa? lo sforzo continuo che fa l’anima umana per iscoprirla? le religioni che ne sorgono? l’avvenire dell’individuo? l’immortalità? il genio, che ne è il presentimento? la virtù, che ne insegna la via? Che ne fate voi? Che fate del bisogno d’una credenza che ci affatica tutti quanti siamo, che ci rende il dubbio insoffribile? E che fate di quella parte dell’anima nostra che guarda senza posa all’Infinito, che vorrebbe ognora slanciarsi nell’Immenso, che aspira all’Ignoto, all’Invisibile; che ne cerca ovunque i simboli; che penetra l’Universo come se questo non fosse altro che un velo posto fra lei e l’enimma della sua dottrina? Come dirigete voi quei grandi amori che abbracciano l’Umanità intera: quelle grandi passioni, così pure, così disinteressate, che si nutrono di ventura e di sacrificio, e che non chiedono cosa alcuna sulla terra, neppure la simpatia? E che fate dello spirito di abnegazione, di sacrificio, senza il quale non può esistere né amicizia, né amore, né virtù – nulla? Credete voi che il malessere, l’inquietudine, la febbrile agitazione che commuove oggi gli animi, cesserà in seguito alla vostra riforma? Credete voi che si tratti per l’Uomo se non di uniformare, ordinare, attendere alle faccende della propria casa? che il vuoto che consuma i cuori non sia se non l’effetto della mancanza di produzione ordinata, e che i numerosi suicidi di cui parlate non rivelino ben altro che una mancanza d’equilibrio nella produzione? Credete voi che le grandi rivoluzioni avvengano, o avverranno solo come conseguenza del mal ordinamento industriale? Credete, insomma, che l’Uomo non sia che una macchina di produzione, una forza destinata solo al servizio di un lavoro materiale? Disingannatevi. Il vuoto è ben più profondo, i bisogni della natura umana, i bisogni dell’epoca in cui viviamo, sono molto più numerosi, molto più spirituali di quello che non pensate. L’Uomo è un essere che move senza posa alla ricerca d’un grande mistero. S’ei si smarrisse per via, se qualcosa viene ad oscurare in lui la coscienza della missione ch’ei prosegue, dubita, è infelice. Tale è oggi la nostra condizione. La fede ci è venuta meno. Noi sentiamo il bisogno di amare e di credere; perché credere e amare costituiscono la Vita. Credere che cosa? amare chi? ed in qual modo? Questo è ciò che noi tutti chiediamo. Ogni dottrina che non cominci dal dare una risposta a tali domande, è dottrina falsa; o per dir meglio non è dottrina” (XII, 312-315).

    E l’accusa fondamentale che Mazzini muove a tutte le scuole socialiste, non escluso e giustamente lo stesso sansimonismo,[9] è che derivino tutte dall’utilitarismo del Bentham, e che facciano consistere la vita nella sola ricerca della felicità, che abbiano materializzato il problema del mondo, che abbiano sostituito al progresso dell’umanità “il progresso della cucina dell’umanità”[10] (S, 15; VII, 275-353). Sotto questo punto di vista, il mazzinianismo, allontanandosi dal socialismo, si avvicina assai alla democrazia cristiana.

    È ben vero che Mazzini riconosce esplicitamente non essere possibile parlare di miglioramento morale all’operaio abbruttito dalla miseria, e doversi dar mano senza ritardo a riforme politiche ed economiche, le quali elevino lo stato materiale dell’operaio, e gli creino le condizioni del progresso morale.

    “Eccovi un uomo al quale un lavoro assiduo di quattordici o sedici ore sulle ventiquattro procaccia appena ciò ch’è necessario per esistere: ei mangia il suo lardo e le sue patate in luogo che diresti covile, non casa; poi affranto, giace e dorme; la sua vita morale e fisica è vita di bruto. A che giovano i libri per quell’uomo? Per quali vie potete voi ridestare in lui l’anima intormentita? Come dargli tempo e vigore e sviluppare le sue facoltà, se non diminuendo il numero dell’ore del suo lavoro e aumentandone il frutto? Come mutare in contatto d’affetto il contatto ch’egli ha colle classi agiate, se non mutandone radicalmente i caratteri fondamentali?” (IV, 235). “Noi non possiamo equamente dire ad un uomo: sii affamato ed ama; non possiamo esigere che egli educhi il proprio intelletto, mentre ei deve lavorare a guisa di macchina l’intera giornata per ottenere pochi e incerti alimenti; non possiamo inculcargli d’essere libero e puro, mentre ogni cosa intorno a lui gli parla di servitù e lo incita a sensi d’odio e di ribellione” (VII, 113). “Voi avete bisogno che cangino le vostre condizioni materiali perché possiate svilupparvi moralmente: avete bisogno di lavorar meno per poter consacrare alcune ore della vostra giornata al progresso dell’anima vostra: avete bisogno di una retribuzione di lavoro che vi ponga in grado d’accumulare risparmi, d’acquetarvi l’animo nell’avvenire, di purificarvi sopra tutto d’ogni sentimento di reazione, d’ogni impulso di vendetta, d’ogni pensiero d’ingiustizia verso chi vi fu ingiusto” (XVIII, 17).

    Così sul terreno pratico la differenza fra socialismo e mazzinianismo si riduce a una differenza più che altro di nomenclatura: l’operaio mazziniano non ha il diritto ma il dovere di tutelare i suoi diritti economici e politici, perché il miglioramento delle condizioni materiali gli è mezzo indispensabile al miglioramento morale[11]; l’operaio socialista ha il diritto di migliorare le proprie condizioni materiali e raggiungere per questa via anche la possibilità di un elevamento morale: l’uno e l’altro, partendo da teorie diverse, perseguono nella realtà fini immediati identici. Ma ciò non toglie che le due teorie sieno essenzialmente diverse e che la propaganda dell’una rinneghi la propaganda dell’altra.

    Finalmente i metodi, con cui le due teorie intendono di raggiungere l’identico fine immediato del miglioramento operaio, sono insanabilmente avversi e inconciliabili. Il socialismo parte dalla concezione che la storia sia una successione di lotte di classi; nessuna classe ha mai abdicato spontaneamente alle proprie posizioni; anzi, le classi dominanti economicamente e politicamente si servono delle posizioni occupate durante la loro permanenza naturale al potere per opporsi alle nuove trasformazioni economiche della società e ai correlativi progressi politici delle classi che da siffatte trasformazioni economiche ricavano vantaggio: noi siamo giunti a uno stadio della evoluzione sociale, in cui sotto la pressione dell’industrialismo trionfante la proprietà tende ad assumere forme socializzate, con l’elevarsi del proletariato e con la disparizione di tutte le classi e delle conseguenti lotta di una volta; è interesse, pertanto, del proletariato organizzarsi economicamente e politicamente in partito di classe per sollecitare la trasformazione sociale a lui utile e rompere le resistenze politiche della borghesia. – Il mazzinianismo ha per base una concezione del tutto opposta della storia: la storia è il progresso indefinito dell’associazione; l’èra successiva non assorbe dissolvendoli gli elementi sociali dell’èra anteriore, ma aggiunge ad essi elementi nuovi, dando luogo a un equilibrio più perfetto, ad una sintesi più larga; la lotta è fenomeno caratteristico delle civiltà arretrate e va attenuandosi via via che il genere umano progredisce secondo il disegno divino sulla via del perfezionamento morale; nella prossima èra sociale non vi saranno più lotte né internazionali né sociali; tutti gli elementi della vita troveranno il loro equilibrio definitivo; noi abbiamo il dovere di affrettar questo futuro, promuovendo in tutte le maniere l’applicazione del principio associativo: la lotta di classe è quindi una ingiustizia, una immoralità, una bestemmia, il più grave dei delitti sociali.

