Jeremy Corbyn: è arrivato il momento della verità
È giunto il momento della verità per #Jeremy Corbyn, leader del Labour doppiamente eletto nel 2015 e ancora nel 2016, dopo una congiura che lo aveva sottoposto ad un altro passaggio con gli iscritti. Comunque vada, la parabola politica del parlamentare di Islington North è in forte e prematura discesa. Un peccato, dato l’idea, la narrazione, il metodo della sua proposta avevano entusiasmato parecchi, nell’estate del 2015, e si sperava portassero buoni frutti e un esempio che se non era da imitare, si poteva almeno guardare con interesse.
Jeremy Corbyn: è arrivato il momento della verità

E invece un miliardo di errori e piccole gaffe, una scarsa capacità di comunicazione interna, un gruppo ben nutrito di cattivi consiglieri, un’incapacità di mostrarsi in maniera “polished” – e per gli anglosassoni questo conta, nonostante si vestano mediamente mooolto peggio di noi – sono stati fattori che hanno danneggiato ormai quasi permanentemente tutta la dinamica che Corbyn era riuscito a generare all’interno del Labour e non solo. Se ci aggiungiamo una oggettiva antipatia da parte dei media, comprovata da una ricerca della LSE, e il fatto che l’apparato Labour storico non lo ha mai digerito come leader, tanto da decidere il 12 settembre 2015, giorno stesso della prima delle sue due elezioni, di volerlo eliminare, fare la quadra sull’esperienza di Corbyn è abbastanza semplice.
Il Labour Party è stato letteralmente travolto dalla storia. Pur avendo la possibilità, con un leader dichiaratamente “anti-establishment”, di presentarsi come un’alternativa sia di lotta che di governo al disastro che hanno combinato e stanno continuando a combinare i Conservatives, il continuo battagliare interno, le marachelle e i dispettucci, il discorso appassionato a favore dell’intervento in Siria e contro la linea del Leader, da parte di Hilary Benn, i parlamentari Labour in continua e stucchevole ribellione, ma anche l’incapacità da parte di Corbyn stesso di trovare un compromesso e una linea che tutti potessero rispettare, hanno mostrato ai britannici un partito di fatto non servibile al governo.
Normale che i consensi per il Labour, almeno nei sondaggi, scendessero sensibilmente. Ed era ovvio che questo succedesse in usa fase di incertezza per il #Regno Unito, dove paradossalmente chi ha fatto il danno – i Conservatives – sembra anche l’unico in grado, se non di risolverlo, almeno di spazzarlo via sotto il tappeto di un improbabile accordo bilaterale con gli Stati Uniti di Trump e, pare, con qualsiasi altra nazione della Terra.
Ora, siamo alla vigilia del voto della House of Commons sull’applicazione dell’articolo 50, quello che avvia la procedura di uscita dall’Unione Europea. L’ennesima ghigliottina per il Labour, dato che la maggior parte dei suoi elettori ha votato Remain (siamo sul 75%, e parliamo di elettori di città, prevalentemente Londra, Manchester, Liverpool), ma allo stesso tempo la maggior parte delle sue constituencies, ben il 70% dei collegi uninominali che eleggono i membri del Parlamento ha espresso una preferenza, in alcuni casi netta, per il Leave.
È la ribellione del Nord povero, della celebre “Labour Heartland”, un tempo roccaforte rossa di operai organizzati e oggi regione in via di desertificazione industriale. Fondalmente il Midwest britannico, che – storia comune ad ormai tutti i paesi occidentali – sfrutta ogni occasione per dire No a ciò che nel momento del voto rappresenta la globalizzazione, l’establishment, l’élite. Citofonare Hillary Clinton, per capire meglio.
La missione e la scommessa di Jeremy Corbyn, subito etichettato dai liberali ex-blairiani come un obsoleto freak movimentista, era proprio quella di connettere le radici socialiste che emozionavano le regioni operaie con lo spirito di protesta e apertura al mondo dei giovani di città. Ed è in questa logica che, avvenuto il voto sulla Brexit, il leader del Labour ha preferito non “sputare” sul risultato, come tantissimi dei suoi colleghi Labour, ma cercare di declinare l’inevitabile Brexit nel modo il più possibile vicino ai valori del partito che guida. Ciò non poteva che creare un’altra spaccatura insanabile nel Labour, tra leali e sleali al leader, tra parlamentari di città e di provincia, tra moderati e apologeti dei good old times.
Singolare, tra questi, la posizione degli eurofili più spinti, che subito dopo la batosta del referendum si sono improvvisamente riscoperti sensibili al tema dell’eccessiva immigrazione nei collegi di provenienza. Uno su tutti Tristram Hunt, ex-membro proveniente da Stoke On Trent, che si è prontamente dimesso nelle scorse settimane pur di evitare una figuraccia nei prossimi giorni e alle prossime elezioni: tranquilli, non rimarrà disoccupato, ma dirigerà un bel museo a Londra.
Ora, Jeremy Corbyn ha imposto ai parlamentari del Labour di rispettare il risultato del referendum e votare per l’attivazione dell’articolo 50, quindi all’avviamento della procedura di uscita dall’Unione Europea da parte del Regno. Una scelta tattica per andare a poter negoziare la Brexit ponendo condizioni su clausole fondamentali, come la permanenza nel mercato comune e il rispetto dei diritti umani e sociali vigenti in Europa.
Una delle poche scelte possibili, per non alienare i tanti britannici che hanno votato Leave, oltre che per un altro semplice motivo: in caso di rinuncia alla trattativa, i Conservatives, in questo o nel prossimo Parlamento, la Brexit possono attivarla benissimo tra loro, a maggioranza, nella maniera più dura e meno rispettosa dei lavoratori possibile. Ancora una volta, è caos all’interno del partito, solo che questa volta l’apparato che vuole liberarsi del leader ha come alleati tanti elettori del Remain delusi, in maggioranza nel Labour.
Corbyn, in una situazione complicatissima, prende la decisione più difficile. Si poteva fare diversamente, per avere una minima di chance sul processo che infine porterà alla Brexit? Sì, ma non troppo. Si poteva fare la voce più grossa con Theresa May, ad esempio. O si poteva scegliere di non forzare i parlamentari provenienti dai collegi che hanno votato Remain, andando però a chiedere rispetto del Leave a quel 70% proveniente dai collegi di provincia.
Si può dire che, per quanto strettissima e stentata, la strada scelta da Corbyn sia comunque una strada. I nemici interni invece, compreso l’ambizioso sindaco di Londra Sadiq Khan, continuano a ribellarsi e a complottare, purtroppo in maniera molto efficace. Gli avversari esterni, invece, se la ridono, fanno come vogliono, e andranno probabilmente a vincere – l’Ukip, in particolare – in seggi una volta sicuri per il Labour, Stoke On Trent e Copeland.
Sullo sfondo, la Brexit incombe. E rischia di essere più dannosa che mai, soprattutto per le fasce medie e le fasce basse della popolazione del Regno Unito. Come spessissimo capita, d’altronde.


Scritto da: Nicolo Scarano
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