    Forse le due teorie della lotta e dell’associazione sono entrambe vere, e il loro errore, tutto esterno, consiste nel volere escludersi a vicenda: dalla loro conciliazione – eliminati, naturalmente, tutti i fattori mistici ed estra-scientifici del mazzinianismo – vien fuori la più soddisfacente teoria del processo storico, che nello stato attuale degli studi si possa formulare: vi sono momenti – quando, cioè, occorre assicurare le condizioni propizie alla produzione – in cui gli interessi di tutte o di alcune fra le classi sociali costituenti la nazione o più nazioni concordano, e allora si ha il fatto dell’associazione di quelle classi e di quelle nazioni in vista di un intento comune da raggiungere; vi sono momenti – quando, cioè, occorre risolvere problemi di distribuzione – in cui gli interessi divergono, e allora si ha la lotta fra le classi o fra le nazioni; spessissimo nello stesso periodo storico vi sono problemi la cui soluzione richiede l’associazione di quegli stessi elementi, i quali sono invece spinti a lottare fra loro dalla necessità di risolvere altri problemi; e da questo scontrarsi e intrecciarsi di esigenze e di tendenze diverse deriva lo sviluppo non rettilineo, ma spezzato, frastagliato, tumultuario degli avvenimenti. – Ma anche dato per lontanissima ipotesi che Mazzini avesse potuto accettare una teoria eclettica di questo genere per ispiegare ciò che è stato nei tempi trascorsi – eclettismo, del resto, molto apparente, perché non è in fondo se non la teoria della lotta spogliata di ogni rigidità semplicista – è certo che Mazzini non avrebbe mai e poi mai accolto un eclettismo siffatto nel determinare ciò che dev’essere oggi per avviarci al domani.

    Egli che nella lotta politica contro lo straniero, contro il papato, contro i principi assolutisti predicava senza tregua l’insurrezione e, pur non promovendolo, non rifiutava neanche il regicidio,[12] nel campo delle lotte sociali era alieno da qualunque concezione catastrofica e insisteva per l’uso dei mezzi pacifici e delle trasformazioni graduate.[13] Sentendo che “l’esistenza di vasti centri manifatturieri” è una fra le condizioni, che determinano la lotta fra borghesia e proletariato, si compiaceva che questo “sviluppo esagerato anormale d’industria concentrata” mancasse in Italia, in Ungheria, nei paesi dell’Impero austriaco, in Germania, in Polonia (VIII, 193). Il termine proletariato lo adoperava assai di rado: diceva quasi sempre “popolo”.

    Questa parola ha nella terminologia mazziniana un significato molto oscillante. A volta Mazzini intende per popolo “l’aggregato di tutte le classi” (E, I, 75; III, 45), “l’università degli uomini componenti nazione” (I, 374), il “Popolo uno e indivisibile che non conosce caste o privilegi, né proletariato, né aristocrazia di terre o finanza”. A volte intende tutta la popolazione, esclusa l’aristocrazia: “fra il trono e il popolo un’aristocrazia è indispensabile” (I, 357, cfr. I, 221, 353, 355); “il popolo, la moltitudine dei borghesi e paesani”, contrapposta all’aristocrazia e al clero (III, 69). Spesso distingue le “classi medie”, la “borghesia” dal popolo (VII, 140; VIII, 214; IX, 327; E, I, 277; E, II, 450-1), facendo di popolo sinonimo di proletariato industriale (I, 222), di classi lavoratrici (VII, 291; cfr. VIII, 114, 189). Altre volte fa coincidere il popolo con le “classi artigiane” ed oppone popolani a ricchi (VIII, 303): “Stanno da una parte il popolo, dall’altra i privilegiati: re, nobili, ricchi borghesi, ed altrettali” (XII, 27). In generale, possiamo dire che Mazzini intende per popolo la media e minuta borghesia e l’artigianato, non pensando né al proletariato industriale né al proletariato rurale. Nelle formole che Mazzini spesso ripete: “le rivoluzioni devono farsi del popolo per il popolo,”, “tutto pel popolo e coll’opera del popolo”, è impossibile determinare quale significato abbia la parola.

    La stessa parola democrazia non lo soddisfaceva pienamente: “L’espressione governo sociale sarebbe da preferirsi come indicatrice del pensiero di associazione che è la vita dell’epoca. La parola democrazia fu inspirata nel mondo antico da un pensiero di ribellione, santa ma pur ribellione. Ora, ogni pensiero siffatto è evidentemente imperfetto e inferiore all’idea d’unità che sarà dogma al futuro” (V, 174). “Logicamente, la parola democrazia suona guerra di popolo contro un’aristocrazia fondata sul privilegio di nascita, che tra noi non esiste” (XVI, 226).

    Finanche nel campo tributario, che è uno fra i terreni classici delle lotte e delle sopraffazioni sociali, Mazzini non ammette si possa “attribuire a una sola classe il ricavato dei tributi, che chiesti a tutti i cittadini devono erogarsi a beneficio di tutti” (XVIII, 132). In nessun luogo delle sue opere egli accetta la tassa progressiva.[14] La trasformazione “per quanto è possibile” dell’ordinamento economico deve avvenire “senza danno o ingiuria ad altri” (XII, 207). Il capitale delle associazioni operaie di produzione, di consumo, di credito, deve costituirsi “senza manomettere la ricchezza anteriormente acquistata dai cittadini” (XVIII, 130); e poiché i risparmi degli operai non possono non apparire insufficienti a raccogliere tanto capitale da promuovere la trasformazione della società, Mazzini si rivolge alle classi medie perché contribuiscano alla emancipazione operaia, facilitando alle associazioni il credito o ammettendo i lavoratori a partecipare nei benefizi delle loro imprese, “stadio intermedio fra il presente e l’avvenire,” con che i lavoratori “raccoglierebbero probabilmente il piccolo capitale che occorre all’associazione indipendente” (XVIII, 129; XVI, 202); e soprattutto propone che il governo per far credito alle associazioni operaie costituisca un fondo nazionale coi beni ecclesiastici, con gli utili delle ferrovie, e “di altre pubbliche imprese,” coi beni comunali, con una tassa sulle successioni collaterali (XVIII, 131-2).

    L’organizzazione operaia egli la vuole e la promuove, assegnandole, dopo che avrà contribuito alla soluzione del problema nazionale, la funzione di sollecitare la soluzione del problema sociale; ma anche in questo campo non la considera mai come arma di combattimento contro la classe capitalistica, né le attribuisce mai alcuna funzione di resistenza e di sciopero; è un mezzo per affratellare gli operai, promuovere il loro progresso morale e intellettuale, rivendicare i loro diritti politici e specie il suffragio universale, far sorgere cooperative di lavoro, di consumo, di credito; è soprattutto la miglior via per far conoscere ufficialmente i bisogni delle classi povere alle classi superiori, perché possano provvedere. “La nazione intera – scrive Mazzini nel ’42, spiegando gli scopi dell’organizzazione – ha bisogno di sapere ciò che gli operai patiscono, accusano, invocano… Ordinatevi, dunque, tra voi perché l’espressione dei vostri bisogni e l’indicazione dei rimedi sian note alla nazione italiana” (V, 257, 264). E trent’anni dopo, nel Congresso delle società operaie tenuto a Roma nel novembre 1871 sotto la ispirazione di Mazzini, mentre non si parlava né di lotte economiche né di scioperi, si proponeva in prima linea fra gli intenti morali, sociali e politici della organizzazione quello di promuovere inchieste generali sui voti e sui bisogni dei lavoratori (XVI, CCXXI, 196-7).

    Dato, però, il caso che le classi superiori venissero meno al loro dovere, che cosa le classi inferiori dovrebbero fare? – A questa imbarazzantissima domanda Mazzini non risponde mai: una ipotesi di tal genere gli sembra così mostruosa e gravida di conseguenze terribili, che il suo pensiero non osa fermarvisi. Tanto varrebbe mettere in dubbio l’esistenza di Dio, il progresso, l’umanità collettiva, la rivelazione divina, il dovere, la missione, e mandar per aria tutto il sistema; tanto varrebbe mettere in dubbio la onnipotenza della educazione. Perché, “da qualsiasi parte volgiamo i passi incontriamo sempre lo stesso problema: la necessità di una trasformazione, d’un miglioramento morale in quelli che, sia per numero, sia per le facilità date dalla loro condizione, hanno mezzi efficaci che a noi fanno difetto. E ci si presenta pur sempre la stessa soluzione: ogni trasformazione morale è opera d’educazione: ogni opera d’educazione è essenzialmente religiosa” (XII, 316-17). “Si tratta – dice Mazzini agli operai – di render migliori e convinte dei loro doveri le classi che oggi, volontariamente o involontariamente, v’opprimono… Predicate il Dovere agli uomini delle classi che vi stanno sopra, e compite, per quanto è possibile, i doveri vostri: predicate la virtù, il sacrifizio, l’amore; e siate virtuosi e pronti al sacrifizio e all’amore. Esprimete coraggiosamente i vostri bisogni e le vostre idee; ma senz’ira, senza reazione, senza minaccia: la più potente minaccia, se v’è chi ne abbia bisogno, è la fermezza, non la irritazione del linguaggio” (XVIII, 18-20). Le classi superiori, quando non sieno spaventate con pretese smodate e minacce di violenza, ascolteranno, provvederanno.

    Se non si tien conto di questa inconciliabile opposizione fra mazzinianismo e socialismo sul terreno dei rapporti fra le classi, non si capisce il diverso atteggiamento che Mazzini ha tenuto di fronte alle teorie socialiste prima e dopo il 1850.

    I socialisti così detti utopisti della prima metà del secolo XIX predicavano tutti l’unione delle classi per la soluzione del problema sociale. E il socialismo, che oggi si contrappone spesso a democrazia, indicò prima del 1850 una politica democratica ispirata dal desiderio di migliorare le condizioni delle classi inferiori mediante una nuova organizzazione della proprietà da ottenere con l’opera del governo e per iniziativa delle classi superiori migliorate moralmente da un nuovo sistema di educazione; e fu spesso contrapposto al comunismo, che era considerato come una eresia veramente rivoluzionaria e continuatrice del babuvismo del sec. XVIII.[15]

    Finché le teorie socialiste ebbero quest’indirizzo, anche Mazzini si disse socialista. Egli, anzi, è stato uno dei primi in Europa ad adoperare la parola socialismo,[16] scrivendo nel 1834 che “l’epoca nuova è destinata a costituire la umanità, il socialismo” (E, I, 370); e nel 1838 considera come idee omogenee “missione, umanità, progresso continuo, socialismo” (L, 98); nel 1849, pur criticando e respingendo in un lunghissimo scritto il carattere utilitario di tutte le scuole socialiste e contrapponendo agli altri il suo piano di ricostruzione sociale (VII, 275 sgg.), scrive: “Il socialismo, aspirazione più che sistema, non vale se non desiderio di sostituire alla sfrenata anarchia di diritti e privilegi individuali, che oggi cozzano l’uno contro l’altro, l’associazione progressiva” (VII, 251), e rimprovera Pio IX perché confonde in uno socialismo e comunismo, “quantunque il primo contradica filosoficamente al secondo” (VII, 259); ancora nel 1850 deplora che “gli abbienti tremino del socialismo, perché lo giudicano nelle esagerazioni che falsano quella santa tendenza” (VII, 131). Onde insieme a Saint-Simon, a Fourier, a Leroux, a Pecqueur e agli altri umanitarii della prima metà del secolo XIX, anche Mazzini dovrebb’essere annoverato fra i precursori del socialismo moderno.

    Ma via via che il movimento proletario assume un carattere più rivoluzionario, e la parola socialismo si stacca dell’idea di semplice democrazia associazionista combaciando con quella di lotta di classe – il che avviene nel triennio 1848-1851 sotto l’impulso di Blanqui e di Marx – Mazzini diviene avversissimo a questa nuova forma di movimento così aberrante dai suoi ideali. Già nel 1851 scrive: “Noi non siamo comunisti, né livellatori, né ostili alla proprietà, né socialisti nel senso dato a quel vocabolo dai settari sistematici d’una vicina contrada” (VII, 112); e nel 1852, dopo il colpo di stato di Luigi Bonaparte, di cui attribuisce tutta la responsabilità ai socialisti francesi, che spaventando la borghesia l’hanno spinta verso il cesarismo (M, 349-50) la rompe clamorosamente con gli amici della vigilia, gridando: “Odio al colpo di stato, ma nessuna pietà pei socialisti”[17]; e inizia quella sistematica campagna antisocialista che continuerà fino alla morte.



    Gaetano Salvemini



    [1] Anche il Saffi nei Proemi agli scritti di Mazzini (XVIII, p. CXXXVIII) intuisce che fra mazzinianesimo e socialismo marxista vi sono rapporti di somiglianza che mancano del tutto fra il mazzinianesimo e il vecchio comunismo perpetuatosi nell’anarchismo. Cfr. CANTIMORI, Saggio sull’idealismo di G. M., pp. 322-323.

    [2] Citato in DE SANCTIS, La letteratura italiana nel secolo XIX, p. 46.

    [3] Citato in DE SANCTIS, op. cit., p. 269. In generale intorno alla letteratura popolare conservatrice del periodo del Risorgimento si vedano le stupende osservazioni del De Sanctis, pp. 260-278.

    [4] Fourniére, Les théorie socialistes au XIXe siécle de Babeuf à Proudhon, Paris, Alcan, 1904, pp. 296 sgg.

    [5] Fourniére, op. cit., pp. 144 sgg.; ISAMBERT, Les idées socialistes en France, p. 159.

    [6] MENGER, Lo Stato socialista, Torino, Roux, 1905, pp. 105-140.

    [7] XVIII, 68: “La patria sacra in oggi, sparirà forse un giorno, quando ogni uomo rifletterà nella propria coscienza la legge morale dell’umanità” – IV, 237: La patria “per lunghi secoli ancora sacra.”

    [8] Cfr. DE SANTIS, La lett. it. del sec. XIX, p. 422.

    [9] Fournière, Les théorie socialistes, pp. VI-VIII, 28; ISAMBERT, Les idées socialistes, pp. 60, 66, 76.

    [10] Pensava evidentemente, nello scrivere queste parole, alla gastrosofia, del Fourier.

    [11] VII, 38-40: “Parlate ai vostri fratelli, non solo dei loro diritti, ma dei loro doveri. Dite loro: Dio vi creò tutti eguali: ogni violazione dell’uguaglianza infrange la legge di Dio; e voi avete, non solamente il diritto, ma il dovere di combatterla e di ordinare le cose per modo che non possa ripetersi una seconda volta. Dio, nel dotare l’umana natura delle sue facoltà, non volle che queste fossero sottoposte all’arbitrio di una casta o d’un individuo, qualunque esso siasi; voi siete adunque liberi; e voi dovete prevenire e respingere con tutte le vostre forze chiunque l’offenda. Dio vi ha data una patria; permetterete voi che sia profanata o avvilita?” – XVIII, 18: “Dovete cercare e otterrete questo mutamento (nelle condizioni materiali); ma dovete cercarlo come mezzo e non come fine: cercarlo per senso di dovere, non unicamente di diritto: cercarlo per farvi migliori, non unicamente per farvi materialmente felici”. – La libertà non è un diritto, ma un dovere verso noi stessi (XVIII, 75, 76 88), e così tutti gli altri diritti.

    [12] Politica segreta italiana, p. 25; TIVARONI, L’Italia durante il dominio austriaco, III, 435-436; BOLTON KING, Mazzini, p. 167; CANTIMORI, op. cit., p. 243; LUZIO, Mazzini, p. 172.

    [13] Bisogna però notare che il rifiuto della lotta e delle violenze nelle trasformazioni sociali si manifesta solo dopo il 1848. Dapprincipio Mazzini, a somiglianza dei socialisti e democratici suoi contemporanei (Fourniére, Les théories, p. 302), è catastrofico. Nel 1832 crede imminente una grande rivoluzione politica e sociale insieme, e lavora ad affrettarla (La Giovine Italia, nuova edizione a cura di Mario Menghini, nella Bibl. storica del Risorgimento italiano, serie III, n. 6, pp. 21-23; n. 11-12, pp. 29, 44, 217). Nel 1835 scrive: “Su, destatevi! Non udite sotterra un romore come di nave sfasciata dalla tempesta, un romor di rovina imminente? È la vecchia Europa che crolla… È la giovine Europa che sorge… Figli di Dio e dell’Umanità, levatevi e movete. L’ora suonò” (V, 77-78). Nel 1836 scrive: “Una crisi immensa, sociale, generale europea si rende ogni giorno più inevitabile; e in quella crisi tutti i poteri attuali saranno stritolati come vetro” (E, II, 308). Nel 1852 invece troviamo che l’associazione volontaria tra gli operai deve essere sostituita al lavoro individuale salariato “pacificamente, progressivamente e quanto è possibile” (VIII, 189). E così nel 1871 (XVII, 49, 59).

    [14] “Un sistema di tributi che, lasciando inviolabile da ogni diretta o indiretta sottrazione il poco necessario alla vita, graviti equamente su ciò che varca quel limite” (XVIII, 49), la “sostituzione d’un solo tributo sul reddito all’attuale sistema dei tributi diretti o indiretti” (XVII, 131) non implicano progressione dell’imposta.

    [15] WEILL, L’école saint-simonienne, p. 309; Hist du parti républicain, pp. 320 sgg: Fourniére, Les théories socialistes, pp. 10, 17, 306 sgg.; ISAMBERT, Les idées socialistes, pp. 66, 297, 371, 357, Cfr. MARTELLO, Storia dell’Internazionale, Padova, Fratelli Salmin, 1873, pp. 491-492.

    [16] ISAMBERT, op. cit., p. 209, afferma che il primo ad adoperare la parola socialismo sia stato Pierre Leroux in un articolo De l’individualisme et du socialisme, pubblicato nella “Revue encyclopédique” della primavera del 1834; ma il WEILL, L’école saint-simonienne, p. 309, ha trovata la parola già nel numero 13 febbraio 1832 del “Globe saint-simonienne.” Ad ogni modo il Leroux, se non creò di sana pianta, mise in circolazione la parola; e subito dopo la usò Mazzini. Secondo l’HOLYOAKE, Hostory of Cooperation, I, 191, 219, i seguaci di Owen avrebbero nel 1836 al Congresso di Manchester adottato la parola socialisti a designare se stessi. Il termine diviene di uso comune dopo il 1840: MENGER, Lo Stato socialista, p. 21.

    [17] VIII, 150 sgg. 164; M, 357-358; THOMAS, Pierre Leroux, pp. 124-131; MORMINA-PENNA, L’idea sociale di G. M. e i sistemi socialisti, Bologna, Tip. cooperativa Azzoguidi, 1907, pp. 314 sgg. Le acerbissime polemiche, che in questa occasione ebbe Mazzini coi socialisti francesi, e in generale tutti i rapporti che Mazzini ebbe con gli altri rivoluzionari europei, possono dare argomento a uno studio assai interessante.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Giuseppe Mazzini (Genova, 1805 - Pisa, 1872)

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    In L. Salvatorelli, “Unità d’Italia. Saggi storici”, Einaudi, Torino 1961, pp. 109-114.

    Nella vita millenaria del popolo italiano ha inizio alla fine del secolo decimottavo, sotto lo stimolo diretto della Rivoluzione francese, e nel quadro della espansione egemonica di questa, il periodo di costruzione dello stato indipendente, libero, unitario. Elemento essenziale del processo è la doppia iniziativa, popolare e monarchica: dualismo che si presenta al principio come pura alternativa, al termine come discordia concorde.
    Nell’agosto 1796 si cantava nelle vie di Milano la canzonetta: “Una madre, un suolo istesso | ci dié vita e ci sostiene; | è nemico al comun bene | chi è nemico all’unità”. Il sentimento della canzonetta si traduceva qualche mese dopo nella dissertazione di Melchiorre Gioia ragionante la Repubblica una e indivisibile. Con l’avvento di Bonaparte al trono imperiale e regio l’ideale unitario si eclissava. Lo rievocò nel 1814-15 l’avventuriero Murat, dietro cui era il residuo dei patrioti del 1799. Ma fu rievocazione fugace, effimera; dopo i primi anni della Restaurazione, i moti patriottici del 1820-21 associano al pronunciamento militare il pluralismo monarchico-dinastico, dietro cui si profila appena, nello sfondo, un programma federativo, arieggiante alla ipotesi alfieriana dei due regni dividentisi l’Italia. Nel 1831 le insurrezioni dell’Italia centrale ci riportano ancora più indietro e più in basso, col disarmo imposto alle truppe modenesi di Zucchi dal governo di Bologna: ultimo (e giustamente fallito) appello alla Francia perché in nome del non intervento fermasse l’esercito austriaco avanzante a restaurare il Papa-Re.
    Da quell’estremo di abbassamento morale prese le mosse l’iniziativa mazziniana, mentre i liberali patrioti si avviavano al raccoglimento interiore da cui sarebbero venuti fuori i manifesti di Azeglio, Balbo, Gioberti, e tutto il movimento riformistico del 1846-47. Con Giuseppe Mazzini, fondatore della Giovine Italia, l’ideale popolare-unitario risuscita a nuova vita: non più come riflesso di una rivoluzione e occupazione straniera; ma – assorbiti ormai di quella rivoluzione i succhi vitali – come moto nazionale autonomo, che si fa innanzi a prendere nei movimenti democratico-nazionali europei un posto proprio, e anzi un posto direttivo. Direzione non soltanto ideale, o di congiuntura, ma affermatasi nelle diverse “Giovini”, dalla Germania alla Spagna passando per la Svizzera e la Francia: nuclei di consistenza più che modesta e di durata brevissima, e che tuttavia non possiamo chiamare effimeri, perché posero la base delle vaste e durature relazioni internazionali di Mazzini cospiratore e agitatore; relazioni educatrici di quella democrazia europea che ancora oggi, in condizioni e modi tanto cambiati, è la forza maggiore per la costruzione di una società sempre più libera e sempre più giusta.

    ***

    Con la fondazione della Giovine Italia, e con tutta la successiva predicazione-azione, Mazzini dette l’impulso più forte e decisivo all’autocoscienza della nazione italiana, e alla sua pratica affermazione, del cui maggiore risultato celebriamo oggi il primo centenario. Tre idee costituirono la trama di codesta autocoscienza: indipendenza, libertà, unità; ma l’ultima è la chiave di volta dell’edificio. Senza unità – ecco il chiodo fisso, l’intuizione vitale, la fede religiosa di Mazzini – non c’è né indipendenza sicura, né libertà feconda di opere, né potenza necessaria a tenere il proprio posto e adempiere la propria missione nel mondo: la missione affidata da Dio a ciascun popolo.
    Per l’Italia la missione era quella di iniziare la riscossa delle nazioni asservite, di fondare la veramente santa alleanza dei popoli, contro la sedicente santa alleanza del re. Quella inserzione dell’Italia nella vita moderna, che il patriottismo liberale vedeva e propugnava (con esatta percezione della realtà immediata) come innalzamento italiano al livello della civiltà europea, si trasforma per la coscienza di Mazzini in un formidabile balzo innanzi dell’Italia – come il salto prodigioso di un altissimo steccato – alla testa dell’Europa nuova.
    Utopia smentita da tutti gli svolgimenti successivi, ove si prenda come lettera di un programma immediato, interamente prestabilito. Ma realtà verificatasi meravigliosamente, se la si traduca nei suoi termini storici. Che sono quelli della fondazione di una Italia indipendente, libera e una, accettata o subita dall’Europa, cioè dalle potenze e classi dirigenti europee. “È essenziale al progresso dell’umanità che l’Italia sia una e libera; e sarà”, scriveva Giuseppe Mazzini nel 1854. La soluzione del problema italiano risultò effettivamente – anche se la coscienza storiografica, in Italia e fuori, tardi a prenderne coscienza adeguata – condizione primaria per la necessaria trasformazione europea: per il nuovo ordine da sostituire all’antico, senza distruggere di questo gli elementi permanentemente vitali.

    ***

    La bomba lanciata da Felice Orsini il 14 gennaio 1858, e interpretata dalle parole del cospiratore morituro al Cesare scampato, è il suggello sanguinoso a questa necessità europea di una nuova Italia. Così come l’insieme dei tentativi insurrezionali falliti, dai fratelli Bandiera a Pisacane (che dobbiamo chiamare “mazziniani”, anche se l’uno o l’altro di essi sia stato sconsigliato da lui, tutt’altro che incapace, a tempo debito, di realismo politico), costituì la molla opportunamente, sistematicamente messa in azione da Cavour, per spingere Napoleone III ad affrettare e moltiplicare le coincidenze fra la sua politica effettiva e gli ideali radicati in fondo al suo spirito. E con Napoleone III, o dietro di lui, gli altri potentati europei furono indotti ad avallare, di buona o malavoglia, espressamente o tacitamente, le arditezze rivoluzionarie italiane.
    Ma la politica di Cavour, fatta propria e firmata per l’Europa da Vittorio Emanuele, non avrebbe potuto far scattare quella molla – e anzi, quelle arditezze rivoluzionarie avrebbero irrigidito le resistenze del vecchio ordine europeo, che aveva sempre in mano la maggior forza materiale – se l’influenza mazziniana si fosse limitata all’effetto che chiameremo terroristico. Essa invece raggiunse ben altra profondità: quella di una trentennale predicazione politico-etica sempre più efficace e diffusa, presentante le aspirazioni nazionali italiane come ragionevoli, giuste, sante: come articolo primo di un “credo” abbracciante tutta la vita europea, anzi tutta l’umanità. Ciò vale per i diversi strati politico-sociali italiani; ma vale, anche, e forse più, per quelli stranieri, e innanzi tutto per quelle élites occidentali (innanzi tutto inglesi) che tanto contribuirono a dare nella coscienza e nella politica europea pieno diritto di cittadinanza alla causa nazionale italiana.
    Questa influenza di più alto tipo, Mazzini, dopo quasi un secolo dalla sua morte, la esercita tuttora, e in una sfera non più soltanto europea, ma mondiale; ed è influenza a cui rimane aderente il connotato della italianità. Essa si esercita non solo sul piano politico, ma su quello sociale. Non è possibile qui non ricordare che, se nell’ultimo terzo del secolo decimonono Marx aveva sconfitto Mazzini, nel corso del secolo ventesimo Mazzini si è avviato a superare Marx (che è stato, poi, dall’altra parte, deformato e capovolto da Lenin e Stalin). Oggi il socialismo emerge come un metodo capitale per la vita economica e morale di ogni nazione, entro un libero e paritario ordinamento interno e internazionale: un metodo rispondente all’ideale mazziniano, che considera lo stato nazionale come una comunità di vita, retta dalla legge del libero lavoro personale.

    ***

    La fede religiosa, non priva di un inizio di fanatismo – quale fede ne è totalmente scevra? – nella iniziativa popolare; le esperienze delusive del Quarantotto; l’avversione mortale per il Cesare francese uccisore della Repubblica romana del 1849, e quella di poco inferiore per Cavour (diffamato come semplice strumento di una politica napoleonica, anch’essa in gran parte di immaginazione mazziniana); infine, il pregiudizio contro la monarchia costituzionale-parlamentare, considerata corruttrice: tutto questo insieme generò e mantenne nello spirito di Mazzini il pregiudizio ostile alla iniziativa nazionale monarchica, da lui ritenuta al tempo stesso impossibile e inaccettabile. Se, però, dall’astratto della teoria si scende al concreto dei fatti, si vede che il pregiudizio non si trasformò in scomunica maggiore e in opposizione sabotatrice; ma anzi ammise – al momento culminante della unificazione – il concorso più ampio e più generoso. La rivoluzione dell’Italia centrale, la spedizione dei Mille, l’occupazione delle Marche e dell’Umbria rappresentano altrettante idee mazziniane, la cui realizzazione egli promosse anche quando fu perfettamente chiaro che si trattava di un caso grandioso – e per lui doloroso – di sic vos non vobis, quale forse un secondo non è registrato dalla storia.
    Né, inoltre, la sua opposizione di principio al Regno d’Italia non fondato da una Costituzione nazionale può essere valutata unicamente quale coerenza ideale. Essa fu anche una grande forza politica, in quanto mantenne vivo, nel Risorgimento e nel post-Risorgimento, il valore finale dell’autodecisione popolare e della democrazia integrale; contribuì allo svolgimento, nell’insieme progressivo, dello stato italiano avanti la prima guerra mondiale; fornì l’ispirazione morale e il fondamento politico per la repubblica italiana odierna.
    L’ultima parola sul senso dell’opera mazziniana ce l’ha detta egli stesso, al momento della morte, rispondendo al medico che si meravigliava di come il signor George Brown (sotto questo nome inglese il Mazzini si trovava clandestino a Pisa, in casa Rosselli) parlasse così bene italiano: “Ma io sono italiano, amai infinitamente la mia patria, e credo di avere operato qualche cosa per lei”.


    Luigi Salvatorelli
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    Predefinito Re: Giuseppe Mazzini (Genova, 1805 - Pisa, 1872)

    Socialismo e socialismo mazziniano


    di Sauro Mattarelli – Dalla postfazione a Roland Sarti, “Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile”, Laterza, Roma-Bari, 2011, pp. 325-328.



    Un errore fondamentale dei socialisti, secondo Mazzini, consisteva nell’insistere a guardare al mondo e non all’uomo, all’associazione dei beni, piuttosto che a quella delle intelligenze[1]. Il “socialismo mazziniano”[2] quindi, come verrà rimarcato da molti autori praticamente durante tutto il Novecento, sotto tali prospettive, era riferibile alla coniugazione della libertà con l’associazione, intesa anche come necessità di non disgiungere il pensiero dall’azione al fine di non omettere i già sottolineati passages essentiels, attraverso accelerazioni della storia estranee alla dimensione umana a cui la stessa storia deve ricondursi. Entro questo punto di vista va compresa una parte della critica di Antonio Gramsci, che rimproverò a Mazzini di non aver saputo svolgere una “politica giacobina” che, sola, a giudizio dell’intellettuale comunista, avrebbe potuto dare respiro alla rivoluzione democratica borghese, attraverso una radicale politica di riforme agrarie[3]. L’analisi gramsciana non si soffermava quindi attorno a un mero riscontro, ovvio, dell’incompatibilità fra l’analisi dialettica di Marx ed Engels basata sul rapporto, essenzialmente “nomologico”, struttura-sovrastruttura e la visione mazziniana di un mondo ove spicca chiara una funzione centrale a livello antropologico. Gramsci analizzò invece soprattutto la capacità riformatrice del mazzinianesimo e la sua conseguente idoneità a costituire un pre-requisito, seppur indiretto, per l’avvento della dittatura del proletariato.
    A questa concezione del Risorgimento si opposero, come noto, molti studiosi che polemizzarono in varie epoche con Gramsci: pensiamo alle critiche di Benedetto Croce e Federico Chabod[4], riguardanti soprattutto il metodo storico e a quella, più recente, di Rosario Romeo, secondo cui una rivoluzione agraria in epoca risorgimentale non sarebbe stata possibile e in ogni caso avrebbe mobilitato contro i riformatori i maggiori stati europei[5].
    Possiamo sottolineare come, naturalmente, il socialismo religioso mazziniano, che proponeva una via essenzialmente democratica e interclassista e non maccanicistica del progresso, non potesse svolgere il compito tradizionale che l’analisi marxiana attribuiva alle rivoluzioni borghesi, per il semplice fatto che la teoria dell’associazionismo superava la concezione economica borghese, proponendo implicitamente un socialismo diverso, forme gestionali a cui si sarebbero ispirati alcuni teorici del XX secolo: dalla cooperazione al kibbùz, dalle forme della cogestione a quelle dell’azionariato diffuso. Modelli che, profondamente calati nel “sociale”, evidentemente, risultavano alternativi e, nel contempo, direttamente concorrenti rispetto al modello comunistico marxiano, proprio nel loro imporre riforme radicali nei confronti del modello “liberalista” puro. Questo aspetto dimostra, da una diversa prospettiva, come il repubblicanesimo rinverdito da Mazzini, pur contendendo i postulati liberisti, superasse nettamente, nel contempo, le dottrine utilitaristiche di Hobbes e correggesse Adam Smith, riprendendo parte dello “spirito delle leggi” di Montesquieu, mediato dalle cautele di Tocqueville, specie laddove alla “virtù repubblicana” si affiancava la teorica dei doveri, fruibile anche per esorcizzare il rischio della “dittatura della maggioranza”, da cui la democrazia non è esente, specialmente proprio quando non riesce a dotarsi degli strumenti partecipativi di tipo associazionistico[6]. Un repubblicanesimo che postulasse un liberalismo etico-sociale capace di superare il semplice principio di “non interferenza” dello stato riportava poi, ancora, alle riflessioni di Stuart Mill, chiarite ulteriormente in questo secolo da Benedetto Croce, secondo cui l’intervento statale in economia è pienamente legittimo se avviene nel rispetto dei diritti dell’individuo. Mazzinianamente, si potrebbe parafrasare il concetto affermando che un mezzo adatto alla realizzazione degli obiettivi economici di uno stato può consistere nel favorire l’incontro tra “capitale e lavoro nelle stesse mani”, che implicava il miglioramento radicale del liberismo in senso socialista ma, contemporaneamente, il rigetto della concezione marxiana economicista e determinista, conculcante la libera espressione delle persone[7], dietro la promessa di un paradiso in terra, impalpabile e soprattutto deresponsabilizzante quanto quello “in cielo” promesso dal cattolicesimo.
    Se ci appropriamo di queste considerazioni, appare naturale che l’interesse di Gramsci si rivolgesse piuttosto al liberalismo post-cavouriano, basato su un capitalismo monarchico accentrato, o ricercasse, al limite, nel pensiero di Cattaneo riferimenti meno complessi, o comunque meglio adattabili a un’analisi marxiana tesa a individuare i cardini su cui potesse poggiare un processo di rapida trasformazione dell’arretrata società italiana, atto a favorire, magari con l’ausilio della mediazione del federalismo interno, la creazione di uno stato “liberato” e connotato in senso operaio-contadino, in grado cioè di creare le condizioni per il trapasso a sistemi “più avanzati” nel senso della esasperazione del conflitto tra le classi[8].
    Gaetano Salvemini, rifacendosi alle considerazioni di Bolton King, Carlo Cantimori e dello stesso Saffi, sottolineò comunque, opportunamente, tutte le affinità tra mazzinianesimo e socialismo nella critica radicale all’indifferenza liberale e, soprattutto, nella denuncia dell’esistenza di una classe in possesso “degli elementi di ogni lavoro, terre, credito o capitali” contrapposta a un’altra priva di tutto, fuorché delle braccia per lavorare. Una riflessione che corrobora quanto abbiano finora sostenuto in tema di “alternativa associazionistica” rispetto al socialismo scientifico. La già citata formula “capitale e lavoro nelle stesse mani” rappresentava, appunto in quest’ottica, la riposta del socialismo mazziniano a una realtà ove la proprietà restava monopolio di pochi, il sistema della tassazione impoveriva i ceti meno abbienti, il lavoro svolto non veniva equamente retribuito, le politiche di conquista apportavano a certi popoli ricchezze che erano “frutti d’un lavoro non compìto da essi”[9]. Ma, rispetto all’analisi dei comunisti, oltre al ripudio della concezione meccanicistica, Mazzini opponeva il rifiuto dell’edonismo insito nelle scuole socialiste, comprese quelle saintsimoniane, derivato dall’utilitarismo di Bentham: il dovere di tutela dei propri interessi economici, secondo l’etica mazziniana, non costituiva un fine, ma un mezzo per poter svolgere gli altri doveri, da uomini liberi: verso Dio, l’umanità, la patria, la famiglia.
    Questi aspetti, da contestualizzare in un impianto di pensiero che postulava il rifiuto del terrore e della dittatura del proletariato, condussero alla inevitabile rottura con i vari Blanqui, Engels e Marx; non preclusero tuttavia a Mazzini la socialità. Non a caso, Carlo Rosselli, in un noto saggio su Filippo Turati, avrebbe annoverato senza esitazioni il genovese nel pantheon di “Giustizia e Libertà”, in chiara funzione antifascista, assecondato in questa operazione, ovviamente, dal fratello Nello e da Franco Venturi, ma in polemica con coloro, come Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte, che invece puntavano a un drastico ridimensionamento di un Mazzini di cui […] si era appropriato Giovanni Gentile:
    Libertà e giustizia, giustizia e libertà. Senza retorica – scriveva Rosselli – si può affermare che Cattaneo, Mazzini, Garibaldi, Pisacane, i grandi vinti del Risorgimento politico danno la mano a Turati, questo grande, ma provvisorio, vinto del Risorgimento sociale, per annunciare, indissolubilmente uniti, la nuova storia italiana[10].



    [1] S. Mastellone, Introduzione a G. Mazzini, Pensieri sulla democrazia in Europa, Feltrinelli, Milano 1997, p. 36; cfr. R. De Felice, Mazzini e il socialismo, in Giuseppe Mazzini, Edizioni della Voce, Roma 1972.

    [2] L’espressione, coniata da Alfredo Bottai, fu ripresa anche da altri autori e studiosi; cfr. G. A. Belloni, Socialismo mazziniano, Archivio trimestrale, Roma 1992, a cura di V. Parmentola, a cui si deve anche l’Introduzione; Prefazione di G. Spadolini.

    [3] Di Antonio Gramsci sul Risorgimento si vedano soprattutto i Quaderni 1, 3, 6. In questa sede abbiano fatto riferimento al volume Sul Risorgimento, Editori Riuniti, Roma 1980, tenendo conto anche della Introduzione di G. Candeloro.

    [4] Cfr. “Quaderni della Critica”, XV, 1949 e “Rivista storica italiana”, LXIV, 1952.

    [5] R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1959; dello stesso autore si veda anche L’influsso rivoluzionario di Mazzini in Europa, in “Nuova Antologia”, 2161, gennaio-marzo 1987. Mazzini triumviro della repubblica romana del 1849 in verità formulò una serie di riforme in campo agricolo che incontrarono forti difficoltà in sede di attuazione a causa di resistenze esterne e interne al progetto, perpetrate, queste ultime, soprattutto dai funzionari rimasti fedeli al regime papalino. Cfr. R. Balzani – S. Matterelli – M. Ostenc, Politica in periferia. La Repubblica romana del 1849 fra modello francese e municipalità romagnola, a cura di S. Mattarelli, Longo, Ravenna 1999.

    [6] Per i riferimenti alla “virtù” repubblicana vedi C. de S. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Rizzoli, Milano 1989, trad. it. di B. B. Serra; sui problemi della maggioranza e sul ruolo della minoranza in democrazia vedi A. de Tocqueville, La democrazia in America, a cura di G. Candeloro, Rizzoli, Milano 1992.

    [7] Su questi concetti è utile una lettura-confronto di R. Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, Laterza, Roma-Bari 1987; cfr. anche A. Downs, Teoria economica della democrazia, Il Mulino, Bologna 1988; A. Przeworski, Capitalism and Social Democracy, Cambridge University Press and Maison des Sciences de l’Homme, Cambridge-Paris 1985; le voci liberalismo, a cura di N. Matteucci e liberalsocialismo, a cura di N. Tranfaglia, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio – N. Matteucci – G. Pasquino, Utet, Torino 1990. Cfr. J. S. Mill, Considerations on Representative Government, in Collected Works, vol. XIX, ora in trad. it. a cura di P. Crespi, Bompiani, Milano 1946; G. Mazzini, Dei doveri dell’uomo; J. –J. Rousseau, Il contratto sociale, Utet, Torino 1966. Molto chiaro il testo di L. Salvatorelli, Mazzini e Marx, in Mazzini, numero unico pubblicato in occasione dell’inaugurazione del monumento nazionale a Roma da parte del Comitato nazionale per le onoranze, Roma 1949.

    [8] Cfr. Gramsci: I “Quaderni del carcere”. Una riflessione politica incompiuta, a cura di S. Mastellone, Utet, Torino 1997, in particolare il saggio di C. Malandrino, Autonomie e federalismo.

    [9] G. Salvemini, Scritti sul Risorgimento, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 224 sgg.

    [10] C. Rosselli, Filippo Turati e il socialismo italiano, in “Quaderni di Giustizia e Libertà”, n. 3, giugno 1932. Alcuni autori hanno riscontrato notevoli affinità tra l’associazionismo mazziniano e il socialismo di economisti e cooperatori come Ugo Rabbeno, Luigi Luzzatti, Nullo Baldini. Cfr. D. Demarco, Economia e società nel pensiero di Giuseppe Mazzini, Centro napoletano di studi mazziniani, Napoli 1958, p. 23. Nello Rosselli avrebbe voluto scrivere una biografia di Mazzini, che avrebbe costituito l’opera della sua maturità di storico. Cfr. N. Rosselli, Saggi sul Risorgimento, Einaudi, Torino 1980, con il saggio introduttivo Nello Rosselli storico di A. Galante Garrone e la Prefazione di G. Salvemini; N. Rosselli, Mazzini e Bakunin, Einaudi, Torino 1976, con Prefazione di L. Valiani.
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    Predefinito Re: Giuseppe Mazzini (Genova, 1805 - Pisa, 1872)

    L’uomo nella società: il popolo. Un primo confronto con il liberalismo



    di Sauro Matterelli – Dalla postfazione a Roland Sarti, “Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile”, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 318-320.


    […] Possiamo notare come al centro della […] riflessione [di Mazzini] ci sia l’uomo: non solo l’individuo pensante propostoci dalla cultura illuminista, né il titolare dei “droits”, esaltati dalla Rivoluzione francese; e neppure il cristiano liberato dalla schiavitù. Certo, sia il cristianesimo, sia l’Illuminismo, come pure la Rivoluzione francese, contribuirono al riscatto dai condizionamenti storicamente più vincolanti per l’uomo, ma questo pur notevole traguardo, secondo Mazzini, esauriva funzioni che avevano prodotto, seppure attraverso vie differenti, risultati basati sull’esaltazione dell’individualismo, sul primato dell’ “avere” rispetto all’ “essere”. Rappresentava quindi l’infanzia dell’umanità; il primo gradino, ormai acquisito, dell’evoluzione umana. Si trattava di andare oltre.
    Per il genovese la fase della maturità era perseguibile nell’ambito di un nuovo soggetto, il popolo, che non veniva rappresentato, semplicemente, dall’insieme di individui che vivono in uno stato ma, piuttosto, dalla volontà comune che questi sanno esprimere[1]. Il ruolo dell’uomo, attraverso il popolo, è quindi eminentemente collettivo, e si estrinseca nella patria, che non è tanto il luogo in cui si è nati, ma la nazione che consente di svolgere, a tutti gli individui, associati, la loro missione storica e di progresso. Sotto questa prospettiva il repubblicanesimo mazziniano, oltre ad accogliere le classiche tesi del liberalismo, si spingeva a postulare chiaramente il ruolo educativo dello stato e della sua “missione”, volta a far crescere le persone e a far progredire, nella rigorosa tutela della libertà dei singoli, l’umanità intera. Uno dei motivi polemici verso Romagnosi nacque proprio da questa concezione della storia[2], ove i cicli, vichiani, venivano concepiti da Mazzini in senso quasi spiraliforme, ma con un trend comunque progressivo in cui le nazioni, nell’ambito dell’umanità, assumevano una funzione che, schematicamente, può essere assimilabile a quella degli “individui” all’interno di una comunità. Veniva così aggiornata, su un piano più elevato, l’antica utopia repubblicana delle libertà: l’idea liberale di libertà (individuale), intesa come assenza di impedimenti e mera indipendenza, risulta superata, o, meglio, com-presa dalla concezione democratico-repubblicana che implica l’acquisizione dell’autonomia, l’estensione attiva del concetto di responsabilità, attraverso il potere di darsi leggi e il dovere di obbedire alle leggi che un popolo s’è dato. Rispetto al liberalismo, basato su un diritto puro che tendeva a proporre una libertà essenzialmente formale, si passa a una libertà reale, che trascende la teorica del diritto e si basa sulla capacità di sviluppare le facoltà di ogni individuo: una libertà-cointeressenza esprimibile solo nell’ambito sociale e previo un effettivo coinvolgimento a vari livelli nel governo della cosa pubblica[3].
    Sia il liberalismo che le stesse dottrine democratiche appaiono quindi, da questo punto di vista, derivazioni “impoverite” del repubblicanesimo storico, secondo cui, sarà bene ricordarlo, la partecipazione all’autogoverno diviene il mezzo per selezionare i cittadini migliori a cui affidare le sorti della repubblica. Da Machiavelli a Rousseau era stato poi magistralmente chiarito che, nell’ambito della repubblica, la povertà non deve precludere la partecipazione alla gestione della cosa pubblica e nessun individuo dovrebbe ridursi a uno stato di miseria tale da costringerlo a vendersi. Ma questi diritti sociali non vanno confusi con l’assistenzialismo o con forme massificanti di carità, pubblica e privata, che offendono la dignità di chi le riceve[4]. Mazzini fu chiarissimo al riguardo:
    “La carità cristiana fu piuttosto mezzo di miglioramento della propria anima che coscienza d’un fine comune da raggiungersi, per volere di Dio, quaggiù: non varcò i limiti della beneficienza; nudrì, dove gli uomini della nuova religione s’abbattevano in essi, gli affamati, vestì i laceri, circondò di cure gli infermi; non pensò al come potessero togliersi le cagioni della miseria e della nudità”[5].




    [1] Cfr. L. Cecchini, La funzione educatrice della religiosità laica di Giuseppe Mazzini, in “Il Pensiero mazziniano”, 1998, n. 2.

    [2] C. Cantimori, Saggio sull’idealismo di Giuseppe Mazzini, Montanari, Faenza, 1904. Cfr. U. Della Seta, Giuseppe Mazzini pensatore – Le idee madri, Forzani, Roma 1910 e, soprattutto, A. Levi, La filosofia politica di G. Mazzini, Zanichelli, Bologna 1922; importante di questo testo anche l’edizione curata nel 1967 da S. Mastellone.

    [3] Cfr. N. Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955; M. Ozouf, L’idée républicaine et l’interprétation du passé national, in “Annales”, LIII, novembre-dicembre 1998, 6.

    [4] Cfr. M. Viroli, Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari 1999.

    [5] G. Mazzini, Dal Concilio a Dio, Edizione Nazionale degli Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini, Galeati, Imola 1940. Cfr. W. Lanzoni, Dio e il popolo, Santerno Edizioni, Imola 1995.
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